di Luca Baiada
(da «Il Ponte», LXXI n. 1, gennaio 2015)
[Si ringrazia la rivista Il Ponte per la gentile concessione]
La stagione dei settantesimi anniversari delle più gravi stragi nazifasciste – furono compiute nel 1944 – è chiusa, ed è tempo di qualche nota. Prendo spunto soprattutto dalla strage del Padule di Fucecchio del 23 agosto, di 174 morti, perché è delle più gravi e meno conosciute.
I caduti. In Italia sono almeno quindicimila, di cui cinquemila in Toscana. E questo considerando solo i morti civili, esclusi i partigiani uccisi in combattimento, ed esclusi anche i militari uccisi dopo l’8 settembre 1943, o deportati e uccisi, o deportati e tornati stremati, per una breve sopravvivenza.
I castighi. Pochi ufficiali tedeschi sono condannati, subito dopo la guerra, e già negli anni Cinquanta in Italia restano in carcere solo Kappler e Reder, colpevoli l’uno delle Ardeatine, e l’altro di un fascio di massacri. Figure intermedie, un colonnello e un maggiore: non troppo in basso, per non infierire sul sano popolo tedesco, e non troppo in alto per non disturbare gli alti comandi. Uno lo fanno fuggire nel 1977, l’altro nel 1985 si finge pentito e lo lasciano andare in Austria, dove subito chiarisce di non essersi pentito per niente. Dopo la fine della guerra fredda si celebrano altri processi, ma solo le condanne di Erich Priebke e Michael Seifert hanno esecuzione. Il primo lo consegna l’Argentina, il secondo il Canada. Tutti gli altri restano in Germania, anche da condannati.
I risarcimenti. In pochi casi, solo a partire dal 2006, si condanna al pagamento lo Stato tedesco, ma quello ricorre alla Corte di giustizia dell’Aia, l’Italia si difende benone, e quindi la Germania vince ottenendo dalla Corte, nel 2012, una pronuncia contro i risarcimenti di Stato. I privati tedeschi, invece, restano condannati a pagare i danni alle famiglie italiane e agli enti locali. Ma non pagano. E già che ci sono, siccome questi esborsi li hanno messi sul lastrico, non pagano neanche le spese. A proposito di Fucecchio: le condanne ai risarcimenti, disposte nel 2011, contenevano le provvisionali, cioè liquidazioni in acconto, in favore di enti e famiglie. In tutto, per questa sola strage, 14.690.000 euro. L’acconto i tedeschi non l’hanno pagato, quindi il saldo non vedono l’ora di pagarlo.
Adesso, per i settantesimi anniversari, tante commemorazioni, con parole, musiche e spettacoli. Tutto necessario, certo. Eppure, ripetuta ossessivamente, la parola memoria prende un senso strano. Già ebbe un che di acidulo dopo il 1989, perché prima memoria non aveva questa cittadinanza nel linguaggio politico. Ma ora, con la memoria al posto di altro, sembra una toppa peggiore del buco. La giustizia è zoppa, ma eccovi la memoria. Assassini impuniti, ma tanta memoria. Nessun risarcimento alle vittime, ma abbiamo buona memoria. Come quella della funzionaria tedesca che ha parlato alla commemorazione di Fucecchio. Pazienza che abbia detto Pàdule invece che Padùle, ma non ha nominato affatto il nazismo, e ha ricordato 170 morti invece che 174. Un piccolo sconto, dai. Peso bono, prezzo tondo. In quel momento, nei cimiteri del Valdarno, 174 diversamente vivi si sono guardati sbigottiti, e si son chiesti chi sono i quattro di troppo, gli sforbiciati per alleggerire la colpa ai tedeschi: Maria Malucchi, di quattro mesi? Carmela Arinci, di 94 anni? Angiolo e Angiola Borghini, marito e moglie? Chissà chi sono i quattro, ammazzati nel 1944, e dimenticati davanti a un monumento nel 2014.
A questi incontri, eventi coi vip nella location, c’è la Germania. Invitata e riverita, alacremente commemora. Costa meno che pagare i risarcimenti. Già, il risarcimento: non è una parolaccia, eppure questo personaggio dev’essere proprio sozzo e pustoloso, se in pubblico è stato ricordato così poco. A Fucecchio, per esempio, per niente. Al suo posto, un’altra parola è stata ripetuta fino a consumarla: riconciliazione. Dopo un conflitto ci si riconcilia, certo. E davvero, la battaglia fra una bambina di pochi mesi e la Wehrmacht è deplorevole, perciò merita di essere chiusa con un brindisi: zum Wohl!
