di Gazzola, Gasperini, Arona 

HendrixUndeadI followers di questa rubrica lo sanno. Nella Luce Oscura non si viaggia da soli. Così spesso capita che parole, pensieri e percorsi di ricerca individuali vadano a formare un unico bolo di masticazione culturale in cui ognuno scopre di essere al contempo debitore e creditore agli altri di riflessioni mai consciamente progettate. Condivisioni inconsapevoli. Entanglement, appunto. E lascio spazio alle notevoli intuizioni “interstellari” di Mario Gazzola.

We are time captains

We write the astral records of history

(“Time Captives”, Arthur Brown)

 «… “Is everybody in? The ceremony is about to begin, declama il cantante sul palco-pulpito con voce profonda e teatrale. La platea è senza poltroncine, siamo tutti in piedi. Cerco di farmi largo tra il pubblico variopinto per avvicinarmi a quel palco che mi appare molto lontano. È molto faticoso, i movimenti sono difficili, sono invischiato fra energumeni tatuati dal collo alla cintola, mi ostacolano magliette sudate con teschi, struscio contro ragazze dai dreadlocks fucsia, verdi, blu, top fluorescenti, labbra borchiate lobi spillati.

Devo pensare allo spettacolo. Al metodo teatrale, scolpire il buio, scarnificare la visione, officiare il rituale. The ceremony begins. Parte un riff di organo e batteria in levare. Lo conosco, lo sento scorrere dentro di me. “You know the day destroys the night / Night divides the day…” è la canzone dei Doors! Finalmente sono vicino al palco, vedo che è veramente Jim Morrison che canta, occhi chiusi mani strette intorno al microfono. È pazzesco. Ma è un sogno, va bene così. Non è neanche quello giusto, però mi piace.

Vicino a lui c’è un nero che suona la chitarra da mancino, camicia colorata e cappello in testa.

Jimi Hendrix? Che ci fa Hendrix a un concerto dei Doors? Cos’è, un concerto… di morti? Anche Morrison non dovrebbe essere qui a cantare in pantaloni di pelle, cinturone e torso nudo. Mi invade una sensazione come di disagio. Certo che sto sognando e nel sogno di Rock possono anche esserci musicisti morti, i suoi miti: Rocco sta dando vita a un esercizio che ha fatto ogni rockettaro nerd da ragazzo: formare la band ideale con le leggende della musica già trapassate, l’ho fatto anch’io coi miei amici al liceo.

Devo avvicinarmi di più al palco, magari non è Morrison ma Ian Astbury che lo imita, ma questa è un’idea razionale mia, non di Rocco. La calca mi opprime, sudo e soffro il caldo appiccicoso… ragazze carine mi si schiacciano addosso, seni morbidi contro la schiena di una stangona rossa che sembra Nina Hagen. Manca l’aria. Spingo ma non riesco ad avanzare. Un metallaro a torso nudo sotto la chioma lunghissima mi guarda ostile. Spero di non dover anche fare a botte per vedere Jim Morrison dal vivo una volta nella vita. Mi concentro sull’essere io il leader del sogno. Lo aggiro.

“Break on through / To the other side! Break on through / To the other side…”, il ritornello mi esplode come un campanello nelle orecchie. E una nota di chitarra bassa come una sirena elettronica mi colpisce violenta come un tuono in mare.

Rischiando l’incolumità, sempre in ansia per gli sguardi degli altri hardcore fan che mi circondano, ora sono finalmente a un metro dal palco. Jim è vicinissimo, Hendrix sarà a non più di tre metri da me. Pazzesco, ci sono anch’io qui dentro!

Ora riconosco anche gli altri musicisti: a destra di Morrison sta un bassista con i capelli lunghi e una fascetta da indiano in fronte: è Jaco Pastorius, un altro mito passato all’aldilà. Anni fa lo ascoltavo molto. Allora l’ho messo io qua dentro? Ho inserito un personaggio nel sogno di un altro? Anche il batterista capellone coi baffi e un cappellaccio nero in testa mi pare di conoscerlo… ma certo! È John Bonham dei Led Zeppelin… mentre quello con la barba che siede dietro l’organo elettrico e una piramide di altre tastiere è… sì, Jon Lord dei Deep Purple!

È una superband di morti. Rocco ha tradito la consegna di concentrarsi sul nostro spettacolo teatrale e ci sta portando a spasso per la sua fantasia adolescenziale. Ma perché l’ha fatto? Un puro capriccio o c’è un senso? Ci porta in questa performance perché per lui è la fonte del mito, dell’energia vitale?».

Quello che avete appena letto è un brano del romanzo che sto cercando di concludere: “Buio In Scena”, nel quale una compagnia teatrale composta di carcerati segue l’ardito metodo di scavo interiore/attoriale del proprio regista-demiurgo per realizzare uno spettacolo che si rivelerà un successo, ma ad un prezzo molto alto. Il suo motto “vi aiuterò a portare in scena i vostri fantasmi” si realizzerà, e fin troppo realisticamente.

