di Luca Baiada (da Il Ponte, LXXI n. 2, febbraio 2015)
[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione.]
Ci giro intorno, e sto qui a rimproverarmi il mio esclusivismo, come a stuzzicarmi una cicatrice. Dodici morti sono pochi, al confronto con stragi lontane: solo quelle in Africa all’inizio dell’anno ne hanno fatti duemila. Eppure questi morti a Parigi pesano di più. Mi vergogno, se non posso fare a meno di mettere carni morte sui piatti di una bilancia, come un macellaio. E temo anche che l’arnese sia truccato. Ma non è solo emozione: l’assassinio dell’intelligenza e dell’ironia mi ferisce più dell’assassinio. Sto dunque fabbricando il mio orgoglio, oppure la mia innocenza.
Hanno voluto colpire la libertà, e l’attacco produce il suo effetto. Si ha un bel dire che così si fa il loro gioco, che si cade nella trappola. Se il delitto mi scuote, mi sconvolge, non posso far finta di niente per non dare soddisfazione agli assassini. Parigi è una capitale, la capitale della libertà. Solo mito? può darsi, ma anche di miti ci si nutre, e quando ti tolgono il pane di bocca te ne accorgi, anche se è pane mitologico. Intellettuali, i morti, sì, con le debolezze degli intellettuali, le contraddizioni. Ma non è per i loro difetti, che li hanno assassinati. Qualcuno salottiero, qualcuno sfacciato, ma non è neanche per questo, che li hanno assassinati. Facevano ridere, facevano arrabbiare, in un mondo che ha bisogno di cambiare, più che di divertirsi. Disertori dell’aratro e del partito, si direbbe. E neppure per questo, li hanno assassinati. E io qui a cercare le loro colpe, come a dare un senso a una strage. Ma non sono solo io. Le rivendicazioni non bastano, l’Europa si affanna a capire, ad analizzare, tutti scavano nei ma e nei perché. Si fruga nel sangue delle vittime, come un celebrante interroga le viscere di un agnello. L’hanno chiamata ossessione della causalità, a proposito di stragi nazifasciste, ed è allucinante che possa calzare bene una categoria pensata per i crimini di guerra. Chi fabbrica lo sgomento, sa bene di impadronirsi di un pezzo della mente delle sue vittime: «Noi ritorneremo, noi saremo sempre con te», dicono i torturatori, lo spiega bene Françoise Sironi nei suoi studi sulla violenza, fatti proprio a Parigi, partendo dal lavoro di Tobie Nathan.
La scena, come al solito, la rubano cronisti e opinionisti, generosi di commenti che tradiscono i fatti, che zuppano tutto nella propaganda. In Italia sono commenti di un livello così basso, che ci si chiede cos’altro debba succedere, per svegliare almeno un po’ questo paese rincretinito. Volano chiacchiere su anni Settanta, Brigate rosse, caso Moro, qualsiasi cosa. E come nella peggior retorica di guerra, ci si perde nei dettagli. Uno dei morti è un poliziotto di origine araba, e si chiosa questo per trarne chissà quali significati. Poi tutti a chiedersi se gli assassini erano preparati, se le loro mosse dimostrano un’istruzione militare meticolosa o improvvisata. Come se cambiasse qualcosa. E le telecamere, totem instancabili nel mondo della sorveglianza globale, non servono a impedire un massacro ma sono ottime per spettegolare, a crimine compiuto, su ogni gesto, ogni passo, ogni dettaglio, nutrendo i gusti morbosi, per avere tutti i particolari in cronaca. Come cammina un assassino, come si muove? di chi è quella scarpa? guarda, c’è un guanto!
Ma la prigionia delle minuzie e dei patemi d’animo ci prende tutti, come nella peggiore peste emozionale, e Wilhelm Reich l’abbiamo lasciato su una mensola troppo alta. Provo a riprenderlo: «Esiste un dovere di esprimersi che non può essere paragonato a nessuno degli altri doveri che sono cari agli uomini. […] L’umanità è biologicamente malata. La politica è l’espressione sociale irrazionale di questa malattia». È Psicologia di massa del fascismo, 1933, sembra parlare da un altro pianeta. Non riesco a liberarmi neppure io dal bisogno di interpretare, di mettere tutto questo sangue in una bottiglia. Forse ne ho paura. Forse è un modo per raccoglierlo amorevolmente, per bagnarne un panno e seppellirlo insieme alle salme, come in certi riti funebri.
Al bisogno di interpretare non si resiste, in fondo è un modo per ribadire la vita. Per esempio, ci sono le differenze di bersaglio, e ci sono quelle generazionali.
Dei dodici morti del 7 gennaio, otto lavoravano per Charlie Hebdo, gli altri quattro sono quasi ai margini del fatto e della volontà stragista: due poliziotti, un uomo delle pulizie, un visitatore: solo quest’ultima presenza è casuale, quella degli altri era prevedibile ma non cercata. Eppure quel dare il colpo di grazia al poliziotto a terra conferma che chi entra nel raggio dell’azione, cercato o no, ecco che lo vogliono morto. Per due terzi, muoiono perché proprio quelli, gli assassini volevano morti. Per un terzo invece, muoiono, così, già che ci sono.
