di Wolf Bukowski

Letteraria 10[E’ uscito in libreria il nuovo numero di Letteraria, la rivista fondata da Stefano Tassinari e adesso pubblicata da Alegre Edizioni. Il numero in corso, il decimo, si occupa in maniera critica del tema del cibo. Invitiamo i lettori di Carmilla a sostenere e diffondere il progetto di Letteraria. Sono sempre di meno le riviste cartacee che riescono ancora a uscire. Sostenerle significa continuare ad alimentare un’idea di giornalismo di inchiesta, conflittuale, lontano dalle logiche del potere, che fa della scrittura e dello stile un elemento della propria complessità narrativa. Letteraria è a mio parere, assieme a Il reportage, che in questi giorni rilancia la sua campagna di abbonamenti, una delle più interessanti riviste cartacee e, al contrario di altre pubblicazioni, non ha un grande progetto editoriale alle spalle. Il mio auspicio è che sempre nuovi lettori scoprano la bellezza e l’incisività di questi progetti editoriali in cui reportage narrativo e fotografia d’autore si coniugano nella carta inchiostrata. Il brano che proponiamo dall’ultimo numero di Letteraria, che dà una misura dello spirito dei contributi, è quello di Wolf Bukowski che, partendo dalle parole dello scrittore americano Jonathan Safran Foer, elabora una lucida analisi sul business dell’agroalimentare, tra buone (e finte) intenzioni e dubbi comportamenti.] A.P.

Perché quando ho letto sui quotidiani locali che Alce Nero e Slow Food avrebbero invitato Jonathan Safran Foer a Bologna ho avvertito una contraddizione? Forse perché la notizia era accompagnata da quella, trionfale, di Coop e Eataly che aprono l’ennesimo store fighetto in centro? E incorniciata da quella, preoccupata ma altrettanto trionfale, del rischio ingorgo per auto e pullman attorno al Fico?[i] Sì, certo, per questo. Ma non solo.

All’origine dell’invito, naturalmente, c’è Se niente importa (Guanda, 2010) – il cui eloquente titolo originale è Eating animals (2009). Che non è affatto un’“elegia della vita vegan”, come suggerisce uno dei giornali di cui sopra, e neppure un manifesto del vegetarianesimo tout court. Se niente importa è un libro pieno di dati spaventosi sulla crudeltà che la nostra specie esercita sulle altre e sul pianeta, e inizia proprio dove Elizabeth Costello invece si arresta: “pur non avendo ragion di credere che abbiate bene in mente ciò che attualmente si fa loro nelle aziende agricole […], nei macelli, sui motopescherecci, nei laboratori di tutto il mondo, sono certa che vorrete concedermi il potere retorico di evocare simili orrori e di convincervi con la dovuta efficacia del fatto che sono tali; ma non andrò oltre[ii] – ecco, proprio lì inizia Se niente importa”. Foer entra dove Coetzee ferma il suo alter ego e penetra – anche illegalmente – nelle aziende agricole nei macelli eccetera, per non risparmiarci nulla di ciò che vi trova.

Poi, uscito a riveder le stelle, Foer sceglie come polare quella del ‘consumo critico’: “decidere che cosa mangiare (e che cosa rifiutare)”, scrive, “è l’atto fondante della produzione e del consumo che determina tutti gli altri. Scegliere vegetale o animale, agroindustria o fattoria a gestione familiare, non cambia il mondo di per sé, ma insegnare a noi stessi, ai nostri figli, alla comunità in cui viviamo e alla nostra nazione a optare per la coscienza invece che per la comodità può farlo”. (pag. 277)

Non è molto diverso da ciò che sostiene Slow Food:  “in quanto consumatori finali di un lungo processo che parte dalla terra con le nostre scelte influenziamo la produzione, gli stili di gestione dei terreni e dell’ambiente, nonché il futuro delle comunità agricole”,[iii] o da quanto suggerisce Andrea Segrè: “vivere in un modo, e dunque in un mondo, più ecosostenibile dipende da noi, dai nostri bisogni primari, dalle nostre azioni, dalla nostra consapevolezza e responsabilità”.[iv]

