di Alexik
[A questo link il capitolo precedente.]
La guerra scatenata da Scelba contro il movimento bracciantile fu particolarmente sanguinaria.
Nel solo 1949 vanno addebitati sul conto del ministro degli interni i braccianti morti a Mazara del Vallo, Molinella, Forlì, Gambara, Minervino Murge, Melissa, Isola di Caporizzuto, Bondeno, Crotone, Torremaggiore, Bagheria, Montescaglioso. Le esecuzioni di lavoratori in sciopero e degli occupanti di terre avvenivano in un contesto di occupazione militare, che comprendeva il tiro a segno sulla folla, migliaia di arresti e fermi, i pestaggi generalizzati, la distruzione dei beni. Un contesto dove veniva del tutto legittimata anche la violenza privata degli agrari affiancati da bande di squadristi, come negli anni ’20.
Per dare un’idea del clima è utile questa testimonianza sulla repressione dello sciopero bracciantile nei giorni che precedettero l’uccisione di Loredano Bizzarri presso la tenuta Lenzi di San Giovanni in Persiceto:
“Il 10 giugno 1949 ci trovavamo nel fondo di un colono allo scopo di far desistere in forma amichevole i lavoratori che continuavano a lavorare nonostante lo sciopero, allorquando fummo accerchiati ed arrestati dai militi della “Celere” che, dopo averci preso a manganellate, ci fecero incolonnare tre per tre e ci portarono nel cortile della tenuta Lenzi dove, sotto la minaccia armi, ci costrinsero a porci sull’asfalto rovente, e qui sotto il sole fummo obbligati mezz’ora con la faccia rivolta in avanti mentre i militi comandati dallo stesso maggiore ci tenevano sotto una costante minaccia.
In seguito fummo caricati tutti quanti per tradurci alla Villa Zambonelli [la villa, che era appartenuta ad Elio ed Enea Zambonelli, gerarchi fascisti e picchiatori, mantenne evidentemente anche dopo la Liberazione la sua antica vocazione, ndr] che è nei pressi di Persiceto. Ivi giunti fummo costretti ad incolonnarci tre per tre per ordine del maggiore stesso e ci venne comandato di entrare nella villa per declinare le nostre generalità. Qui il tragitto non era certamente dei più belli. “Accarezzateli” ordinava il maggiore ai suoi militi e questi si disponevano in due all’ingresso della porta menando colpi a più non posso mentre un terzo si parava di fronte a noi. Finalmente giungemmo nell’ufficio dove ci attendeva il maresciallo Giannini, comandante la locale stazione dei carabinieri. Uscendo poi dall’ ufficio fummo oggetto dello stesso brutale trattamento e ne uscimmo tutti pesti alla faccia, alle orecchie, nelle braccia ed in altre parti del corpo.
Non parliamo poi delle offese e degli insulti. Alle violenze brutali si sono aggiunte le minacce. Mentre eravamo nella Villa, abbiamo inteso un milite della “Celere” che ha informato il maggiore che all’ingresso erano presenti l’onorevole Bottonelli e il senatore Mancinelli. Il maggiore rispose: ” Non fateli entrare; se insistono rompete la testa anche a loro”1.
Dal maggio al luglio ‘49 i braccianti di Persiceto subirono 320 arresti, 505 pestaggi e ferimenti, 155 biciclette distrutte2. Spesso venivano tolte loro le scarpe, e così a piedi nudi venivano trasportati a 10 o 12 chilometri di distanza e lasciati in aperta campagna3 (la stessa forma di umiliazione veniva ancora usata, 40 anni dopo, contro i fermati dalle volanti della Questura di Bologna).4
Nella vicina Crevalcore la Celere e i carabinieri operavano in perfetto coordinamento con gli squadristi pagati dagli agrari: “In tutto il periodo dello sciopero bracciantile abbiamo notato a Bolognina una decina di individui forestieri che hanno preso dimora nell’azienda Patrignani. Detti individui armati scortavano il Patrignani, facevano servizio di perlustrazione e vigilavano frequentemente insieme con i carabinieri fermando la gente per la strada, perquisendo. Minacciando e ingiungendo spesso ai cittadini di chiudersi in casa”.
A tratti gli squadristi sembravano in posizione di comando rispetto ai “tutori dell’ordine pubblico”: “Si attesta che il giorno 3 giugno 1949 alle ore 12,30, dopo gli arresti fatti dai carabinieri dentro la lavanderia dell’azienda Patrignani, fummo bastonati da un agente della «Celere», dietro indicazione di un borghese armato, il quale diceva all’agente: «picchia quello, picchia quell’altro”. “Nei brevi istanti che si apriva la porta per fare entrare i nuovi arrestati, notammo uno degli uomini di Patrignani che stando su un albero, armato, indicava agli agenti di polizia dove dovevano dirigersi per bastonare i lavoratori”5.
Sempre a Crevalcore, l’agrario (ed ex partigiano azionista) Leonida Patrignani poteva permettersi di irrompere armato nella Casa del Popolo e sparare sul custode senza subire alcuna conseguenza6.
