di Mauro Baldrati
E’ l’era delle serie televisive. Accanto alla serialità di culto, Walking Dead, Breaking Bad, Doctor Who, ha preso forma una macchina seriale piuttosto articolata, Il trono di spade, True detective, Supernatural, Teen Wolf, solo per citarne alcune. Sono perlopiù produzioni americane e inglesi di genere crime, o fantasy, o storiche, come la canadese Viking, la britannica White Queen, l’americana Spartacus.
Gli americani, come al solito, primeggiano. Sono i più grandi commercianti del mondo e di tutti i tempi, ha scritto Don Winslow in Satori (un testo piuttosto commerciale, cvd), il prequel del classico di Trevanian, Shibumi. Tutto in loro è commercio: il bene, il male, le emozioni, gli ideali, l’etica, la religione, lo spettacolo. Commerciano bene, per cui curano i dettagli, e se è necessario osano, perché anche il coraggio è oggetto di commercio, anche la trasgressione, lo scandalo. E il prodotto deve essere adeguato. Se c’è da spaventare, si spaventa. Se c’è da provocare, si provoca. Se c’è da offendere, si offende. Senza reticenze, spingono quanto basta. Per dire, se ci fosse da fare la rivoluzione, farebbero anche quella, se questo risultasse funzionale al commercio.
In Italia, si sa, le cose vanno diversamente. Non abbiamo quella forma di professionalità frontale, quel coraggio semplificato di tipo protestante, ma l’eterna torsione bizantina. Ci avvitiamo nella reticenza un po’ falsa del cosiddetto buonismo, con serie televisive di preti-eroi, poliziotti senza macchia, storielle edificanti, il festival di Sanremo formato famiglia, che si alternano con telegiornali dove, alle odi sperticate agli algidi personaggi governativi, seguono servizi di cronaca supersplatter con massacri e sgozzamenti riversati sul video con una violenza verbale che lascia sbalorditi.
Eppure, anche gli italiani hanno alcune qualità da capitalizzare. Se gli americani sono pronti a commerciare anche l’anima, noi abbiamo la grande arte manifatturiera. Siamo i più grandi artigiani del mondo. Forse dovremmo dire siamo stati, saremmo. Purtroppo dobbiamo parlare al passato, quanto meno al condizionale, perché il Made in Italy è stato smembrato, svenduto, rovinato dagli “eroi nazionali”, come Renzi chiama con affetto gli imprenditori, che hanno delocalizzato la quasi totalità della produzione in Cina, Turchia, Pakistan, Polonia eccetera.
E questo ovviamente si ripercuote anche nello spettacolo e nell’intrattenimento. Perché quando un patrimonio nazionale viene svilito nessuno può veramente chiamarsi fuori.
Eppure, quando ci impegniamo, riusciamo a sfornare prodotti artigianali che spaccano. La filiera non è omogenea, non c’è una linea di produzione continua, malleabile, con plot adattabili e rinnovabili, ma quella raffinatezza, quella novità che il commercio industriale non riuscirà mai a raggiungere. E questo è un ottimo segnale, significa che non tutto è perduto.
E visto che stiamo parlando di serie, ne abbiamo almeno tre di genere crime che qualificano il Made in Italy a livello globale. Diciamo che potrebbero ricrearlo, rilanciarlo, se una grossa parte degli investimenti si spostasse da quei pecorecci di nuova generazione, da quei comici che occupano tutti gli schermi possibili e anche i palcoscenici, per sostenere invece la ricerca di un nuovo brand italiano. Non si tratta di nazionalismo, che significa populismo. E’ una battaglia per liberarci dalla colonizzazione, che fa del nostro paese una terra di scorrerie di tutti quegli agenti-ragazzotti del FBI, con modelle di vent’anni che comandano squadre di agenti speciali, di commedie e/o polpettoni americani per gli americani e per i sudditi del resto del mondo. Perché solo con uno stile proprio si può essere sovranazionali. Senza, non si è che subalterni.
Le tre serie sono, nell’ordine, La Piovra, storia di mafia iniziata nel 1984 e proseguita fino al 2001 con alti e bassi, ma che ha avuto registi come Damiano Damiani e Forestano Vancini; Romanzo criminale (2008-2010), tratta dal romanzo di De Cataldo, diretta dal figlio di uno dei maestri del western-spaghetti, Stefano Sollima; Gomorra, con Saviano tra gli ideatori, con la regia dello stesso Sollima, Francesca Comencini, Claudio Cupellini. Attualmente Gomorra è in programmazione su RAI 3 alle 22 circa.
Pur nella diversità stilistica e narrativa (La Piovra ha un background più da “sceneggiato televisivo”, le altre due sono più omogenee, con più azione e violenza), le accomuna quel mix “popolare” che le rende competitive: un uso consapevole del mainstream, che tuttavia non prende il sopravvento rendendole così prodotti da supermarket adeguati alla sub-cultura cui fanno riferimento; interfacce chiare e ben delineate dove la violenza, il politicamente scorretto, il coraggio nella rappresentazione del male non sono reticenti e al contempo non costituiscono oggetti di compiacimento; un’attenzione, almeno minima, alle tematiche sociali.