In questo brano ho immaginato un’esperienza di “sogno lucido condiviso”, assistita da un macchinario (il “SynchroDreamer”) che ho preso a prestito dal Malapunta di Perdinka, per gentile concessione del suo curatore Danilo Arona. Un’esperienza in cui i detenuti-attori si ritrovano in un gran concerto rock onirico, suonato da una dream band di rock star trapassate, in cui poi il regista – con quegli scarti logici che appunto si verificano nei sogni – riconoscerà i propri attori sotto le spoglie dei musicisti.

Senza addentrarmi troppo in una storia che (spero) vi godrete per intero quando sarà completa e pubblicata, vado al punto saliente per la Luce Oscura: uno di quei casi di “entanglement letterario” che spesso accadono a chi scrive, gettandolo nel panico sulle sue presunte doti di originalità autoriale o instillandogli il dubbio che davvero certi segnali siano nell’aria e non sia mai solo un singolo individuo-autore a intercettarli. Insomma, mentre cerco di portare a termine il finale del mio romanzo, sto leggendo It di Stephen King, per colmare una delle mie tante lacune: e cosa ci scopro? Che, anche se io l’ho letto solo dopo aver scritto il mio brano (circa un anno fa), lui nel 1986 aveva già immaginato una situazione simile. In particolare, quando il gruppo dei protagonisti si ritrova da adulti nella natia Derry e, girando per i luoghi della propria infanzia, ognuno di loro rivede il malefico clown Pennywise che lo sfida: ebbene, Richie (frattanto divenuto famoso DJ e imitatore radiofonico) lo vede animarsi da un monumento vicino a un centro commerciale, dove s’era seduto anche nel 1958, sognando di poter andare al concerto di cui aveva visto il manifesto: Jerry Lee Lewis, Gene Vincent e altri suoi miti del rock primordiale in una serata da sogno. Anche nel 1985 nello stesso spazio c’è il manifesto di un concerto: ora però i protagonisti sono Judas Priest e Iron Maiden. Ma, quando Richie adulto rimane vittima della visione del clown che lo minaccia animando la statua del boscaiolo, i suoi occhi vedono un manifesto da incubo: invece delle star del metal dell’epoca in cui King scriveva, ci sono ancora quelli degli anni ’50 e… il suo nome è sul manifesto come special guest!

 

«…The Richie Tozier ‘Ognimmorti’ Rock Show

Buddy Holly, Richie Valens, Frankie Lymon, Gene Vincent, Marvin Gaye.

Suonano (udite udite!)

Jimi Hendrix chitarra solista

John Lennon chitarra ritmica

Phil Lynott basso

Keith Moon batteria

Con la partecipazione special di Jim Morrison.

Bentornato a casa Richie

Sei morto anche tu!».

 

Vi figurate lo shock? Il Re aveva già pensato la “dead all-stars rock band” un quarto di secolo fa e alcuni dei nomi sono gli stessi che ho usato io inconsapevolmente! Io avevo pescato l’idea a mia volta dai ricordi liceali, quando – da fan dei Deep Purple e dei Led Zeppelin – si fantasticavano band formate dalle (già allora non poche) rock star passate prematuramente nel mondo dei più, proprio come nel mio brano romanzesco. Ok, si tratta di alcuni dei massimi miti musicali del ‘900 e non è poi così sorprendente che ricorrano più volte nelle opere dei narratori che son cresciuti con loro ma… l’avrà fatto anche King quel giochino a suo tempo? Sarà un caso questa coincidenza? Abbiamo un po’ tutti le stesse fisse, noi rockettari, oppure la nostra musica funziona come una specie di corridoio spazio-temporale fra dimensioni, riportandoci i “fantasmi” a cui siamo più legati (come accade nel film Interstellar al protagonista astronauta in comunicazione da una dimensione altra con la figlia nella sua stanza sulla terra)? Le nostre star sono “Time Captains”, come cantava Arthur Brown nella canzone del ’73 citata in apertura?

 

Continuiamo ancora un po’:

«Mi attacco al ritornello di “Break On Through” per mantenere il filo del sogno condiviso. La canzone continua, cambia senza mai spezzarsi. Ora però è diventata un trip siderale di sintetizzatori alla Tangerine Dream. Stanno improvvisando sul tema, io sto improvvisando sul tema di Rocco, una versione che non esiste su nessun album live dei Doors, come quest’assurda formazione di zombi. Ora faccio partire uno straziante assolo di sax interstellare, prodotto da un altro nero che si fa avanti dalle retrovie del palco: è John Coltrane che si unisce al dream team per svisare questo trip sonoro pazzesco che potrebbe anche non finire mai. Strati di suono si sovrappongono come onde di risacca… sax, organo, chitarra, ancora sax, ritorna l’organo…

Morrison si dimena lungo il flusso sonoro come uno sciamano rettile, acrobata su tutti i disequilibri possibili per il corpo umano e oltre, derviscio rotante di un rituale alieno, burattino cosmico tirato da filamenti energetici rossi.

