di Franco Galloni e Gianfranco Zoja

CrisiGuerra[Riportiamo alcuni brani iniziali dal saggio di Franco Galloni, Gianfranco Zoja, Crisi, tendenza alla guerra e classe, PGreco Edizioni, Milano, 2014, € 18,00. Si tratta in realtà di un lavoro collettivo, redatto da detenuti politici.]

L’attuale crisi del capitale non è, contrariamente a quanto sostengono i liberisti (o, perlomeno, quelli che si professavano liberisti fino allo scoppio della crisi), dovuta a un eccesso di finanziarizzazione, né alla speculazione di borsa.

Entrambi questi aspetti sono caratteristici della fase imperialistica del capitale, e – in una certa misura – fisiologici al mercato. Certo, bisogna tener conto dell’ampiezza con cui questi fenomeni si manifestano nella specifica congiuntura, ma anche del fatto che essi esistono da almeno cen­toventi anni, e che nel corso del tempo sono stati gestiti in vari modi. Na­turalmente, concorrono entrambi ad aggravare la crisi in atto, ma non ne sono i responsabili. Ciò era già evidente a Marx ed Engels, e da allora non è cambiato1.

Con buona pace dei keynesiani, la crisi non è dovuta nemmeno al sot­toconsumo, il quale, essendo effetto dell’aumento della composizione tec­nica del capitale (cioè di uno dei fattori che producono la crisi), non può esserne la causa.

Il concetto di capitale è inseparabile da quello di crisi, dall’autodinami­smo delle sue contraddizioni interne. Se si scava sotto le complesse e intri­cate cause immediate di ogni crisi del capitale, la spiegazione di fondo che emerge è di una semplicità disarmante: i capitali sono costretti dalla logica della concorrenza a produrre sempre di più utilizzando sempre meno ope­rai. A un certo punto, producono più di quanto riescono a vendere. Le crisi del capitale sono dunque crisi di sovrapproduzione, eccesso di capitale con eccesso di forza-lavoro.

Questa pletora di capitale trae origine dalle stesse circostanze che provoca­no una sovrappopolazione relativa, ed è quindi un fenomeno complementare di quest’ultima, benché le due si trovino su poli opposti, capitale inutilizzato da una parte e popolazione operaia inutilizzata dall’altra (Il Capitale, Libro III, Cap. XV).

Da quando il capitale ha piegato ai propri interessi l’intero pianeta, strut­turandosi come sistema imperialista globale (cioè, più o meno, negli ultimi sessant’anni) le crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali sono dive­nute sempre più frequenti. Le cause sono sempre le stesse, le contraddizio­ni interne e strutturali al sistema:

– La caduta tendenziale del saggio medio di profitto (la cui tendenza se­colare è evidenziata dal grafico di Carchedi; questo grafico è però ela­borato unicamente su dati relativi alle attività produttive USA. Sarebbe interessante confrontare questa curva con quella relativa ai dati globali. Infatti, se è vero che questa crisi nello specifico è stata determinata pri­ma di tutto dal crollo del saggio di profitto USA, e poi si è riversata a cascata sulle altre economie, quello che in ultima analisi a noi interessa capire è: a che punto è la notte? Non è che se il sistema lo salvano i BRI­CS anziché gli USA, allora siamo a posto!);

– Il carattere sempre più sociale della produzione e il carattere sempre più privato della proprietà dei mezzi di produzione. Condizione questa sintetizzata egregiamente da Occupy Wall Street con la formula “99% contro 1%”; (Appendice 1)

– La sostanziale anarchia di fondo del capitale.

La presente crisi è anche crisi del modello di divisione internazionale del lavoro e dei mercati fin qui funzionante. A fronte dell’espansionismo del modello capitalistico cinese (“The Economist” riconosce la maggiore competitività del capitalismo di stato su quello privato in questa congiun­tura) e della crescita dei BRICS, il sistema tripolare a dominanza USA sta perdendo colpi. Ma ha ancora un bel po’ di cartucce da sparare.

La crisi dei mercati asiatici di fine anni ’90 (indotta, praticamente, da George Soros), e l’attuale crisi di Eurozona, sono da leggersi, con buona approssimazione, come colpi sparati in difesa della supremazia USA (una forma di guerra non convenzionale). (Appendice 2)

Nessun economista nei think tank dell’imperialismo sembra disporre della ricetta giusta che dia al sistema qualche chance di uscire vivo dalla crisi, e tanto meno di uscirne mantenendo inalterati gli attuali assetti di potere.

Il neoliberismo non può farlo, essendo esso stesso parte non irrilevante del problema.

Il keynesismo, sia sociale che militare, tanto meno, avendo già concor­so a determinare crisi precedenti, per risolvere le quali ci sono voluti o la guerra, o l’avvento del neoliberismo stesso. (Appendice 3)

Questa semplice constatazione storica basterebbe da sola a mostrare la pochezza teorica di gran parte della sinistra contemporanea, che invece sul keynesismo nelle varie salse fa grande affidamento.

(…)

Se questa crisi ha dimostrato qualcosa, è l’obsolescenza in Europa di alcune istituzioni che fin qui sono state pilastri portanti del sistema.