Risarcimento, invece, significa pagare il dovuto alle famiglie e agli enti, cominciando con le provvisionali disposte nelle sentenze dopo il 1994. A volte, negli ultimi tempi, si è parlato di riparazioni. Magia delle parole. Le riparazioni sono somme modeste, pagate solo agli enti, non alle persone, per iniziative memoriali: qualche albero, una lapide, una gita scolastica. Corre voce che così un Comune abbia ottenuto tre o quattromila euro. No, non ci credo: è il prezzo di una moto usata, e per quel Comune una sentenza ha stabilito un acconto di 50.000 euro. Certamente sono maldicenze.
Risarcimento, dicevo, significa denaro, e neppure questa è una parolaccia, anche se un certo senso di colpa trattiene i familiari delle vittime dal rivendicare il denaro. Non per tutti è così, ma molti provano vergogna, un sentimento in cui gli assassini, o piuttosto i loro eredi, zuppano tranquilli l’impunità. Ma a Fucecchio, lo scorso agosto, la funzionaria tedesca si è commossa, la voce spezzata, e al sentimento ha aggiunto la poesia: pioveva, e ha spiegato che nell’anniversario della strage anche il cielo versava lacrime. No, la poesia dopo: bisogna che la Germania versi denaro, a cominciare da quei quasi quindici milioni di euro di acconti.
Il risarcimento del danno non economico, come quello da lutti e privazioni, nelle università italiane lo insegnano, pensa un po’, con un nome tedesco, Schmerzengeld: il denaro del dolore. Denaro, appunto. Invece le lacrime del dolore, Schmerzentränen, non sono previste come mezzo di pagamento. Se lo fossero, ci si potrebbero rimborsare i titoli italiani, quando li mette all’incasso la Germania. Ma questa possibilità è remota, e sono sereni, i sorrisi dei funzionari di Berlino alle cerimonie. Sereni come il cielo dopo un temporale.
E i discorsi delle autorità? Sono autorevoli discorsi, certo. Però, e torno sempre a Fucecchio, un italiano di Cintolese ha parlato così:
«Mi chiamo Quinto Malucchi. Ho settantasette anni. Perciò, settant’anni fa avevo sette anni. Un bambino come tanti, che abitava in via del Fossetto, dove ora c’è una fabbrica di scatole. Eravamo sei figli. Quando la casa venne requisita dai tedeschi, che ci posizionarono un cannone, ci costrinsero a lasciarla. Il mio babbo, insieme a’ suoi cugini, trovò una capanna all’inizio del Padule, di sotto la Nievole. Il proprietario utilizzava questa capanna per metteci il fieno che allevava i cavalli. Fra tutti eravamo ventuno. Si dormiva in terra sui materassi di cartocci di granturco. Mamma insieme alle cugine andava a fare ’l pane a casa, gli omeni andavano a badare agli animali. I tedeschi quando c’avevano da fare dei lavori prendevano trenta-cinquanta uomini. La mattina del 23 agosto gli omeni si nascosero nelle fosse dietro l’erba alta. Il mio babbo si nascose in una buca, che aveva scavato per allevare i maiali. Lì i tedeschi lo uccisero, lasciando vivi gli animali. Mia madre aveva quarant’anni, vedova con sei figli, la più grande vent’anni, la più piccola quattr’anni. Convivere con un dolore così forte e con una miseria nera. La guerra non risolve i problemi. La guerra porta miseria, dolore e disperazione».
Ecco i fatti. Ecco un uomo. Perché le autorità non possono essere queste, perché? L’Italia profonda ha persone così, vengono fuori quando meno te le aspetti, a smentire l’idea funesta che ci facciamo vedendo troneggiare una qualsiasi grisaglia.
Poi ci sono i paragoni coi crimini di guerra che si consumano oggi, lontano o sulle soglie dell’Europa. Paragoni come compitini, e se ne sono sentiti alle commemorazioni delle stragi, con disinvoltura sospetta, sempre ripetendo che la memoria serve a impedire altra violenza. La realtà è diversa. Meglio che gli armati di oggi non sappiano nulla delle commemorazioni italiane, altrimenti potrebbero ragionare così: i responsabili delle stragi naziste sono rimasti impuniti, si è parlato di riconciliazione, ma niente risarcimenti. Insomma, a commettere stragi si rischia, tanto tempo dopo, di fare discorsi, spettacoli e deposizioni di fiori, e di mandare qualcuno a commuoversi e a parlare di lacrime del cielo (speriamo che piova).