Non mi dedicherò qui a smontare queste tesi consolatorie. Solo a titolo di esempio voglio ricordare che i cicli di boom e sboom immobiliare, o il prezzo dell’energia, influenzano gli stili di gestione dei terreni e dell’ambiente in modo molto più decisivo del consumo critico. E che la liberalizzazione degli orari degli esercizi commerciali, con la relativa reazione a catena, determina le scelte d’acquisto molto più delle pie intenzioni green. Per reazione a catena – o feedback autoimplementante se preferite – intendo: se il negozio in cui faccio gli acquisti rimane aperto sempre più a lungo è altamente probabile che anche il negozio o ufficio o fabbrica in cui lavoro richieda anche a me orari sempre più lunghi, e che quindi io sia costretto a fare acquisti in un negozio che rimane aperto ancora più a lungo, e non dal contadino buono giusto e pulito con la camicia a scacchi.[v] E con questo si sono fritte le buone azioni (tipo quella di fare la spesa a km zero) e si è resa una mera astrazione la “nostra consapevolezza e responsabilità”. Ma era solo per fare due esempi: andiamo avanti.

Sul consumo di carne le conclusioni dello scrittore vegetariano non sono lontane da quelle di Slow Food. Scrive Foer: “io ho fatto la mia scommessa sulla dieta vegetariana e ho un sufficiente rispetto per le persone […] che hanno scommesso su un allevamento più umano, per sostenere i loro metodi zootecnici”. (pag. 262) E parla, si badi, di allevamento per la produzione di carne (la questione di uova e latticini è appena sfiorata, nel libro). O ancora: “la decisione di non mangiare gli animali è necessaria per me, ma è anche circoscritta e personale”. (pag. 215) Dunque c’è una sintonia concreta, anche se non ideale, con quanto sostiene Slow Food: “consumare meno carne sarebbe un primo passo per affrontare questi problemi [ambientali], ma anche scegliere prodotti conformi a elevati standard di benessere animale può contribuire a un miglioramento nella sostenibilità”.[vi] Insomma: l’incontro è possibile – perché allora la sensazione di una contraddizione tra Foer da un lato e Alce Nero e Slow Food dall’altro?

La risposta è, semplicemente, nel titolo dell’edizione italiana. Che nasce da questo episodio: la nonna di Foer vaga profuga per l’Europa orientale durante la seconda guerra mondiale e un contadino, vedendola spaventosamente affamata, le offre un pezzo di carne. Di porco.

“-Ti salvò la vita.

-Non lo mangiai. […] Non ero disposta a mangiare maiale.

-Perché? […] Perché non era kosher?

-Certo.

-Ma neppure per salvarti la vita?

-Se niente importa, non c’è niente da salvare.” (pag. 25)

Forse per coerenza con questa affermazione della nonna, forse semplicemente per estrema serietà intellettuale, in tutto il libro Foer si sforza di portare a galla le contraddizioni. Anche le proprie. Magari lascia risposte aperte o accetta posizioni di compromesso, ma si tratta sempre di un compromesso esplicitato e ampiamente discusso. Di fronte agli allevamenti “umani” e ai macelli “pietosi” Foer non lascia cadere la domanda sul se sia davvero necessario e opportuno mangiare carne. Nel raccontare il crescere della sua stima per gli allevatori non-industriali, Foer riconosce la propria ambivalenza nei confronti del prosciutto che gli viene offerto: “non voglio mangiare il contenuto di quel piatto che, non molto tempo fa, era il contenuto di un maiale in attesa nel recinto […]. Eppure qualcos’altro nel profondo di me lo vuole mangiare. Voglio dimostrare con forza a Mario che apprezzo la sua generosità. E voglio potergli dire che il suo duro lavoro produce cibo delizioso” (pag. 178). E ammette infine di essersi nascosto dietro la kasherut per rifiutare il prosciutto senza ferire Mario.

