L’Italia rimossa tra percorsi postcoloniali e ritorni di colonia
di Antonella Festa
Igiaba Scego, Rino Bianchi, Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, 2014, pp. 176, € 13.00
“Da noi il viaggio di migrazione si chiama tahrib e il sentimento del viaggio si chiama buufis. Ho sempre trovato la parola buufis una parola allo stesso tempo inquietante e bellissima. Nella lingua corrente buufis significa gonfiare. Si gonfia una ruota, un palloncino. Ma si gonfia anche la speranza. Ed è questo significato della parola che si è imposto in questo triste ventennio di guerra civile somala. Buufis, mi ha detto una volta un ragazzo richiedente asilo, è come l’amore, è qualcosa di inspiegabile, ti prende alle viscere e tu non sai bene perché. È la voglia, mi ha detto, che hai di cambiare vita, di migliorare la tua situazione. Il buufis ti fa scappare da guerre, dittature, da torture, da stupri. Ma il buufis l’ho visto anche in Italia, nei giovani che vanno in Germania o Inghilterra in cerca di lavoro, per cambiare situazione di vita” (Scego, Bianchi, Roma negata, p. 44).
Il buufis, ossia la voglia di viaggiare intesa come diritto alla mobilità e insieme alla conoscenza, attraversa e muove i percorsi postcoloniali di Igiaba Scego e Rino Bianchi in una Roma negata ripercorsa in un alcune tappe fondamentali scandite non solo da monumenti, strade, piazze, ma anche dai volti fotografati dall’obiettivo di Rino Bianchi. Un processo, dunque, di attraversamento e di riappropriazione dello spazio urbano, volto a decolonizzare lo sguardo e risignificare gli spazi, rivendicando una storia comune.
Questo interrogativo, già nel 2010, aveva portato alla pubblicazione de La mia casa è dove sono, in cui Igiaba Scego, a partire dai suoi piedi, aveva iniziato un percorso di attraversamento dello spazio romano, cucendo insieme episodi della sua storia di italo-somala con quelli di un’Italia che ha consegnato all’oblio pezzi interi della sua storia coloniale in Cirenaica e nel corno d’Africa. Così, Igiaba e i suoi piedi, nati a Roma perché suo padre era innamorato di Nat King Cole, erano partiti dal Teatro Sistina per arrivare allo Stadio olimpico, seguendo una mappa fatta di intrecci tra l’autobiografia e quelle vicende di Italia e Somalia che la Storia “ufficiale” ha rimosso.
Alcune tappe di Roma negata sono comuni a quelle di La mia casa è dove sono: è come se l’autrice volesse ritornare sopra alcuni luoghi, incalzata dal desiderio di leggerli, decodificarli e di sottrarli all’oblio. Uno di questi è Piazza di porta Capena, dove il vuoto lasciato dalla stele di Axum, bottino dell’Italia fascista restituito solo nel 2005 all’Etiopia, sembra inghiottire il nostro passato imperialista. Sembra, perché se quello spazio lasciato vuoto dalla stele di Axum non è stato riempito da un altro monumento alla memoria delle vittime del colonialismo italiano, è proprio in un’aiuola di Porta Capena che sono state poste due colonnine a mo’ di sipario ad una targa in memoria delle vittime dell’11 settembre 2001. È l’Africa, dunque, che manca all’appello.
Da dove si comincia? Anche la stele di Dogali, e il degrado in cui è abbandonata, sono paradigma del degrado della memoria o, meglio, della memoria di alcuni, e solo alcuni, fatti. Come la stele di Axum, anche quella di Dogali è stata trafugata dall’Africa, più precisamente dall’Egitto, dall’imperatore Domiziano ed era stata posta nel 1887 davanti alla stazione di Termini per commemorare l’eccidio dei 430 italiani morti nella battaglia di Dogali, in Eritrea. Ben prima dell’epoca fascista, dunque, la neonata nazione italiana, alla prese con la costruzione di una sua identità, tentava di ricavarsi un posto nello scacchiere delle politica coloniale europea a spese del continente africano. L’insurrezione degli eritrei contro i colonizzatori italiani, e l’eccidio di questi ultimi, vennero trasfigurati in scontro epico, atto di eroismo e di sacrificio per la patria, con una tale enfasi che i morti nello scontro divennero 500 e a questi venne dedicata una piazza, l’attuale piazza dei Cinquecento. Ed è bizzarro (o forse macabro), osserva l’autrice, che la stele di Dogali ad oggi si trovi nei pressi della chiesa di Santa Maria degli Angeli, dove si svolgono i funerali dei militari caduti nelle operazioni internazionali di peacekeeping.