Sciagattata, la memoria diventa al centro lo spettacolo di una classe dirigente autoreferenziale, ai margini il brusio di chi ricorda veramente, di chi porta i lutti sulla carne, ma non è abbastanza visibile. In certe occasioni pubbliche c’erano superstiti che mormoravano la loro scontentezza, la delusione, l’insoddisfazione per il senso di retorica, di posticcio. A contrariarli sono le parole di circostanza, le frasi consumate, le lacune.
Non sono certo le attenzioni della capitale, a consolare. La commissione parlamentare sull’armadio della vergogna, insediata nel 2003, ha chiuso i lavori nel 2006 e non c’è stata una discussione in aula. Nel 2014 un’interpellanza alla Camera, firmata da vari gruppi, ha chiesto al governo di muoversi per l’esecuzione in Germania delle sentenze italiane, e per eliminare ogni segretazione sugli atti acquisiti dalla commissione 2003: non è stata trattata, sta lì e arrugginisce. Visto che l’armadio della vergogna fu riaperto nel 1994, l’interpellanza e le relazioni della commissione saranno discusse quando l’italiano sarà una lingua morta.
Ma non tutto è fermo, e si è aperta una bella pagina: in processi civili contro lo Stato tedesco, il Tribunale di Firenze ha sollevato la questione di costituzionalità, smentendo la sentenza dell’Aia del 2012: «Invocare l’eguaglianza sovrana tra gli Stati […] vuol dire rifiutare di pronunciare giustizia». E a ottobre 2014 la Corte costituzionale ha accolto la tesi, disturbando il letargo del diritto internazionale e riaprendo la strada alle azioni legali sui beni della Germania:
«Il limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento internazionale e sovranazionale (artt. 10 e 11 Costituzione) è costituito […] dal rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo, elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale. E ciò è sufficiente a escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili».
Questo successo civile e umano, prima ancora che giuridico, si deve alla tenacia dei deportati e dei superstiti, e anche all’avvocato Joachim Lau, un legale tedesco attivo in Toscana, al magistrato di Firenze Luca Minniti e ai giudici della Corte, soprattutto al presidente Giuseppe Tesauro. C’è chi cerca la giustizia senza accontentarsi della memoria.
Cos’è, la memoria? Un italiano di Empoli, deportato in Germania nel 1943: «Confidavo al mio diario le mie amarezze, le umilianti azioni degli aguzzini tedeschi, ma anche i miei desideri e le mie speranze». Quel diario glielo trovarono le guardie:
«Un vastissimo campo isolato nella campagna: era la prigione, e me ne resi conto dalla numerosa sorveglianza e dal ferro spinato a forma di croce ad ogni finestrino. Mi fu tolto vario vestiario e rimasi con la camicia e in pantaloni, e il misero corredo fu completato da un paio di enormi zoccoli di legno, che dovetti calzare per tutto il tempo di permanenza nel campo. Il freddo era tremendo, dieci gradi sotto zero, i giorni monotoni e interminabili li trascorrevamo stretti l’un l’altro con gli altri tre occupanti la cella, conversando a bassissima voce pena l’esser puniti con un nerbo che feriva a sangue le carni. Ogni mattina sveglia alle quattro, appena giorno venivamo mandati fuori per svolgere la consueta marcia quotidiana punitiva, che consisteva nel trascinarsi dietro i pesanti zoccoli, di circa un chilo e mezzo l’uno, attorno alle aiuole del giardino, coperte di neve, con la testa china, ciò dalle due alle tre ore».
Colpevole di scrivere: pericolosa, la memoria vera. Invece, quella al posto della giustizia è parole al posto dei fatti, peggio dell’oblio. Ultimo sipario della società dello spettacolo, la memoria tappabuchi nutre professionisti della parola, confezionatori di brutti opuscoli e di messe in scena rozze, sperimentatori di cose vecchie che è facile contrabbandare per avanguardia, dopo i saldi di stagione e prima della sagra del coniglio. Un piccolo notabilato abbocca, la pastura è buona e costa poco, il pubblico non paga perché non si accorge che ha già pagato, e si torna a casa con le mani colme: guardate, ho preso gratis la memoria.
Viene in mente la novella Passaggio memorabile di Renato Fucini, scrittore toscano dell’Ottocento. In un paesino arriva una compagnia di imbonitori girovaghi, che distrae dalla miseria e poi se ne va lasciando tutto come prima. E alla fine: «Il medico sfogliava gli ultimi fascicoli dello Sperimentale per trovarci qualche condotta vacante, e Nando barrocciaio scordava la fame abballottandosi in braccio la sua creaturina che rideva».