di Mauro Baldrati
Roberto Arlt, Acqueforti di Buenos Aires, traduzione di Marino Magliani e Alberto Prunetti, Del Vecchio Editore, Roma 2014, pp. 304, € 15,00
L’acquaforte è una tecnica pittorica che si basa sull’incisione di una lastra di metallo (zinco) per mezzo di acidi, creando una sorta di negativo che poi viene stampato a torchio su carta grossa. Si creano immagini ricche di linee, di contrasti, immagini essenziali eppure “forti”, spesso con atmosfere fantasmagoriche, in parte favorite dalla tecnica di realizzazione. Hanno utilizzato l’acquaforte i fiamminghi, Rembrandt, Van Dyck, gli spagnoli, Goya, de Ribera, ma anche Dürer, Morandi, Picasso, Chagall.
Roberto Arlt, scrittore argentino nato nel 1900 e scomparso nel 1942, ha utilizzato le acqueforti, ma con la scrittura. Incisioni letterarie, scritte dal 1928 all’anno della morte e pubblicate sul quotidiano El Mundo, per il quale erano diventate una rubrica molto seguita, tanto di creare vere e proprie file di lettori che aspettavano l’uscita del giornale.
Arlt era un giornalista-scrittore, e questi testi brevi, di lunghezza standard, costituivano una parte del suo lavoro. Ma lo stile utilizzato – che si discostava decisamente dallo “stile medio” argentino, che Arlt ha più volte ridicolizzato – un misto di ironia, racconto, invettiva, con echi poetici e immaginifici, li hanno ben presto configurati come testi letterari, tanto da essere definiti uno dei suoi capolavori, come i romanzi I sette pazzi (1929) e I lanciafiamme (1931). E Arlt, personaggio per certi aspetti misterioso, per non dire epico – polemista, autodidatta, con un passato di vagabondo, dopo essere stato espulso a otto anni dalla scuola perché turbolento – “per la mia felicità”, scrive egli stesso nell’aguafuerte Non è colpa mia – è diventato uno degli autori di riferimento per molti scrittori di origine latino americana, primi fra tutti Garcia Marquez e Borges.
In questi articoli-racconto l’autore vaga per Buenos Aires – nel senso che esplora la città della sua epoca – e sembra prendere appunti di viaggio, come se avesse una macchina fotografica letteraria, o un torchio per stampare le sue aguafuertes. Traccia ritratti di personaggi, li cataloga, quasi sempre tipi molto caratteristici, esponenti di quella fauna metropolitana di strada di una grande città in rapida trasformazione, che trasferiti nei nostri tempi non hanno perso nulla della loro vivacità. E anche della loro attualità, rafforzando così l’opinione che l’artista ha la capacità di toccare corde universali, che attraversano i tempi e le mode. Descrive luoghi, abitudini, scatta istantanee di angoli nascosti, ne approfitta per analizzare i comportamenti umani, individuare stranezze, piccole miserie e infelicità, sempre col suo stile apparentemente leggero, in realtà graffiante, qua e là sarcastico, ma anche affettuoso. Si avverte il suo sorriso mentre ritrae L’uomo con la canottiera fuori dai pantaloni, quel giovane perennemente sfaccendato che nelle torride giornate di Buenos Aires se ne sta seduto in cima alla scala di casa, “solitario, la canottiera fuori dai pantaloni, i baffi girati in su, faccia malinconica, chioma nera, con le espadrillas ai piedi schiacciate sui calcagni”. E’ il “Guardiano della Soglia”, mentre la moglie, stiratrice, sgobba tutto il giorno. Oppure gli innamorati nel Parco di Rivadavia, sorpresi nelle loro effusioni durante le gelide giornate di pioggia, incuranti delle panchine bagnate, del vento, perché non esiste nulla all’infuori del loro amore, mentre Lo scapolone tremante e sbalordito cammina con la testa incassata nelle spalle. Proprio lui, l’autore, mescolando verità e finzione, poesia sociale e selfie, entra a gamba tesa nel Monologo dello Scapolone, che qua e là ricorda L’Antologia di Spoon River per quella voce sola che sembra alzarsi nel silenzio del deserto: “Credo nell’amore quando sono triste, mentre quando sono contento guardo certe donne come se fossero le mie sorelle, e mi piacerebbe poterle fare felici, anche se non posso nascondermi che un pensiero del genere è davvero una sciocchezza, già che è impossibile che un uomo faccia felice una donna, immaginiamoci tutte.”
Le Acqueforti spaziano in molte direzioni, campionano dialoghi, descrivono luoghi che stanno scomparendo, divorati dalla città che si espande, spesso con uno stile che sembra ricalcare la tecnologia, come in Gru abbandonate nell’isola di Maciel, un incisivo ritratto di archeologia industriale: “Guardando ovunque, attorno alle venti gru, infilate come condannati a morte, non si nota altra realtà che quella della paralizzazione della vita”. Usa diversi registri, mette in poesia la mitopoiesi del suo tempo, analizza filologicamente il lunfardo, lo slang di Buenos Aires derivato da una contaminazione dello spagnolo coi dialetti italiani.
In questa fusion stilistica/contenutistica non mancano battute sarcastiche sulla corruzione che avanza, parallelamente con lo “sviluppo”: “Se io fossi consigliere di un partito, non scriverei affatto articoli, ma mi dedicherei a fare truculente sieste e accordarmi con tutti quelli che avessero bisogno di un voto per vedersi approvare ordinanze che farebbero loro guadagnare milioni”.
Basterebbe questa aguafuerte per fare di Roberto Arlt uno scrittore attuale, perché è proprio dalla capacità di sintesi, dal coraggio di indignarsi e dal rendere creativo il proprio sarcasmo, mettendo in gioco se stessi, che si perpetua la vera modernità.
[Acqueforti di Buenos Aires sarà presentato domani, 28 gennaio, alla libreria Trame di Bologna (Via Goito 4c) alle ore 18. Mauro Baldrati intervisterà Marino Magliani]