Ma se da un lato piazza dei Cinquecento reca il segno dell’umiliazione subita dagli italiani per la rivolta degli eritrei all’oppressione coloniale, da un altro, con la stazione Termini e la fermata degli autobus, è il luogo delle migrazioni per eccellenza. Ed ecco che l’obiettivo di Rino Bianchi ritrae Amin Nour in piedi su una sorta di podio proprio a piazza dei Cinquecento, con la stazione Termini alle spalle e lo sguardo rivolto lontano. In questa fotografia si legge tutta la volontà di decolonizzare il punto di osservazione e le narrazioni dominanti, smontando quel dispositivo coloniale che per comodità si attribuisce solo al fascismo, ma che in realtà salda la fase liberale a quella fascista di una Italia che è nata e cresciuta su due colonizzazioni, entrambe orientate a sud: quella del meridione e quella dell’Africa.
Tale dispositivo coloniale – e razzista – non è stato ancora disinnescato, in ragione delle continue rimozioni e sovrapposizioni di memorie di serie A su memorie di serie B, ma anche dell’inossidabile mito degli italiani brava gente, che rivendicano a sé il merito di aver costruito strade e ponti in Africa, ma non il primato dei campi di concentramento in Cirenaica, dove gli italiani sterminarono popolazioni inermi ben prima di quanto fecero i nazisti con gli ebrei. E se è vero, e lo è, che gli spazi non sono mai neutri, appare allora quanto meno singolare che ancora oggi la FAO sia ospitata nel palazzo che in epoca fascista ospitava la sede del Ministero dell’Africa orientale.
Igiaba Scego sottolinea come il dispositivo coloniale e razzista si sia retto sulla costruzione di una propaganda sessuata che, seppur con delle variazioni, ha sostenuto tanto il colonialismo liberale quanto quello fascista. Già nel 1995 Anne McClintock osservava come la tradizione porno-tropica, da Cristoforo Colombo in poi, legittimi lo stupro coloniale assimilando la “terra vergine” al corpo della donna ed erotizzando in questo modo lo spazio geografico, riprodotto come appetibile terreno di conquista mediante la sovrapposizione tra esotico ed erotico.
A partire dalla fine dell’Ottocento, cominciano a svilupparsi, soprattutto in Italia, ditte specializzate in nudi femminili, che, mediante la fotografia, fissano nell’immagine stereotipata della Venere nera la presunta lascivia delle africane, appiattendole sull’identità sessuale con lo scopo di invogliare forza-lavoro maschile al trasferimento nelle colonie.
Tale rappresentazione comincia a cambiare con il passaggio dalla formazione di un’identità nazionale alla formazione di una identità imperiale, fondata sulla coscienza di razza e quindi su una rigida linea di demarcazione tra razza bianca e razza nera e affermazione della superiorità della prima sulla seconda.
In seguito alla dichiarazione dell’Impero nel 1936 e alla legge sulle Sanzioni sui rapporti di indole coniugale tra cittadini e sudditi viene intrapresa la lotta al meticciato, condotta attraverso la disciplina della sessualità e una vera e propria “africanizzazione” dell’Africa.
La fotografia continua a reificare la donna africana, rappresentandola sì come una seduzione, ma questa volta una seduzione minacciosa da cui il buon colono civilizzatore deve sapersi tenere alla larga. Questo monito è raffigurato anche per mezzo di vignette satiriche, per esempio nella serie di Enrico de Seta, 1935-36:
La lotta al meticciato porta con sé la messa al bando del madamato, una relazione di concubinaggio, temporanea, ma non occasionale, tra indigene nere e coloni bianchi preesistente all’impero, con il conseguente abbandono dei figli nati da quelle relazioni. In alcuni casi, come ci testimoniano le vite di Isabella e Giorgio Marincola – narrate da Wu Ming 2 e Antar Mohamed in Timira – i figli meticci non venivano abbandonati dai padri, ma sottratti alle madri, molto spesso declassate a prostitute solo per neri, e trasferiti in Italia perché venissero civilizzati e dove li attendeva un futuro sempre ai margini di questa e quella “razza”. Dopo la proclamazione dell’Impero, la formazione di una coscienza di razza si salda alla formazione di una coscienza di genere che assegna alle bianche una funzione moralizzatrice, di cui ancora si avverte una potente eco nelle posizioni neocolonialiste di certo femminismo neoliberale, alle prese con il fardello della femminista bianca impegnata nelle lotte islamofobe contro il velo e in quelle contro una prostituzione essenzializzata nel frame della nigeriana che batte ai bordi delle strade. Alle donne che si trasferivano nelle colonie al seguito dei mariti spettava, infatti, allontanare gli uomini dalla tentazione delle Veneri nere, salvaguardando tanto la moralità, quanto la purezza biologica della sedicente razza superiore.