Provo a tirare delicatamente i fili del concerto sovrumano: ora lo sento completamente dentro di me. Sento di poterlo controllare come un sogno mio. Provo altre variazioni progressive: faccio finire l’assolo di sax, ma tenendo sempre in corsa questa suite che non ha più nulla in comune con l’originale “Break On Through” dei veri Doors. Il Morrison onirico riprende a salmodiare appeso al microfono in un sussurro che levita su un tappeto di tastiere elettroniche kraut.

Beat sempre più scheletrico, batteria e organo elettrico creano una base ritmica iterativa alla Suicide. Bene, posso modificare la musica liberamente, mantenendomi all’interno della scena. Allora posso provare a inserire altri elementi… arretro da sotto il palco, molto più facilmente di quanto costi avanzare: tutti vogliono avvicinarsi ai musicisti. Ora sono a circa sei metri dal palco, vedo una siepe umana fitta davanti a Morrison, che balla circondato da un cerchio di uomini… uomini con lunghe tonache… sì, sono il nostro coro in clergyman che danza la sua giga satanica attorno allo sciamano!

Il ritmo accelera progressivamente, io accelero, la danza accelera, la fuga diventa un trip cosmico alla Hawkwind, il teatro non ha più le pareti, oppure ci sono proiettati sopra dolmen e menhir di Stonehenge illuminati da falò notturni.

La musica prende a pulsare, la voce di Morrison si specchia in effetti d’eco rimbalzando sulle vibrazioni del synt e del beat martellante. Pulsa l’ambiente di luce blu e la nebbiolina cremisi dei fumogeni, pulsano i versi biascicati al microfono come un mantra oltre il linguaggio umano. Tutto intorno vibra d’energia azzurra e viola. Fili rosso scuro collegano le punte delle mie dita a tutto. Tutti ballano. Tutti pulsano. Un gruppo di donne in abito bianco danza un sabba stregato a piedi nudi fra i falò. Una ragazza lunghi capelli neri seni abbondanti occhi truccati a stella si spoglia e si dimena nuda in una cerimonia pagana sotto i musicisti, occultamente simmetrica ai movimenti di Jim Morrison sul palco. Celebration of the Lizard. Sposto un poco il pubblico che forma un semicerchio intorno alla menade. Mi avvicino. Pulsano i movimenti pelvici della danzatrice, che si contorce a terra come una tarantolata. La Madre della Visione sta partorendo noi tutti e la massa sonora dalle convulsioni del suo bacino elettrico blu».

 

Così continua il lucido sogno in rock dei detenuti-attori teatrali della mia compagnia teatrale immaginaria, al lavoro nel carcere noto nel romanzo come “il Castello”. Anche questa personalissima trasmutazione sonora credevo d’averla inventata io, basandomi in maniera del tutto soggettiva sull’evoluzione dei miei gusti musicali (di cui leggete a sazietà QUI). Eppure anche su questo punto si sarebbe incaricato l’amico Max Gasperini della Black Widow Records di svelarmi un corridoio sonico-temporale in cui avrei trovato già realizzato quel ponte che porta il suono new wave scheletrico e minimalista dei Suicide (secchissima drum machine, chitarra e voce) a dilatarsi progressivamente in ampie volute spaziali fino ad abbracciare la maestosità cosmica degli Hawkwind o dei primi Pink Floyd: quel “ponte” è stato registrato nel 1973 (l’anno di The Dark Side Of The Moon), è l’album “Journey” dei Kingdom Come di Arthur Brown (che contiene il brano citato in apertura). Noto anche come il primo disco nella storia del rock ad utilizzare la drum machine al posto della classica batteria suonata da un bipede armato di bacchette (ne leggete più diffusamente QUI): un “viaggio” sonoro che collega l’elettronica dei Tangerine Dream con quella del Bowie berlinese, che sarebbe sbocciato solo quattro anni dopo (come gli stessi Suicide). Un altro corridoio temporale? Possiamo forse attraverso la musica “scalare il tempo come un canyon” (citazione da Interstellar di C. Nolan)?

Max ne sembra convinto: da appassionato cultore di fantascienza, scienza di confine, ufologia e altre contiguità, sostiene che “Esiste un filo logico musicale e filosofico che lega – oltre quelle da me citate – band incredibili come Graham Bond Organization, Amon Dull, Can, Ash Ra Tempel, Gong, Hawkwind/Robert Calvert-Nik Turner, Blue Oyster Cult, Pink Fayries, Magma, Clearlight Symphony (album), Chrome/ Helios Creed, Weidorje, Brainticket, Stranglers (soprattutto con l’album The Gospel According to The Meninblack) e questo filo sta nella predisposizione a esplorare gli spazi esterni, la storia dell’inizio dell’umanità, la ricerca dell’impossibile, le storie antiche degli egizi, gli uomini in nero, OVNI, UFO, Atzechi, le piramidi, Nibiru, gli Anunnaki…. io conosco perfettamente questo mondo che ho esplorato ed esploro continuamente anche lavorando a stretto contatto con i suoi più importanti esponenti”.

Ma i fili sparpagliati di questo viaggio infradimensionale a tre voci, con Gazzola al timone, li uniremo in una prossima puntata. A presto… (Arona).