Forti erano gli scontri fra scioperanti ed esponenti dei “Sindacati Liberi” (poi CISL), accusati di organizzare il crumiraggio. Oggetto del conflitto erano, fra l’altro, i contratti di compartecipazione promossi dai futuri cislini, una sorta di mezzadria stagionale che retribuiva i contadini con una percentuale sul raccolto7. Era un modo per indurre i senza terra a condividere con gli agrari gli obbiettivi della produzione pur senza possedere niente, e a rompere il fronte della lotta in occasione degli scioperi nelle campagne.
Lo sciopero bracciantile del ’49 fu anche oggetto di un intenso dibattito parlamentare. Interessante la lettura delle invettive provenienti dagli scranni della Democrazia Cristiana8: “Abbiamo veduto in queste agitazioni spiegarsi una tattica nuova quasi di tipo militare. Non sono più le dimostrazioni di una volta, quando le masse marciavano sulle strade precedute dalla bandiera rossa al canto dell’inno dei lavoratori. No, la tattica ora è cambiata radicalmente. Non più masse, ma piccoli gruppi fatti affluire da paesi limitrofi per i campi, sui sentieri, lungo i fossi, senza farsi scorgere, anzi mimetizzandosi con l’ambiente, con lo scopo di raggiungere un determinato luogo dove al momento prestabilito si concentrano ed eseguono l’azione comandata. Queste squadre … sono precedute dalle staffette, hanno dei collegamenti, dei rifornimenti per mezzo di cucine volanti, portano con sé un carro attrezzi per riparare le biciclette che rimanessero danneggiate negli scontri con la forza pubblica, ed hanno una preparazione tale che esorbita dallo scopo di lotta sindacale per lo sciopero bracciantile. Evidentemente queste squadre sono state preparate e comandate da persone che hanno una certa dimestichezza con le regole della tattica militare. Sono munite di tavole per costruire ponti di fortuna su fossi e canali che devono attraversare … c’è anche una certa dotazione di armi”.
La filippica del senatore della DC bolognese Raffaele Ottani aveva il merito di palesare la continuità fra le lotte bracciantili e la guerra partigiana. Non ci voleva poi un genio per capire che molti fra quelli che lottavano nelle campagne erano gli stessi che pochi anni prima avevano liberato il paese dai nazifascisti, e che ora riadattavano le modalità di azione della resistenza alle necessità del conflitto sociale.
Ottani così continuava: “Quando si fanno affluire da lontani paesi delle masse che non appartengono alla categoria che è in agitazione, quando a queste masse si consegnano mezzi di lotta per poter non solo stringere in un assedio simbolico ma proprio opprimere fisicamente coloro che allo sciopero non vogliono partecipare, allora noi siamo di fronte non ad una manifestazione di carattere economico, bensì ad una manifestazione di carattere politico e rivoluzionario che. deve essere denunciata e che il Ministero dell’interno ha fatto bene a contenere e a reprimere”.
Nulla veniva detto dal senatore sui motivi della lotta, sullo sfruttamento nelle campagne, sulle frotte di crumiri importate dalle zone più povere, sui morti che stavano, con poche eccezioni, da una parte sola. Egli si dedicava piuttosto ad imputare agli scioperanti la loro politicità, la loro capacità organizzativa, l’indisponibilità a farsi massacrare inermi, l’esercizio della solidarietà di classe da parte di lavoratori di altri settori. Tutti crimini che a suo parere andavano puniti col sangue.
Comunque, grazie proprio a quelle “manifestazioni di carattere politico e rivoluzionario” fu possibile raggiungere alcuni risultati (per la verità molto riformisti) di minima civiltà, quali la legge sulla durata minima di due anni per i contratti dei salariati fissi (agosto ’49), i contratti nazionali dei braccianti e avventizi (maggio 1950) e dei salariati fissi (luglio 1951).
Le lotte del ’49 non riuscirono però ad ottenere il divieto di disdetta del rapporto di lavoro senza giusta causa, uno dei principali obiettivi dello sciopero. La Confagricoltura alzò un muro contro questa rivendicazione, perché “lesiva del buon andamento della conduzione agricola, oltre che per il normale e proficuo esercizio del diritto di proprietà”9. L’organizzazione datoriale era ben spalleggiata: “La scelta compiuta dalla Dc, dal governo e dalla Cisl contraria alla introduzione del principio della giusta causa fu una delle ragioni essenziali della conclusione non positiva di quelle lotte”10.
Il 1949 fu un anno duro anche per gli operai delle città. In luglio a Bologna riapri i battenti la Leonardi Inchiostri. Aveva chiuso in aprile assieme alla Farmac e alla Baroncini, come ritorsione dopo le agitazioni per il rinnovo del contratto dei lavoratori chimici. Ma se per le altre due aziende si era trattato di una serrata temporanea, la Leonardi aveva proclamato la cessazione delle attività, licenziando tutte le maestranze. Tre mesi dopo invece riapriva con nuovo personale preso dall’ufficio di collocamento.