La scarsezza di dati, la difficoltà di accesso agli archivi, non ancora resi disponibili alla collettività, l’elusione di una cosciente e critica opera di rielaborazione politica caratterizzano tutta la storia coloniale dell’Italia fino ai giorni nostri, ma interessano in particolar modo le testimonianze inerenti le atrocità di cui furono oggetto le donne africane per via di una oppressione triplice, dovuta non solo alla razza e alla classe, ma anche al genere. È di questa triplice oppressione che ancora nel 2009 ci raccontava Isabella Marincola intervistata da Aureliano Amadei:
«Io ero figlia di una zoccola, ero figlia di una puttana, io ero una negra, puzzolente, ero veramente un rifiuto della società, questa è stata la mia infanzia […]. Qualcuno ha detto: è una grandissima troia…perché a Roma… mamma mia….è andata a letto con tutti meno che con il Papa e con Togliatti. […] Queste promesse… chissà perché una persona scura, nera, promette dei nirvana, delle cose così goderecce, questo non l’ho mai capito, come se fossi un mondo da scoprire, come se avessi delle doti nascoste. No, assolutamente […]. Una persona come me, non può stare in Somalia. Una gaal non sta in Somalia. Se ne va fuori dalle palle, subito. Una gaal, un’infedele. C’è un razzismo in Somalia… straordinario. No, non mi sono mai più sentita in casa. […] Allora mi ricordo che qualcuno mi ha detto: sei la vergogna della razza. Allora mi sono chiesta… quale razza…».
Ri-appropriarsi delle storie e dunque della Storia significa allora non accedere semplicemente agli archivi, ma anche riconoscere una storia comune ed assumere una prospettiva decoloniale che legga il passato e, dunque interpreti il presente, nelle intersezioni tra razza, classe e genere, rivelando le asimmetrie di potere e quindi i rapporti di subalternità che hanno strutturato, e continuano a strutturare, le relazioni tra Italia, Somalia, Eritrea, Etiopia e Libia. Significa smantellare la narrazione coloniale degli “italiani brava gente”, sedimentatasi nell’immaginario collettivo ad opera della propaganda fascista, e abbandonare una volta per tutte l’ansia civilizzatrice, deponendo quel fardello dell’uomo bianco (e della femminista bianca) che continuiamo a portarci dietro in molte missioni di peacekeeping.
Il lavoro di Igiaba Scego e di Rino Bianchi ci spinge a ri-affrontare il discorso sul colonialismo italiano da queste angolature, un discorso che si rende necessario e improcrastinabile proprio ora che l’Italia è attraversata da flussi migratori narrati come emergenza, che, scollegati da una visione storicista, innescano meccanismi di sdoganamento di posizioni xenofobe e di destra. Un processo, quest’ultimo, che va oltre il ritorno di colonia di cui qualche anno fa parlava Silvana Palma ad indicare una rivisitazione nostalgica del passato coloniale, quasi una sorta di mitica età dell’oro, in cui l’Italia costruiva la sua prosperità ed il suo benessere sullo sfruttamento delle colonie. Le forme di accumulazione e di profitto del capitale sono per certi versi cambiate rispetto sia all’epoca liberale che a quella fascista, ma cionondimeno continuano a funzionare in maniera anche più pervasiva, estraendo valore dalle nostre vite e, con una particolare ferocia, da quelle dei migranti. Nell’era del bio-capitalismo globale non è più nemmeno necessario spostarsi in colonia per estrarre profitto dalle vite di somali, eritrei, etiopi, richiedenti asilo e migranti di qualsivoglia nazionalità. L’inchiesta “Mafia Capitale”, che ha scoperchiato il business della cosiddetta “emergenza immigrati” e dei campi rom, sta lì a dimostrarlo.
Sitografia e bibliografia di riferimento
Nicoletta Poidimani, «Faccetta nera». I crimini sessuali del colonialismo fascista nel Corno d’Africa, qui
Chiara Volpato, La violenza contro le donne nelle colonie italiane, qui
Corpi di donne nel colonialismo italiano, in “Schiavi e servi”, qui
Quale Razza?, documentario su Isabella Marincola realizzato da Aureliano Amadei, qui
Anne Mc Clicntock, Imperial Leather. Race, gender and sexuality in the colonial contest, Routledge, New York, London, 1995
Silvana Palma (2007), Il ritorno di miti e memorie coloniali, in Afriche e Orienti, n 1