Quelli che lavoravano per la rivista hanno un’età più alta, e c’è chi era nato prima della seconda guerra mondiale. Gli assassini, invece, sono giovani, e potrebbero essere figli delle vittime più famose, di alcune persino nipoti. Feroce realtà, la strage è anche questo: sbrigativa alternanza generazionale. Intellettuali fioriti nella cultura della pace, della decolonizzazione, dello sviluppo e della contestazione, come Wolinski che bambino sentì l’eco dei processi di Norimberga, Cabut che da giovane vide la rivoluzione cubana, Honoré che ventenne sentì cantare i Beatles, Maris che ragazzo vide il maggio francese, non sono mandati allegramente a riposo dall’arrivo sano di belle energie, più argute di loro, ma eliminati dal torvo, deprimente affacciarsi di clericoreazionari che riportano indietro l’orologio della storia, da gente che forse considera blasfema la stessa rivoluzione algerina. Davvero, è stato detto, hanno sparato al Sessantotto; ma allora anche allo spirito dell’Onu, all’autodeterminazione dei popoli, ai movimenti di liberazione e ad altre cifre della modernità.
I giovani devono mettere via i vecchi, per fare meglio di loro, per fare il mondo più allegro e felice. Invece tutto si capovolge. I vecchi che difendono la gioventù, il sesso, l’allegria e la libertà, e i giovani che fanno i vecchi, che distribuiscono castighi senza misericordia, in una festa di sangue, per invertire i ruoli della vita. Non era Gérard De Nerval, a osservare che il Ramadan sembra insieme Quaresima e Carnevale? Altri tempi, i poeti si spingevano nei dedali dell’esotismo, e c’erano in vendita le «pastiglie del Serraglio», per profumare i baci alla rosa. Il futuro serba sorprese che coglieranno mazzi di spine. E questi giovani che mettono a tacere il riso pubblico e solare, per poi sparire nell’ombra lasciandosi dietro cadaveri, sono i ministranti di un’operazione di annientamento. Dal Nacht und Nebel hitleriano, o dagli squadroni della morte sudamericani, li distingue la platealità del monito. Il loro crimine vogliono che sia visto nel gioco di specchi in cui è a bagno la società mediatica, non mormorato nei conciliaboli che una dittatura non può impedire. Ma la differenza è sottile, il terrore che si sparge con l’eliminazione degli intellettuali si insinua come un veleno, perché chiasso e brusio sono modi diversi con cui i teppisti possono dare la scalata a un’Europa debole, divisa, ostaggio delle botteghe e degli equivoci.
Su queste differenze, su queste incertezze, possono far luce i processi? La morte dei tre, in fughe rocambolesche che si trascinano dietro altro sgomento, altri morti, impedisce il processo, almeno quello ai più diretti esecutori. Forse avrebbero tentato di usarlo come propaganda, come atto d’accusa contro la Francia o l’Europa, probabilmente con esiti penosi. Nel video di rivendicazione di uno dei tre, la voce sembra quella del robot inceppato e depresso in 2001 Odissea nello spazio. La strategia giudiziaria teorizzata da Jacques Vergès richiede altro bagaglio, e per avere l’energia di Fidel Castro di fronte al tribunale del regime di Batista, bisogna averne le ragioni (e forse, come Fidel, essere un avvocato e aver studiato dai gesuiti, non all’ombra di un minareto di periferia). Anche a prezzo di sentire qualche rozza tirata e qualche manifesto teorico fatto col copia-incolla, sarebbe stato meglio prenderli vivi e fare un dibattimento; e comunque, la tentazione sbrigativa di aggirare la giustizia, di respingerla perché può dare troppa voce all’imputato, è una bestia che abita solo nelle dittature. Il processo a Klaus Barbie non fece dell’imputato un martire, se non per chi era nazista prima, e lì il difensore era di quelli che lavorano di fino. Già, è morto senza vedere questi possibili clienti, Vergès. Penso che li avrebbe difesi, per un avvocato è un dovere, eppure qualcosa mi dice che non si sarebbe trovato a suo agio come con la Raf o col boia di Lione. Né la decolonizzazione, né la messa in discussione dei rapporti economici, né una guerra sono sulla tabella di marcia dei macellai a Charlie Hebdo. Non tutti i grandi processi, sono processi ai grandi. La condanna dell’ultimo re di Francia consegnò alla storia parole lucidissime, giudicando un uomo che non era neppure dei peggiori, per la sua epoca. Ecco, un processo a quei tre era necessario, ma niente fa pensare che si sarebbe sentito un colpo d’ala sulla storia, dall’accusa o dal banco degli imputati.