Era un’operazione sporchissima, avvallata palesemente dall’Ufficio Provinciale del Lavoro che aveva agito ignorando l’obbligo di precedenza nella riassunzione per i lavoratori licenziati. Il tutto alla faccia della riforma del collocamento appena varata, che normava l’accesso al lavoro ispirandosi a principi di equità.
Dal giorno della chiusura, per otto mesi i lavoratori della Leonardi si mobilitarono, appoggiati dall’intera popolazione della zona Casaralta. Ricevettero dai compagni delle altre fabbriche solidarietà e aiuto materiale, affrontarono il reparto carabinieri del capitano Bianco, famoso per l’uso dei fucili come clave. Ma sulle riassunzioni non la spuntarono.
Fu così che fondarono la Cooperativa Industrie Chimiche Affini. La solidarietà ai licenziati della Leonardi cominciò ad esprimersi allora con l’acquisto degli inchiostri e dei chimici per cancelleria prodotti della CICA, che ben presto divenne fornitrice degli enti locali del territorio, del sindacato, dei partiti e delle associazioni della sinistra bolognese11.
L’epilogo cooperativo della vertenza Leonardi non sarebbe stato un’eccezione. L’anno dopo i licenziati dalla Valdevit di Modena si organizzarono nella Cooperativa Fonditori, grazie anche al credito e alle commesse assicurate da Enzo Ferrari. Aveva capito, l’imprenditore del cavallino rampante, che quei “facinorosi” estromessi per rappresaglia politica e sindacale erano anche i migliori fonditori sulla piazza, gli unici a poter garantire pezzi perfetti per le sue monoposto da competizione12. Anni dopo la Valdevit venne messa in liquidazione, la Cooperativa Fonditori no.
Una soddisfazione, certo, ma non una vittoria. Il fatto è che l’espansione del movimento cooperativo (ma anche il proliferare delle microaziende artigiane) come alternativa occupazionale per centinaia di licenziati era l’altra faccia della sconfitta subita nella maggior parte delle lotte contro i licenziamenti.
Non si riusciva a far rientrare in fabbrica i militanti, a riconquistare l’agibilità sindacale, con tutto quel che ne poteva conseguire in termini di difesa della classe sui luoghi di lavoro.
Inoltre il passaggio alla cooperativa (o al lavoro autonomo) coincideva con la mutazione genetica delle avanguardie di lotta in imprenditori di se stessi, entro contesti che, se mai lo sono stati, non potevano restare a lungo immune dal germe dello sfruttamento, visto che operavano in un regime di mercato. Ma nel ’49 questo era un aspetto secondario. Erano altri tempi, tempi in cui le cooperative servivano a sottrarre i lavoratori alla fame e all’arroganza padronale, e non a licenziarli dopo uno sciopero, pestarli o farli pestare, devastare territori, spartirsi appalti in maniera intimidatoria e fraudolenta, corrompere funzionari pubblici o stringere sodalizi con mafiosi e neofascisti. (Continua)
Nell'immagine in alto: Tenuta Patrignani alla Bolognina (particolare), di Aldo Barbieri.
Senato della Repubblica, CCLXIII Seduta, mercoledì 27 luglio 1949. Intervento del Senatore Carmine Mancinelli (PSI), p. 9901. ↩
Ibidem, p. 9900. ↩
Ibidem, p.9901 ↩
Queste le dichiarazione di un agente in servizio negli anni ’90: “Certo, atteggiamenti verso certi balordi ci sono sempre stati. Tagliare a zero i capelli o portarli in montagna e lasciarli lì senza scarpe al buio, è sempre stata una forma di giustizia privata“. In Raffaele Magni, La devianza delle forze dell’ordine e la teoria del sospetto. ↩
Senato della Repubblica, CCLXIII Seduta, mercoledì 27 luglio 1949. Intervento del Senatore Carmine Mancinelli (PSI), p. 9899. ↩
Idem. ↩
Senato della Repubblica, CCLXI Seduta, mercoledì 27 luglio 1949. Intervento del Senatore Raffaele Ottani (DC), p. 9830. ↩
Ibidem, p. 9832. ↩
P.P. D’Attorre, A. De Bernardi, Studi sull’agricoltura italiana: società rurale e modernizzazione, Volume 29, Feltrinelli, 1994, p.31. ↩
Intervista a Giuseppe Morandi in: Mario Bardelli, Stagno Lombardo: La provocazione poliziesca nei quaranta giorni di sciopero dei salariati e braccianti agricoli, cip, 1978. ↩
Luigi Arbizzani, La Costituzione negata nelle fabbriche. Industria e repressione antioperaia nel bolognese (1947-1957), Grafiche Galeati – Imola, 1991, p. 61 ↩
Eliseo Ferrari, Rosso operaio, Rosso Ferrari. Il 9 gennaio 1950 a Modena 6 lavoratori in sciopero furono uccisi dalla polizia Nel diario di un sindacalista il ricordo di quei giorni e dell’appoggio di Enzo Ferrari alla lotta degli operai, L’Unità, 7 gennaio 2005. ↩