Di fronte alla pesca Foer non finge che esista una pesca sostenibile, e parla di un piatto di sushi di un metro e mezzo di diametro per contenere anche tutti gli animali che sono stati uccisi, come prede accessorie, per servirti quel sushi (pag. 58), mentre Slow Food, dal canto suo, crea Slow Fish.[vii] Ancora: riguardo la questione centrale della capacità del consumatore di condizionare il mercato Foer, che pur condivide l’approccio, si domanda: “una specie di programma d’acquisto preferenziale di cibo non industriale, cosa che si avvicina molto al boicottaggio – è sufficiente” (pag. 216) E riconosce che “l’allevamento è condizionato non soltanto dalle scelte alimentari, ma anche da quelle politiche”. (pag. 215) Insomma: ogni cosa, nel testo di Foer, è illuminata dal tentativo di rendere conto delle scelte, dei bivi, delle debolezze e delle coerenze. Perché le scelte e i comportamenti importano, ma anche il contesto e le conseguenze. Perché se niente importa non c’è niente da salvare.

Bologna, Alce nero e Slow Food sono di un’altra pasta. Anche qui qualche avvertenza.

Per Bologna intendo la Bologna City of Food (anzi City of food is Bologna) ovvero il tentativo istituzionale di caratterizzare Bologna come città del cibo, ufficialmente “predisponendo un ricco archivio di storytelling, mettendo in campo uno spazio web dedicato dinamico e partecipativo e soprattutto valorizzando le eccellenze della città di Bologna e del suo territorio”;[viii] verosimilmente invece fottendo visitatori ad altre città (non a caso il sindaco di Parma, altra sedicente capitale del cibo e sede dell’European Food Safety Authority, è visibilmente preoccupato). City of food is Bologna è anche EXBO,[ix] satellite locale di EXPO 2015, il grande evento milanese per il rilancio di cemento, corruzione, precariato[x] (e, oso prevedere, per lo sdoganamento degli OGM). Ma più di ogni altra cosa quella Bologna è la Bologna della “Disneyland del cibo”: il Fico o Eataly World, ambiziosissimo parco tematico che riprodurrà in vivo la coltivazione e la trasformazione in cibo e offrirà ristorazione e vendita delle eccellenze agroalimentari italiane. Diventando “un EXPO permanente”[xi] secondo il già citato Andrea Segrè, suo ideatore e presidente di CAAB, mercato ortofrutticolo pubblico che cede i propri edifici e terreni per farli diventare il Fico.

Alce Nero non lo considero solo azienda pioniera del bio in Italia eccetera, ma il rappresentante di un mondo imprenditoriale guidato da Coop che, con le istituzioni e le banche, sta riempiendo di sostanza quel processo e realizzando il Fico (la sola cosa concreta, le altre sono branding e storytelling).

Per Slow Food infine intendo il soggetto che conferisce senso e anima a prodotti agroalimentari di qualità e piuttosto costosi. Senso e anima, ovvero gli insuffla il pneuma che li eleva dal valore d’uso a quello di feticcio, nonché di consumo posizionale e cibo per fighetti. Naturalmente Slow Food è anche molto altro, ma non potrei in questa sede – se pur ne fossi capace, e ne dubito – darne conto.

Accontentatevi quindi di una cruda esemplificazione: Slow Food è il brand che garantisce che il chinotto Lurisia, di proprietà al 50% di Farinetti, possa approdare sugli scaffali di Coop al prezzo feticcio di 4,12 euro al litro, mentre un Chinò San Pellegrino ne costa 0,96.[xii]  Dunque Slow Food ha la sua epifania commerciale in Eataly[xiii] e in Coop; Eataly a sua volta è partecipata da Coop (nella società chiave per l’aspetto distributivo, al 40%) e Eataly e Coop sono, rispettivamente, la natura stessa del Fico e il suo principale investitore. Ne deriva che Slow Food può pur fare dei sottili distinguo dicendo che, riguardo al Fico, è necessario richiedere “alcuni accorgimenti, in modo da non pregiudicare le realtà già presenti in città”[xiv] (i mercati della terra dei produttori di Slow Food), ma in realtà si trova incastrata nel Fico come nella “grossa apparecchiatura che serve a tenere temporaneamente fermo il maiale quando entra e consente all’addetto allo stordimento – incaricato di effettuare l’elettronarcosi – di applicare la scarica alla testa del maiale, rendendolo subito incosciente, almeno in teoria”. (pag. 168)

E il Fico – ecco il contrasto con Foer –  è precisamente la fiera realizzata e conclamata del non importa niente. A partire dal nome: F.I.Co. ovvero Fabbrica Italiana Contadina, che richiama proprio quella che Petrini, peraltro con un’allarmante dose di superficialità, definisce “l’idea assurda (perché è una contraddizione in termini!) di un’agricoltura industriale, ovvero condotta secondo i principi dell’industria”.[xv] Ma andiamo avanti: non importa.