È terrorismo, questo, o no? I fatti oltrepassano le misure conosciute. Le categorie giuridiche, burocratiche, poliziesche diranno di sì, eppure. Lo scopo è anche terrorizzare, ma la sostanza è un eccidio mirato, principalmente selettivo e in parte casuale, con una risonanza di avvertimento generalizzato. Però, anche la parte casuale seleziona le vittime, in fondo considerandole colpevoli di essersi trovate lì, come in una dinamica bellica. Brutta parentela, quella con la guerra. Dentro questo crimine ci sono la rappresaglia, l’eccidio, il monito esemplare. Da lontano arrivano ordini, più o meno precisi, e i militi li eseguono aggiungendo o interpretando; è la gara allo zelo tipica delle dittature, con le competizioni fra gruppi armati. Il nuovo fascismo ha trovato i suoi sicari, e sotto il cordoglio ufficiale non c’è da stupirsi a sentire i rintocchi di certi cinismi vecchi. Come tutti i fascismi, non dispiace del tutto, e non a tutti. Un giornale americano ha mormorato distratto che quella rivista poteva essere più cauta, anche qualche voce francese ha detto cose del genere, e dopo i primi giorni, anche in Italia si sono balbettate certe vigliaccherie. Sembra di sentire Giulio Andreotti quando disse che Giorgio Ambrosoli i guai se li era cercati. Che sia cresciuta all’ombra del Vaticano o che sia wasp o europea, a certa classe dirigente la libertà da sempre fastidio.
Eppure, in Italia dovremmo essere più smaliziati, in fatto di satira. Quando Berlusconi faceva da padrone, siamo stati anni a chiederci cosa fosse satira e cosa offesa. Da distinguo opachi e cervellotici dipendevano la carriera di un giornalista, la sicurezza economica di uno scrittore, mentre un basso impero incensava un affarista. Ridere del padrone era pericoloso. A Parigi, i censori col mitra sono più sbrigativi, e non provo neppure a immaginare cosa li faccia ridere. Ma sia chiaro. Non soltanto loro, sono i nemici dell’intelletto e dell’ironia, perché in tempi di superstizione senza fede, di sapere senza coscienza e di protocolli senza giustizia, il guizzo inafferrabile di una risata cortocircuita la mente, più pericoloso di un’eresia.
Vecchia storia, la repressione della satira riporta indietro, a cose da ricordare ma da non rivivere. Lettore appassionato del «Becco giallo», la rivista perseguitata dai fascisti, mio nonno possedeva i suoi numeri migliori. Li aveva custoditi a lungo, nel buio di una soffitta. A pochi passi Giovanni Gentile troneggiava sulla Scuola normale superiore, e non lontano aveva casa l’onnipotente gerarca Guido Buffarini Guidi. Il nonno mi raccontava con dolore di come fu costretto a disfarsi di quelle carte gustose, quando perquisizioni e rastrellamenti si infittirono, prima della sanguinosa liberazione del basso Valdarno, al tempo in cui proprio Buffarini era ministro dell’Interno nella repubblichina di Salò. Eccesso di prudenza? Alle Fosse Ardeatine qualcuno morì per una bandiera inglese, in Valdinievole bastò una falce e martello incisa su un bastone, altrove ancora meno. Devo ripensarci, quando so di Charlie Hebdo.
La risata è ancora temuta, in Italia, e basta vedere come viene dirottata verso l’idiozia da filmacci e libracci. In Italia – c’è da vergognarsi – una strage a Charlie Hebdo non può succedere, semplicemente perché non c’è una Charlie Hebdo. Una rivista che fa della satira e della vignetta la testa d’ariete, ma che poi affina l’intelligenza anche in altri modi: fra le vittime ci sono l’economista Bernard Maris e la psicanalista Elsa Cayat, anche loro caduti di una battaglia, impegnati in un lavoro intellettuale che si misura con gli argomenti più delicati. Invece, il paese con la capitale nelle mani della mafia di mezzo, di sotto e di sopra, l’intelligenza sa metterla a tacere con altri metodi: strangolamento economico, ricatto sociale e morale, dossieraggi schifosi che restano impuniti. Qui gli intellettuali rischiano meno, perché sperano meno, osano meno, e quando ridono lo fanno a bocca piena, magari curando una rubrica di gastronomia, così si può vederli masticare.
Charbonnier aveva detto in un’intervista: «Non ho paura delle rappresaglie. Preferisco morire in piedi che vivere in ginocchio». Ora che queste parole brillano di una luce che avremmo preferito non vedere, ora che vorremmo poterle considerare buffe o eccessive, stanno lì a insegnarci che i nemici della libertà vanno presi sul serio per tempo.
Tutto questo è Medioevo, è stravolgimento postmoderno? Chissà se qualche altra categoria vuole farsi avanti, per appiccicare su un crimine un’etichetta che faccia fare bella figura agli interpreti. Etichetta, appunto, ché l’etica è troppo impegnativa. Quando le categorie restano indietro, quando anche la tassonomia del sangue non torna, ecco che brilla il resto, con cui l’osservatore rischia di identificarsi. La sua cifra è emotiva, perché è l’unico appiglio cui ci si può aggrappare. È un istinto di sopravvivenza, più che di vita, eppure chi oserà vergognarsi, di provare sentimenti di fronte a una strage?