Operaismo, traduzione e luoghi fortiniani. Un’intervista con Luca Lenzini
di Alberto Prunetti
A.P. Quando, ormai più di venti anni fa, sono arrivato a Siena per studiare all’università, Franco Fortini era morto da poco. Negli anni Ottanta, terminato il suo incarico di docenza, Fortini tornava ogni anno nella città toscana almeno per un seminario. Pur non avendolo mai incrociato di persona, la sua immagine mi è subito diventata familiare perché in certo modo gli passavo davanti ogni giorno, entrando nei locali della biblioteca di Lettere nei pressi di Porta Romana: qua risiede infatti l’archivio Fortini e una gigantografia del poeta presiede l’entrata della biblioteca. Quella foto è ancora lì, nonostante negli anni si siano succedute le voci di un possibile spostamento della biblioteca di Lettere in locali più angusti. Resiste la biblioteca, resistono la fotografia di Fortini, l’archivio Franco Fortini e Luca Lenzini, che è il direttore della biblioteca e dell’archivio e il curatore dell’opera poetica fortiniana, appena raccolta in un paperback di 858 pagine dalla Mondadori (Tutte le poesie 1935 – 1994).
Colgo così l’occasione per porre alcune domande a Luca Lenzini. Vorrei partire dall’operaismo di Fortini. Siena è stata un luogo importante per una certa visione critica e militante del marxismo. A Siena insegnavano importanti critici marxisti, c’erano alcuni dei redattori di Officina, aveva un incarico di docenza Mario Tronti. Fuori da Siena, Fortini è stato coinvolto in altre frequentazioni operaiste, come il rapporto con Panzieri e i «Quaderni rossi». Ti chiederei allora di provare a collegare Fortini, nella vita o nell’opera, come preferisci tu, a due realtà spesso non coincidenti tra loro: gli intellettuali operaisti, che spesso erano persone in carne e ossa, frequentati da Fortini, e gli operai, che troviamo talvolta rappresentati in alcune sue poesie, e che lui probabilmente frequentò nell’esperienza aziendale di Ivrea. E qui penso ai versi di “A un’operaia milanese”, alla poesia “L’officina”, o al “Sonetto dei sette cinesi”, che però sta ne L’ospite ingrato. Insomma, Luca, ti chiederei in primo luogo di parlarci dei rapporti di Fortini con gli operai e gli operaisti.
Luca Lenzini: Per rispondere a questa domanda, mi sembra vada messo in evidenza, prima, il fatto che quando Fortini si forma, l’orizzonte della “lotta di classe”, quale si definisce nella tradizione marxista e nei partiti che ad essa si richiamavano, in sostanza era estraneo alla sua cultura. Gli anni fiorentini, anche quelli dell’università, nonostante l’antifascismo che gli derivava dal padre e dal contesto delle frequentazioni, erano segnati piuttosto da idealismo e spiritualismo; lui stesso ha parlato persino di estetismo. È quando affronta il servizio militare e poi la guerra, l’esilio in Svizzera e il breve periodo con i partigiani dell’Ossola, che per Fortini cambia la prospettiva. Dunque l’importanza della classe operaia nel quadro di una prospettiva rivoluzionaria è una conquista, un’acquisizione che passa sì attraverso letture di capitale importanza (quelle, in primo luogo, compiute in Svizzera tra il ’43 e il ’45), ma anche attraverso il vissuto, cioè attraverso l’incontro con i ceti popolari, con i profughi d’Europa, nell’esercito, nelle città devastate dalla guerra, e nell’esperienza della Liberazione dal Fascismo, ovvero dentro un reale processo di emancipazione. Questa premessa da una parte vale per segnare la distanza di Fortini dall’elemento “dottrinario”, da una visione precostituita, che invece ha caratterizzato un ampio ambito della sinistra, ma anche per sottolineare che proprio in quanto inerente al percorso esistenziale, tale acquisizione segna un discrimine nella storia di Fortini intellettuale e scrittore. Di qui anche il significato, il “peso specifico” delle poesie che tu citi.
