di Mariana Enríquez
[Un estratto da Quando parlavamo con i morti, di Mariana Henríquez, traduzione di Simona Cossentino e Serena Magi, Caravan Edizioni, 2014, pp. 112, € 9,50]
Ma ci volle il caso di Lucila, e l’epidemia che scatenò, per dare il via alla vicenda dei roghi. Lucila era una modella bellissima, ma soprattutto incredibilmente affascinante. Quando la intervistavano in televisione, sembrava svampita e ingenua, ma dava risposte intelligenti e scaltre, e anche questo l’aveva resa abbastanza famosa. Famosa del tutto lo divenne quando annunciò il suo fidanzamento con Mario Ponte, il numero 7 degli Unidos di Córdoba, una squadra di seconda divisione che era stata eroicamente promossa in prima ed era rimasta tra le migliori squadre per due campionati, grazie a una grande formazione, ma soprattutto grazie a Mario, che era un giocatore eccellente e che per pura lealtà aveva rifiutato le offerte di diversi club europei, sebbene alcuni esperti dicessero che, a trentadue anni e considerato l’altissimo livello richiesto dai campionati europei, per Mario sarebbe stato meglio trasformarsi in una leggenda locale piuttosto che in un fallimento transoceanico.
Lucila sembrava innamorata e, anche se la coppia godeva di una certa fama sui media, non le si prestava eccessiva attenzione; erano perfetti e sembravano felici, semplicemente mancava il dramma.
Lucila riuscì a ottenere contratti migliori per la pubblicità ed era lei a chiudere tutte le sfilate; lui si comprò un’auto molto costosa. Il dramma sopraggiunse una notte, quando Lucila venne portata via in barella dall’appartamento che divideva con Ponte: aveva il settanta per cento del corpo ustionato e dissero che non sarebbe sopravvissuta. Sopravvisse una settimana.
Silvina ricordava vagamente le notizie al telegiornale, le chiacchiere in ufficio; lui le aveva dato fuoco durante una lite. Come nel caso della ragazza della metro, le aveva versato una bottiglia di alcol addosso – lei era a letto – e aveva gettato un fiammifero acceso sul suo corpo nudo. L’aveva lasciata bruciare alcuni minuti e poi l’aveva coperta con le lenzuola.
Quindi aveva chiamato l’ambulanza e, proprio come il marito della ragazza della metro, aveva detto che era stata lei. Per questo, quando le donne cominciarono davvero a darsi fuoco da sole, nessuno ci credeva, pensava Silvina aspettando l’autobus – non poteva usare la sua macchina quando andava a trovare la madre: avrebbero potuta seguirla. La gente pensava che le donne stessero proteggendo i mariti, che ne avessero ancora paura, che fossero sotto shock e non potessero dire la verità; non fu facile accettare l’idea dei roghi.
Anche ora che c’era un rogo a settimana nessuno sapeva cosa dire, né come farle smettere, a parte le solite cose: controlli, polizia, sorveglianza. Ma non bastava. Una volta, un’amica anoressica aveva detto a Silvina: non possono obbligarti a mangiare. Sì che possono, le aveva risposto Silvina: ti possono mettere le flebo, un sondino. Sì, ma non possono controllarti tutto il tempo.
Il sondino, lo tagli. E pure le flebo. Nessuno ti può controllare ventiquattr’ore su ventiquattro, le persone dormono. Era vero. Alla fine la sua compagna di scuola era morta. Silvina si sedette con lo zaino sulle gambe. Era contenta di non dover viaggiare in piedi. Temeva sempre che qualcuno potesse aprirle lo zaino e scoprire cosa conteneva.