Gomorra, che si concluderà sabato prossimo, riprende in parte alcuni stilemi di Romanzo Criminale. In particolare la lingua. E’ recitato in napoletano stretto, coi sottotitoli. Anche Romanzo Criminale usava il romanesco, ma Gomorra usa una vera e propria seconda lingua che assume caratteristiche di argot, senza quei doppiaggi stereotipati che appiattiscono il tutto, e tolgono un elemento fondamentale della recitazione. La quale è credibile, una discesa nella cupezza dei personaggi votati al male, senza vita, perché la loro anima è morta.
Questo però si configura almeno a partire dal quarto episodio in poi. All’inizio stupisce come i camorristi siano abbastanza simpatici, sentimentali persino, impegnati perlopiù in piccole attività illegali con qualche modesta ammazzatina. La storia riguarda le vicende di un clan, i Savastano, il cui monarca assoluto, Don Pietro, vive con la moglie, Donna Imma, in un villa ultrapacchiana (vera, perché è stata confiscata a un boss), circondato dai guaglioni. Ha anche un figlio, Gennaro, una sorta di bamboccione timido e di stomaco debole che ad ogni omicidio vomita. Ciro è il braccio destro tuttofare, che prende “il lavoro” molto sul serio. Hanno tutti famiglia, sono devoti alla Madonna, e ai loro valori, che sono il dominio incontrastato del territorio, da conquistare e mantenere con ogni mezzo.
Poi la storia si incattivisce, i personaggi si de-eroizzano sempre più per sprofondare nella loro violenza, nella prepotenza, e l’empatia con gli eroi-antieroi si stempera. Anche se, per salvaguardare almeno in parte i nostri diritti di spettatori, siamo costretti a parteggiare per i Savastano nelle guerre civili contro i nemici, almeno fino al livello di guardia della progressione criminale. Che altro possiamo fare?
Il limite di una full immersion nel negativo assoluto, peraltro, resta. E’ uno dei problemi – anzi, IL problema – di una grande opera narrativa come Le Benevole di Littell: una inevitabile identificazione con un gelido SS straniato e totalmente amorale, tra massacri e folli dibattiti sulla supremazia della razza. Ma solo fino a un certo punto. Diventa addirittura vomitevole l’overdose di violenza e di tradimento senza soluzione né riscatto, con gli eroi che si immeschiniscono in un crescendo che ci fa diventare deboli di stomaco proprio come Gennaro.
Il quale torna dall’Honduras, dove è stato inviato dalla madre Imma per organizzare il traffico di cocaina (e qui come non evocare Scarface in Colombia), trasformato in una sorta di serial killer sanguinario che scatena guerre ferocissime con gli avversari di altre cosche. E ci si mette anche Ciro, che massacra, tradisce, tortura. Pur non essendoci scene di violenza particolarmente patinata, nella quale gli americani sono grandi maestri (un richiamo obbligato è Le Belve di Oliver Stone), si sprofonda in un buio afasico di oscuramento della ragione e di tutti gli umani sentimenti che diventa soffocante. Insomma, si sta come in certi romanzi di Ellroy, dove tutti, ma proprio tutti sono marci, corrotti, traditori e assassini. Non c’è un filo di luce né di aria fresca.
Forse proprio questo non essere patinato sottrae Gomorra all’omologazione americanoide e lo rilancia come prodotto coraggioso e innovativo, anche per la fotografia ad alti contrasti con scompensi cromatici che abbiamo visto in certi servizi dei fotografi d’avanguardia inglesi. E poi non c’è la solita esibizione di limousine nere, con quelle guardie del corpo inespressive con gli occhiali alla Terminator. I camorristi sono dei soggetti in fondo tristi, morti, vestiti modestamente, che ammazzano senza la solita esibizione modaiola delle armi di ultimo modello. Realisti insomma, o addirittura reali.
La competitività del prodotto originale, sganciato dal DNA patinato dei colonizzatori, si vede anche dalla qualità della recitazione non fumettistica. Sono tutti credibili, in grado di mantenere il loro personaggio che sembra vivere di vita propria, che è uno dei requisiti – non sempre soddisfatto in molte opere – della serialità. E di nuovo il confronto coi padroni regge. Se Oliver Stone ha messo una grande attrice hollywoodiana come Salma Hayek nel personaggio di Elena Sanchez, in Gomorra c’è un’attrice di nome Maria Pia Calzone che interpreta Donna Imma. Ci hanno detto che l’attrice stava per ritirarsi a vita privata, visto che non riusciva a lavorare come voleva. Poi è arrivato il successo. Meno male, perché con quella faccia di pietra, scolpita da una luce gelida, e quella parlata in napoletano, Donna Imma davvero non ha rivali.