Il CAAB, come detto, è l’enorme mercato ortofrutticolo all’ingrosso di proprietà pubblica. Il suo gigantismo è eredità di tempi lontani? Tutt’altro: è stato inaugurato nel 2000, ed è nato già sommerso di debiti. Oggi e da tempo, scrive la giunta bolognese nella sua delibera 158/2013, il Comune è “alla ricerca di soluzioni per un più razionale sfruttamento delle aree a disposizione, sovradimensionate rispetto all’utilizzo a mercato all’ingrosso, in un momento nel quale il rilevante sviluppo della grande distribuzione ha […] soppiantato la tradizionale filiera commerciale”. Tutto vero, peccato solo che l’amministrazione che l’ha voluto così enorme fosse del loro partito, lo stesso che ha concesso alla Grande Distribuzione Organizzata di circondare la città di centri commerciali e che continua a favorirla a livello nazionale con le cosiddette liberalizzazioni – da Bersani a Monti e ad infinitum. Ma la giunta se la cava dicendo che c’è stato “un rilevante sviluppo della grande distribuzione”: non importano le responsabilità, le scelte, il come e il chi ne abbia tratto vantaggio – ovvero la Coop. Che oggi salva il CAAB da se stessa, fagocitandolo in modo Fico.

Terreni e strutture interessate dall’operazione si trovano a poche centinaia di metri dall’inceneritore della potentissima Hera spa, nel cui consiglio d’amministrazione siede Tiziana Primori, che è anche responsabile sviluppo e partecipate di Coop (Adriatica), vicepresidente di Eataly e a breve AD della società che gestirà il Fico.[xvi] Ma se non c’è motivo di preoccuparsi del cumulo di cariche, non ci dev’essere neppure un allarme inquinamento per i prodotti che verranno coltivati nei campi del parco tematico. Perché, assicurano i rappresentanti di Comune e CAAB, le coltivazioni fiche saranno puramente dimostrative e non produttive.[xvii] Naturalmente dopo aver premesso, come da copione, che gli inceneritori non inquinano. Ma allora perché Farinetti continua a dire che è necessario fare del Fico “un luogo vero, dove le piante sono vere, i frutti sono veri, le fabbrichette… i laboratori artigianali sono veri e dove esca un prodotto vero, di qualità che celebra le eccellenze”?[xviii] Forse intende vero nel senso in cui è vera la Disneyland originale dove, come scrive Marc Augé, ogni falsa casa è comunque un vero negozio?[xix] Altra domanda: che farà Alce Nero dell’ettaro di terreni fichi che si è riservato per le sue coltivazioni bio, come annuncia mentre invita Foer? Sarà Primori, in veste di Hera, a fornire i concimi? E ancora: se davvero sarà tutto dimostrativo e non produttivo che fine faranno i frutti della terra fica? Se non verranno rifilati come bio (alla diossina) ai visitatori verranno buttati? E se verranno buttati come la mettiamo con il profilo di guru antispreco del presidente Andrea Segrè? Diventeranno quindi biocombustibili? Ma allora come rispondere alla (giusta) critica di Slow Food all’uso di prodotti alimentari per alimentare i motori? E se diventeranno foraggio per allevamenti industriali, come spiegarlo a Foer? Non importa proprio niente?

Ancora: i posti di lavoro nel Fico saranno “occupazione buona”; lo garantiscono la Cisl e Segrè. Non si capisce in virtù di cosa, visto che Farinetti è noto per offrire pessimi posti di lavoro. Il loro numero in pochi mesi è precipitato da 5000 a 3550, sempre nella generosa e spannometrica somma tra diretti e indotto[xx] e un grande e intrigante mistero ne copre la natura contrattuale, la durata, le ore settimanali e la retribuzione. Se seguiranno la parabola del fratello maggiore ed effimero di Fico, EXPO 2015, tra gli annunci e la realtà gli occupati caleranno dell’85 (sic!) per cento;[xxi] e naturalmente non importa quanti e quali posti di lavoro saranno persi altrove a causa del Fico. Né importa che l’investitore fico di Hong Kong, la cui visita ha fatto gongolare i nostri,[xxii] sia noto, temuto e studiato nell’ex-colonia britannica proprio per le aggressioni alle condizioni di lavoro e il ruolo nelle privatizzazioni di asset pubblici.[xxiii] Proprio come è ancora il CAAB: e infatti Segrè ipotizza di vendere al fondo asiatico parte delle quote pubbliche di Fico.[xxiv]