L’incontro con Panzieri e gli intellettuali che gravitavano intorno a «Quaderni rossi» appartiene ad una fase di molto successiva a quella appena delineata (cioè il periodo della guerra e della Liberazione). Esaurita la fase del “Politecnico”, finiti i “dieci inverni” del dopoguerra, dopo l’Ungheria, Fortini ha lasciato il Partito Socialista e cerca interlocutori tra i più giovani, sganciati dagli ambienti intellettuali della sinistra ufficiale e della “società letteraria”. L’importanza di Panzieri per Fortini, al di là dei dissensi e delle diverse posizioni su questo o quell’aspetto della società del tempo, è espressa a chiare lettere nella prosa in morte dell’Ospite ingrato e nelle poesie di Questo muro e Paesaggio con serpente; si tratta di una figura decisiva (di anticipatore, di apertura al futuro) in quanto lo stesso Panzieri si muoveva, con straordinaria lucidità, fuori dalle formazioni politiche tradizionali, sia sindacali sia partitiche, in una prospettiva che poneva i più raffinati strumenti della cultura critica al servizio dell’analisi diretta del lavoro nel mondo del neocapitalismo, in un tornante storico decisivo (oggi si vede anche meglio). Del gruppo allora attivo e in generale per quegli anni, oltre a Panzieri, la personalità più prossima a Fortini fu in primo luogo Edoarda Masi, e poi Sergio Bologna; non direi altrettanto per Mario Tronti o Asor Rosa. Ma ripeto, quel che conta di quel momento è la prospettiva “dal basso”, a contatto con i fenomeni in atto nella società, quale fu propria dell’esperienza di «Quaderni Rossi», e che in qualche modo si ricollega sul piano storico all’esperienza dei “consigli” e a Brecht, anticipando temi e nodi critici poi assunti dal Sessantotto (per intendersi). Di queste esperienze, è vero, nella Facoltà di Lettere di Siena c’era una traccia precisa, e soprattutto un modo di vivere la cultura che adesso è impensabile, a dir poco.
Ma a questa sintesi molto brutale e parziale, aggiungerei due punti su cui riflettere.
Se la centralità della classe operaia è un dato incontestabile nel quadro culturale ora accennato, bisogna altresì rammentare un passaggio di Verifica dei poteri in cui Fortini osserva: «… se il proletariato industriale è stato, per una età, la coscienza del mondo, non è certo debba esserlo necessariamente oggi, né che lo siano altri ceti o classi, fuor di quella classe che tuttavia si definisce dal grado di diniego di essenza cui le altri classi la sottopongono.» (corsivo del testo). Sono parole scritte nel 1963 e dicono molto, mi sembra, di quale sia stato l’atteggiamento di Fortini al riguardo; e dicono anche quanto egli possa essere, ancora oggi, una voce indispensabile per il nostro presente.
L’altra osservazione è di diverso ordine e di tipo, se vuoi, aneddotico. Ha raccontato una volta Goffredo Fofi che uno dei compagni di «Quaderni Rossi», non ricordo ora quale, chiese un giorno a Panzieri, con qualche insofferenza, perché desse tanto ascolto a Fortini, che era in fin dei conti un poeta. Panzieri allora prese tra i suoi libri la Vita di Marx di Franz Mehring, e lesse il passaggio in cui si parla dei rapporti tra Marx e Heine. Si tratta del capitolo sull’Esilio a Parigi e vi si dice come per Marx i poeti non potessero essere misurati «con la misura degli uomini comuni e anche non comuni», e inoltre che egli vedeva in Heine non solo il poeta «ma anche il lottatore» e uno spirito libero, per questo capace di intendere i «più profondi nessi della vita storica». Non saprei dirti per quali poeti di oggi vadano bene queste parole, ma per Fortini davvero non avrei dubbi. E Panzieri aveva ben visto.
A.P.: L’altro punto che ti chiederei di affrontare brevemente, anche se merita pagine e pagine, è quella del lavoro di Fortini come traduttore. Quella di Fortini non è certo la traduzione del traduttore condannato all’invisibilità, è una traduzione d’autore. In certo modo è anche una posizione privilegiata, perché Fortini si può permettere di diventare interprete senza paura di incrociare la bacchetta o la penna blu di una “segretarietta secca” bianciardiana o di un moderno editor. Oppure forse anche lui ha avuto delle grane, come traduttore, nella macchina editoriale? Altro punto eccezionale secondo me è scrivere sull’impalcatura di un altro autore che ti fa ombra o ti dà luce… spesso capita di leggere un autore che diventa così importante da spostarti quasi sul suo spartito musicale… E’ successo anche a Fortini, traducendo Brecht?
