di Sandro Moiso
Il 2014 è stato un anno tristissimo per la musica.
Alcuni autentici giganti di quella musica che aveva contribuito a fare grandi gli anni sessanta e settanta se ne sono andati, anche se non mi dispiace pensare alle meravigliose jam session che si staranno già svolgendo in qualche angolo dell’Universo non ancora raggiungibile dalle sonde della NASA.
Soltanto negli ultimi mesi Jack Bruce, Ian McLagan e, nella notte di domenica 21, Joe Cocker.
Tutti e tre inglesi, tutti e tre figli della working class, tutti e tre, e per vie diverse, maestri nel far transitare per la nostra esistenza quella impercettibile musica delle sfere, di cui già parlavano Pitagora e Platone, destinata a tenere insieme il cosmo.
Una vibrazione che negli anni sessanta e settanta si fece carne e spirito di milioni di giovani, proiettandoli con le loro speranza nell’eternità.
Joe Cocker era nato nel 1944 a Sheffield, orrenda città dell’acciaio che avrebbe così confermato che è dalla merda che nascono i fiori, e da buon proletario, prima di diventare famoso come cantante rock-blues, aveva lavorato prima come apprendista e poi come idraulico.
Ma aveva già la testa piena di stelle, come gli stivali che avrebbe indossato durante la sua storica esibizione a Woodstock.
E lì, molto prima che i suoi meriti fossero premiati con riconoscimenti ufficiali del governo e della corona inglese, aveva toccato il cielo, le aveva prese in pugno e le aveva regalate a cinquecentomila giovani riuniti sulla prateria della Yasgur’s Farm.
Aveva celebrato un rito, con movenze da sciamano spastico che avevano rapito la mente, le orecchie e il cuore anche di chi lo aveva visto soltanto nelle immagini del film.
Quello è il Joe Cocker che abbiamo amato di più, non quello dei duetti o quello della riproduzione in sedicesimo fatta da Zucchero Fornaciari. In fin dei conti lo abbiamo sempre preferito, così sudato, disperato e barcollante, anche a Kim Basinger e al suo spogliarello sulle note di You Can Leave Your Hat On.
With A Little Help From My Friends era altro, anche rispetto alla versione originale dei Beatles. Lì era diventata un inno, perché tutti avevamo bisogno di un piccolo aiuto da parte dei nostri amici e dei nostri compagni.
Era stata, e rimane a distanza di anni, l’esibizione più potente di quel festival. Più di quella di Hendrix, più di quella degli Who, più di quella di chiunque altro.
Un corpo ed una voce che traboccavano energia, sudore, passione. Uno sguardo allucinato proiettato verso un punto lontanissimo, probabilmente di un altro mondo. Mani che cercavano uno strumento invisibile, probabilmente a corde ma non ancora inventato. Unico come quel giovane cantante, in bilico sull’orlo di un buco nero che solo lui poteva vedere.
Joe Cocker and the Grease Band, così si era presentato sul palco di Woodstock il 17 agosto 1969, domenica. Gli altri erano Chris Stainton alle tastiere, Henry McCullough alla chitarra solista, Neil Hubbard alla ritmica, Alan Spenner al basso e Bruce Rowland alla batteria. Gli stessi che lo avrebbero accompagnato, insieme ad uno stuolo dei migliori musicisti americani, nel suo secondo album, edito nel novembre del 1969 a soli sei mesi dal primo.
Primo album che, naturalmente, si era intitolato With A Little Help From My Friends non solo perché il brano di Lennon e McCartney ne costituiva il cuore, il centro e il capolavoro, ma anche per la presenza di una compagine di musicisti che comprendeva Jimmy Page, Matthew Fisher, Stevie Winwood, Mike Kellie (ovvero la crema dei musicisti rock inglesi della fine degli anni sessanta) oltre ai soliti Chris Stainton e Henry McCullough.
Poi venne la lunga e, probabilmente dal punto di vista alcolico e lisergico, estenuante tournée americana del 1970, che diede come risultato un film e un doppio album (registrato al Fillmore East di New York il 27 e il 28 marzo 1970): Mad Dogs & Englishmen. In cui Joe riprende tutte le sue cover, perché quasi tutti i suoi successi di allora erano cover di canzoni precedentemente scritte ed eseguita da altri, rivitalizzandole e rendendo una versione straziante di Bird On A Wire di Leonard Cohen. La band è ancora una volta stellare, con Leon Russell al pianoforte e alla chitarra, Chris Stainton alle tastiere, Don Preston alla chitarra ritmica, Carl Radle al basso, Jim Gordon e Jim Keltner alla batteria, Chuck Blackwell alle percussioni, Jim Price e Bobby Keys ai fiati e Rita Coolidge tra le coriste.
Un documento straordinario per forza e commozione che segna però anche la fine del primo ciclo del nostro eroe e, forse, ne chiude anche la fase migliore nonostante i successi che torneranno a partire dagli anni ottanta. Mentre Jack Bruce e Ian McLagan hanno continuato a suonare fino all’ultimo come nei primi tempi, con la stessa rabbia e la stessa inventiva, Cocker si era, nonostante tutto un po’ imbolsito. Certo è stato Bruce a prendersi gioco della Thatcher, la Lady di ferro, e della sua scomparsa ancora nell’ultimo disco, Silver Rails, con un brano intitolato Rusty Lady, la signora arrugginita. Ed è stato McLagan a suonare ancora meravigliosamente l’organo, come ai tempi degli Small Faces, nell’ultimo album di Lucinda Williams. Mentre Joe si era, per così dire, appannato. Si era ripetuto ed era diventato un po’ una copia scolorita di se stesso e soltanto la voce gli impediva di diventare l’ombra di ciò che era stato.
Ma ora che se ne è andato, un po’ di eternità se ne andata con lui. La nostra.
Perciò se qualcuno non potrà fare a meno di santificare le feste, si ricordi che ascoltare in ginocchio e ondeggiando ad occhi chiusi la sua voce nel brano in cui spera ancora in un aiuto dagli amici può essere ancora il modo migliore per pregare. Ringraziandolo per tutta l’energia che seppe, anche solo per un breve momento, rubare al cosmo per donarla, come un novello Prometeo, a tutti noi.