E che dire infine dello sbandierato “consumo di territorio = zero” che caratterizza il Fico fin dai primi PowerPoint? “Non sarà aggiunto un solo mattone”, garantisce la vicesindaco Giannini, “saranno utilizzate le strutture già esistenti”.[xxv] Verissimo: nel Fico si sta tranquilli, ma come nell’occhio del ciclone. Perché il Parco Tematico fungerà da catalizzatore per una serie impressionante di interventi immobiliari speculativi che erano fermi ai blocchi di partenza da anni, e che senza Fico sarebbero rimasti solo nelle intenzioni degli anni folli dell’edilizia. Ci sono brownfields, ma anche terreni incolti e campi agricoli: per tutti si prepara la cementificazione. Tra quelli ancora agricoli c’è l’area Pioppe di proprietà di CAAB e Comune, destinata a quartierino gentrificante proprio dagli stessi che sbandierano che “non sarà aggiunto un solo mattone” e scrivono, come fa Segrè, che “occorre una rivoluzione innanzitutto culturale per far percepire il suolo (e il paesaggio) come bene comune”.[xxvi]  Per poi trovarsi, nel concreto, a considerare che il Fico “chiaramente valorizza [dal punto di vista immobiliare] tutto il resto, questo è del tutto evidente… ma io la domanda che faccio […] è: qual è l’alternativa? Cosa avremmo fatto? Lasciavamo tutto lì incolto? Che è anche bello, voglio dire, naturalmente, dal punto di vista… però!”

Ovviamente la risposta alla domanda di Segrè è sì: andava lasciato tutto incolto. Per la vicinanza all’inceneritore e perché il territorio, e il paesaggio, sono un bene comune. (L’espressione “bene comune” mi fa venire il mal di pancia, ma ci siamo capiti, no?).

C’è poi suor Giuliana Galli, che nel volume che celebra i 65 anni di Carlin Petrini scrive che “la buona terra è ovunque: da amare, da vivere, da salvare”, e che, con l’avvento dell’agroindustria, “su quel grembo generoso passarono pesanti e potenti motori e macchine che lo ferirono profondamente: non era più Madre da rinutrire, accudire”[xxvii] eccetera. Ma poi siede nel Comitato di Gestione della Compagnia di San Paolo, fondazione che non si occupa di conversioni o di viaggi a Damasco, ma è la detentrice della maggioranza di Intesa-Sanpaolo. Gruppo proprietario di un altro terreno peri-Fico in via di cementificazione gentrificante, secondo investitore in Fico dopo Coop e, soprattutto, banca di EXPO 2015. Responsabile quindi di ferite al “grembo generoso della Madre” assai più irreversibili di quelle causate da un’aratura, per quanto profonda e agroindustriale.[xxviii]

“È sempre possibile svegliare uno che dorme, ma non c’è rumore che possa svegliare chi finge di dormire” (pag. 113), scrive Foer a proposito di chi pretende di non conoscere la realtà degli allevamenti. Il “non importa niente”, la politica del non importa niente porta questa finzione alla sua espressione massima, esponenziale – e la generalizza ben oltre le porte del macello. Chi finge di dormire diventa, nel sogno mediatizzato e mediaticamente condiviso, egli stesso risvegliatore di coscienze assopite; chi finge di dormire finge che il maiale che gli viene offerto sia il più kosher dei piatti. Nonostante non stia affatto morendo di fame.

 

[i]    Così i quotidiani del 13 marzo 2014 (Il Resto del Carlino p. 2 dell’ed. Bologna; La Repubblica  Bologna pp. 1 e 9; Il Corriere di Bologna p. 5)

[ii][ii]    J.M. Coetzee, La vita degli animali, Milano: Adelphi, 2000, pp. 27-28.