L’Europa entra nel cuore della sovranità nazionale, dimostrando che moneta e fisco non sono più competenze politiche dei singoli Paesi. (Ap­pendice 4)

Il commissariamento diretto da parte della BCE di Grecia e Italia e quel­lo ufficioso di altri Paesi deboli, unitamente al caso del Belgio, sembrano dimostrare l’inutilità dei governi nazionali, perlomeno in materia di poli­tica economica e amministrativa. Nel rapporto con il capitale finanziario è semplicemente saltata la funzione di sintesi che ne giustifica l’esistenza.

Vale la pena di spendere due parole sulla mancanza di governo in Belgio che è perdurata per oltre cinquecento giorni. A nostro avviso si tratta di un vero e proprio caso da manuale. Solo nell’Iraq occupato si era registrata una vacanza di governo paragonabile (300 giorni). Ma il Belgio, a differen­za dell’Iraq occupato, è un Paese in pace, al centro dell’Europa e membro fondatore della CEE. Il conflitto tra gli opposti “leghismi” fiammingo e vallone, all’origine della crisi politica, qui non interessa affatto. A noi in­teressa l’esperimento in sé. Interessante ad esempio è il fatto che durante questa assenza di governo il PIL del Belgio sia cresciuto e l’economia nel suo complesso non abbia risentito della mancanza di guida politica. Ciò dimostra che, a questo grado di sviluppo delle forze produttive, le decisioni politiche sono avocate a livello UE e la struttura burocratico-amministrati­va dello stato nazionale è assolutamente sufficiente al suo funzionamento, senza necessitare di ulteriori mediazioni.

I governi nazionali ne escono malissimo.

Si è trattato di un enorme laboratorio economico-sociale che certamente sarà stato studiato dai centri studi del capitale e che anche i comunisti do­vrebbero studiare. Questo caso dimostra ancora una volta che la necessità si fa valere in modo assolutamente casuale, e il caso in modo assolutamen­te necessario.

Quale Stato nazionale sarebbe stato così pazzo da prestarsi volontaria­mente a un esperimento così importante? Invece, il caso ha fornito alla necessità un particolare mix di sviluppo fiammingo e sottosviluppo val­lone, una contrapposizione di lunga data basata su differenze culturali e linguistiche, una Costituzione tra le più complicate del mondo e una storia nazionale improbabile (il Belgio è un invenzione del 1831), rendendo così l’esperimento possibile.

Le vicende degli ultimi anni che hanno riguardato la FIAT (come bene evidenziato nel libro “La strategia del maglione” di Maria Elena Scanda­liato), hanno invece per parte loro dimostrato l’inutilità di Confindustria e sindacati, e il venir meno della necessità/possibilità di mediazione tra interessi diversi, che essi rappresentano.

Si prefigura uno scenario in cui il rapporto tra i diktat del capitale mul­tinazionale, i capitali subordinati e il lavoro, si darà in modo sempre più diretto.

Se l’alternativa è calarsi le braghe o morire, a che servono gli organi di mediazione? Ciò diverrà sempre più evidente anche ai non-vedenti volon­tari.

Certo, ogni sistema difende se stesso: piccola e media industria gioche­ranno un ruolo ancora a lungo, soprattutto in Italia, e i sindacati serviranno ancora a incanalare la conflittualità operaia dentro schemi di compatibilità.

Sempre più essi si trasformeranno in società di servizi (vedere la massa di denaro che gira intorno ai CaF) o di gestione capitali (come, ad esempio, il fondo Cometa), passando così dalla condizione di servi dei padroni a quella di padroni in prima persona.

Non sarà un processo immediato, ma la tendenza ci sembra ormai questa.

È la funzione originaria di quegli organismi a essere ormai venuta meno (non che manchino nella storia esempi di istituzioni sopravvissute con suc­cesso all’estinzione della propria funzione fondamentale: basti pensare alla Chiesa cattolica!).

Quello che a noi sembra paradossale è la sfasatura della critica rispetto all’esistente.

Dato per buono il contesto (e il contesto nel nostro caso è l’esistenza del capitalismo globalizzato), Marchionne ha ragione in tutto e per tutto.

Parafrasando Hegel, si potrebbe dire che egli è “lo Spirito del Mondo in Ferrari”.

Fa il suo lavoro, e non possiamo lamentarci se il nemico di classe fa bene il proprio lavoro, né pretendere di insegnargli come lo deve fare.

Coloro che lo criticano senza mettere in discussione il contesto, vorreb­bero o un altro capitalismo, o un altro sindacato (magari “di classe”).

Ma queste cose non appartengono già più alla sfera del reale; sarebbe come volere il feudalesimo e le corporazioni con l’attuale sviluppo dei mezzi di produzione.

Il punto è che il contesto, cioè l’esistenza del capitalismo globalizzato, incomincia a essere incompatibile con l’esistenza dell’umanità.

La recente dichiarazione del FMI, dove si dice in sostanza che il pre­visto aumento di due anni della speranza di vita umana media getterà in gravi difficoltà il sistema economico mondiale, ci sembra sufficientemente significativa.