Luca Lenzini: Se guardiamo all’insieme del lavoro di Fortini traduttore, non si può non rimanere impressionati. Contando solo le traduzioni in volume, si hanno una cinquantina di titoli, con nomi che vanno da Flaubert a Proust, da Eluard a Brecht, Kafka, Queneau, Goethe, Simone Weil. Si tratta cioè di autori di primissimo piano, non solo del Novecento. Che le sue siano poi traduzioni “d’autore”, questo è senz’altro vero; anche se non va trascurata l’importanza che quel lavoro poteva avere sul piano economico, per quanto limitata: i libri di saggi o le poesie non gli assicuravano certo introiti di rilievo. Si spiegano così certi titoli inaspettati, come per esempio Einstein. Un’altra cosa da non dimenticare è poi l’aiuto costante che ebbe dalla moglie Ruth Leiser, svizzera di lingua madre tedesca (ma conosceva anche il russo), donna intelligentissima, tanto sensibile quanto generosa, e del tutto priva di snobismi. Le versioni da Brecht costituiscono da sole un capitolo a parte della cultura italiana novecentesca; per non parlare del Faust di Goethe, al cui lavoro contribuì in modo decisivo il nostro germanista più grande (in tutti i sensi), Cesare Cases. Quindi nel suo caso non parlerei di “segretarie” (che ci saranno anche state), ma della fattiva presenza di Ruth, invece, e di collaborazioni di altissimo livello.
Quanto al rapporto con alcuni degli autori citati, è certo che Brecht prima, Goethe poi (ma in una certa fase anche Eluard) ebbero un influsso significativo sulla sua scrittura poetica, e non solo in senso stilistico ma anche come posizione rispetto al mondo circostante. E a partire da questa considerazione, mi preme osservare che il lavoro del traduttore, del critico e del poeta sono strettamente correlati tra loro: c’è un dare e ricevere continuativo, un trapasso dalla pratica linguistica – con l’annesso uso della memoria poetica, in Fortini straordinaria – alla riflessione critica, dalla dimensione sperimentale a quella teorica. Ora, non solo alcuni saggi dedicati al tema della traduzione poetica ebbero una funzione innovativa molto importante nel quadro della critica, ma la sua attenzione ai poeti-traduttori all’interno della produzione novecentesca ha aperto la strada a tutto un “genere” di studi, oggi persino inflazionato ma all’epoca trattato in modo marginale o molto settoriale. Ebbene, se non si ha presente questo scambio fecondissimo, radicato in una cultura dialogante e di apertura a tutto campo, s’intende poco o nulla di Fortini traduttore e dello specialissimo ruolo che la traduzione ha nella sua opera.