[iii]     Carlo Petrini, Buono, pulito e giusto, Torino: Einaudi, 2a ed. 2011, pp. 163-164.

[iv]    Andrea Segrè, Vivere a spreco zero, Venezia: Marsilio, 2013, p. 58.

[v]              Senza dimenticare i casi in cui il tempo abbonda, ma il cuore, chissà perché, anela al Lidl.

[vi]             Il benessere animale secondo Slow Food: documento di posizione, [2013], reperibile in rete.

[vii]            Per un’analisi vegana (e) militante, si legga il dossier Nessuna faccia buona, pulita e giusta a EXPO 2015 del collettivo Farro & Fuoco, ampiamente reperibile in rete (anche su archive.org).

[viii]           Dal sito del Comune di Bologna (marzo 2014): City of Food is Bologna si propone come brand finalizzato  promozione e al coordinamento di iniziative dedicate al cibo, collettore di ricerche, spazi, esperienze, eventi scientifico-culturali- commerciali legati ai temi dell’alimentazione […].

[ix]             Si veda il sito www.exbo.it

[x]              Roberto Maggioni e Collettivo Offtopic, Expopolis, Milano: Agenzia X, 2013 (scaricabile all’indirizzo http://www.offtopiclab.org/expopolis/).

[xi]             Così al Resto del Carlino ed. Bologna dell’11 marzo 2014, p. 11.

[xii]            Rilevazione prezzi effettuata personalmente nel settembre 2014 in una Coop della provincia di Bologna. Per gli scettici ho le foto!

[xiii]           Sul rapporto tra l’azienda e l’associazione si veda l’interessante inchiesta di Filippo Santelli sul settimanale Pagina99 del 5 aprile 2014 dal titolo “Eataly divora Slow Food”.

[xiv]  Così Giorgio Pirazzoli, direttore del Mercato della Terra (Slow Food), al Corriere di Bologna del 18 settembre 2013, p. 8.

[xv]   Petrini, Buono, pulito…, p. 22.

[xvi]           http://www.gruppohera.it/gruppo/corporate_governance/cda/pagina123.html

[xvii] Si veda il report istituzionale di un incontro al Pilastro del 19 febbraio 2014 all’indirizzo: http://www.urbancenterbologna.com/new/images/areeannessesud/2014_02_19_Report_Pilastro.pdf

[xviii]        Mille giorni per il futuro: La Fabbrica Italiana Contadina (ripresa video dell’omonima iniziativa della Festa de L’Unità nazionale), 4 settembre 2014, http://www.youdem.tv/doc/271331/mille-giorni-per-il-futuro-la-fabbrica-italiana-contadina.htm, min. 16.

[xix]  Marc Augé, Disneyland e altri nonluoghi, Torino Bollati Boringhieri 1999, p. 23.

[xx]            Erano 5000 nella presentazione in Comune del progetto a dicembre 2013; sono 3550 secondo il (fichissimo) Corriere di Bologna del 17 agosto 2014, p. 5.

[xxi]           Luca De Vito, “Expo, finora solo 3.738 nuove assunzioni in vista del 2015: ne erano state previste 100mila”, La Repubblica Milano, 8 luglio 2014 (anche in rete).

[xxii]          Simone Arminio, “Al celeste impero piace Fico”, Carlino Bologna, 11 marzo 2014, p. 11.

[xxiii]         “Un link tra Bologna e Hong Kong? Fico!”, Giap!, 13 giugno 2014, http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=17745

[xxiv]         Ri.Que., “Missione del fondo di Hong Kong per Eataly World”, Corriere della Sera, 5 marzo 2014, p. 35.

[xxv] Valerio Varesi, “Fico fa venire l’appetito a Bologna”, La Repubblica Bologna, 12 febbraio 2014, p. 2.

[xxvi]        Segrè, Vivere…, p. 64.

[xxvii]        AAVV, Carlo Petrini: la coscienza del cibo, Bra: Slow Food, 2014, pp. 110 e 112.

[xxviii]       La cementificazione catalizzata dal Fico è raccontata in dettaglio dai miei articoli con il tag “FICO” sul blog di  www.salviamoilpaesaggio.it