A.P.: Infine, dato che immagino tu abbia frequentato Fortini nei suoi anni di docenza a Siena, vorrei chiederti di parlare dei luoghi fortiniani a Siena. Siena è una città che assomiglia a un labirinto a forma di y: per muoversi a Siena bisogna continuamente darsi dei punti di ancoraggio, la logica del cardo e del decumano qui non funziona. I miei luoghi a lungo sono stati quelli di Pantaneto e via Roma, il giardino di Lettere, la trattoria dello Gnudo ai Pispini, e poi l’ospedale delle Scotte, per ragioni belle e brutte. Potrei fissare altre coordinate, ovviamente, ma qui non si parla di me: il mio è solo un esempio illustrativo per chiederti quali sono, a tua memoria, i luoghi fortiniani di Siena. I luoghi dove lui abitava, passeggiava, lavorava, scriveva, leggeva…
Fortini e Siena: è un tema che è stato ben trattato da un caro amico senese di Fortini, Carlo Fini, in uno scritto apparso su «Trasparenze», la rivista di Giorgio Devoto, nel 2000, tema di recente ripreso da Valentina Tinacci in una monografia su Fortini docente. Del resto lui stesso, in una lezione magistrale tenuta nel 1989 in quella che al tempo si chiamava “Scuola di lingua e cultura italiana per stranieri”, ebbe a parlare del proprio rapporto con la città, dandone un ritratto molto personale, ricco di notazioni storiche e non solo storiche. Certo Siena non è più la stessa, rispetto a quella conosciuta e descritta da Fortini, per esempio quando parlava del «rappresentante di farmaceutici all’ultimo piano dell’albergo Toscana, l’ultimo spettatore di cineclub di ritorno a casa picchiando i tacchi sul selciato e l’oste bisunto sull’ultimo conto della sua giornata tra fiaschi e salumi», i quali «possono credere davvero di sentir passare in aria, volanti, i diavoli che sulle tavole della Pinacoteca straziano i santi e duellano con gli angeli.» Ma credo molto abbia contato, per lui, una prima scoperta di Siena fatta in gioventù, quando girava per chiese e musei al tempo in cui era studente, alla cerca dei pittori amati e studiati. C’è una prosa molto bella pubblicata nel ’45 in cui descrive quell’esperienza, legata a un amore giovanile – mi viene da citare in materia un poeta che Fortini ebbe caro, Sereni, quando scrive (di Barcellona): «solo un amore che si fosse acceso in noi da quelle parti ci avrebbe immessi con tanta forza dentro una città e ne avrebbe dilatato i contorni»… – , con una Piazza del Mercato piena di buoi e cavalli e la città invernale «spolpata come una reliquia dal freddo e dal tramontano.»
Parlando dei luoghi, bisognerebbe dire – oltre al già citato albergo Toscana – soprattutto di Fieravecchia, che tu giustamente rammenti. Ma qui il discorso sarebbe lungo e temo di scivolare troppo nell’autobiografico, per cui oltre a rinviare ai lavori di Fini e Tinacci mi limiterò a ricordare un passo dell’intervista di Paolo Jachia (Leggere e scrivere, 1993) in cui Fortini parla dei «seminari senesi, in certe serate di gran silenzio, la campagna nera oltre le vetrate della facoltà, tra gli studenti, ragionando insieme sui nessi sottili di un’ottava o di un inno, l’improvviso luccichío di fosforo sulla pagina, che annulla secoli e fa sorridere la cerchia degli attenti.»
Importanti furono anche i soggiorni alla Certosa di Maggiano: c’è un paesaggio con Siena sullo sfondo, disegnato da quei luoghi, che ha un corrispettivo in un brano di Ricordo di Firenze (1982), in Insistenze («Dalla mia finestra senese vedo un orto fratino ben zappettato, un muretto di cotto che pare cinese, colombe e tortore tra nespolo, pesco e limone. Poi un largo pendio di vigna netta e di ulivi, sul crinale della poggiata le case in fila, e più oltre lo stendardo delle mura, da Porta Romana a Porta Pispini.») – e quanto a trattorie, naturalmente Le Logge, per gli ultimi anni: c’è al riguardo un sonetto divertito e divertente, dedicato a Gianni Brunelli, la cui prima strofa recita: «Figlio della città che fu del giglio / e vecchio ormai lombardo – voce e vena / cercai quaggiù, gli anni fuggendo, Siena / tu, stretta noce, tartuca, gheriglio…» Per il resto, credo che – come documentano anche foto e carte dell’archivio – quanto a “coordinate”, un luogo essenziale delle permanenze fortiniane a Siena, ricco di stimoli intellettuali e fecondo anche sul piano editoriale, fu proprio la casa di Carlo Fini in via della Galluzza, dove insieme a Maria Luisa Meoni , ad Attilio Lolini e sua moglie Loredana Montomoli, Romano Luperini e tanti altri amici e colleghi Fortini poteva non solo improvvisare versi e imitazioni, ma progettare libri e trovare solidarietà e conforto nei suoi «inverni di guarnigione», quegli inverni che per tanti suoi studenti e amici furono un momento decisivo della propria esistenza, in quella forse troppo «stretta noce» ma che allora sapeva almeno guardare oltre se stessa.