di Mauro Baldrati
Ricordo bene le foto di Salgado, quando uscivano in tempo reale, alla fine degli anni Ottanta. Io, da fotografo qual ero, cercavo di studiarli tutti, gli autori. Le sue foto erano grandiose, perché sembravano tendere verso gli spazi enormi, gli eventi epocali; alcune sembravano addirittura costruite, tanto erano forti, e incredibili: certi ambienti e paesaggi provenivano dalla fantascienza, o dal teatro. Invece era tutto vero: le riprese alla miniera d’oro brasiliana di Serra Pelada, che aprono il film, hanno qualcosa di apocalittico: un termitaio di uomini seminudi che vanno su e giù da altissime scale di legno, come certe fantasmagorie bibliche sulla torre di Babele. Uno scenario ritratto con inquadrature enormi, aggressive. E sofisticate, come tutte le sue foto. Il bianco e nero di Salgado era curato fino alla patologia, e il gioco di contrasti sembrava lavorato, enfatizzato, con luci che apparivano studiate ad arte dal fotografo-creatore. In parte era questo che non mi convinceva fino in fondo, e mi impediva di amare le sue foto di quell’amore un po’ acritico, diciamo pure adorante, che provavo nei confronti di Richard Avedon, o di Irving Penn, e dello stesso Helmut Newton, per il quale provavo pure il sentimento opposto, una sorta di odio artistico. Le sue immagini erano per così dire patinate, e questo non si addiceva alle foto di paesaggio e di reportage sociale. Anzi, non erano veri e propri reportage, ma documentazioni di tipo artistico, come un nuovo capitolo della ricerca, in sé alquanto rischiosa, sulla fotografia pittorica.
Con la visione del film di Wim Wenders in gran parte questa impressione è stata superata. Non perché emergano retroscena importanti sulla fotografia. Anzi, su questo aspetto il film, semplicemente, tace. Non una parola su quella tecnica straordinaria, su quella luce che sembra creata da un tocco semidivino. Non è un aspetto che meriti neanche un secondo di attenzione per Wenders. Che tipo di carta usava? Al platino, come Mapplethorpe? E il formato? Erano possibili quegli scenari immensi col 35 millimetri? Io so, perché l’ho appreso da altre fonti, che usava una Leica, e talvolta un medio formato 6X4,5, ma il film snobba completamente questi dettagli. Poi Salgado lo vediamo oggi, all’età di circa settant’anni, che fotografa in digitale. Dunque ha fatto il passaggio. Quando? E com’è stato? Di nuovo io so che l’ha fatto soprattutto per motivi pratici, determinati dal peso dei rullini, dalla loro deperibilità e dalle misure di sicurezza molto severe negli aeroporti dopo l’11 settembre.
Ma forse questi sarebbero stati dettagli troppo specialistici, e quindi Il sale della terra sarebbe diventato un film per fotografi.
Invece non lo è. Non è un film sulla fotografia, per fotografi. E’ altro. E’ una fusione di immagini, con la modalità di realizzazione delle stesse, con la biografia un po’ reticente di un fotografo che ha viaggiato per il mondo documentando, col suo occhio fotografico particolare, luoghi del pianeta esotici, asprì, ostili, e soprattutto le dinamiche sociali che questo mondo lo modificano, soprattutto lo distruggono. La parte centrale del film è stupefacente in quanto a durezza, e per alcuni spettatori può essere necessario difendersi psicologicamente da ciò che viene mostrato. Credevamo che gli orrori dei campi di sterminio nazisti fossero terminati con la fine della guerra. Non è così. Salgado va in Ruanda, durante la guerra civile tra i Tutsi i gli Hutu, nel 1994, un massacro durato mesi durante il quale sono state sterminate un milione di persone a colpi di arma da fuoco e di machete. Cataste di cadaveri vengono sepolti con le ruspe, in fosse comuni. Le strade sono costellate di corpi fatti a pezzi, per chilometri, uomini, donne, bambini. Intere scuole sono state sterminate col machete. Salgado fotografa tutto, i campi profughi, dove il colera fa stragi, scheletri umani rinsecchiti giacciono ovunque. Documenta, come fanno tutti i fotografi, immagini di una violenza e di una disperazione insostenibili. Poi va in Bosnia, dove ritrae altre stragi, altro odio. E in Kuwait, dove Saddam Hussein in ritirata incendia 500 pozzi di petrolio, scatenando una catastrofe ecologica mondiale di enormi proporzioni. Fotografa le terre devastate, avvelenate, e gli specialisti che spengono gli incendi. Sono immagini sbalorditive, cieli neri di fumi petroliferi, dove il sole non filtra più, mari e terreni inondati di melma nera, animali morti, o impazziti, e poi gli uomini: i pompieri sono completamente ricoperti di petrolio, come da una pellicola grigio-scuro, faccia compresa. Sembrano sculture viventi; non fotografie ma installazioni.
Salgado si ammala, entra in una crisi esistenziale grave. Crede che la nostra sia una razza maledetta, pervasa da una violenza e da un odio incommensurabili. Tuttavia le sue non sono foto di denuncia sociale, come qualcuno ha osservato. Non si schiera, è soprattutto un umanista, inorridito dai suoi simili; ferma la realtà, blocca il presente in un attimo esclusivo ed esaustivo, dove ogni cosa non detta rimane fissata in un grido, ogni gesto contiene staticamente la sua potenza, ma non la “tesi” che lo ha prodotto. Le parti sono sempre impegnate a massacrarsi a vicenda, prima va su una fazione, che stermina, stupra, distrugge, poi va su l’altra e riprendono gli stupri e le stragi. Ma forse la fotografia non ha questa prerogativa, non ha questo potere. E’ documentazione pura, racconto del presente, presa d’atto che la guerra è violenza in sé, è follia allo stato puro. Le sue immagini sono sempre esteticamente ricercate, anche nella morte e nel terrore, come una patina che ricopre ogni inquadratura, una seta splendente di contrasti e di luci semidivine che avvolge l’orrore più estremo. E’ una delle critiche che gli sono state rivolte, l’estetismo. Ma forse è un espediente per uscirne vivi e sani di mente. Una difesa, una corazza per continuare a sentirsi un essere umano.
Wenders, che è a sua volta fotografo, qua e là introduce delle didascalie spietate, un po’ come faceva Weegee “The Famous”, il mitico reporter americano degli anni Cinquanta che fotografava una donna in lacrime, disperata, e sotto scriveva, lapidario: “la sua casa è stata appena bruciata”. Di tre bambini-scheletro, dei quali si vedono solo le facce, essendo coperti da un telo, sappiamo che quello con gli occhi semichiusi sta morendo. Un uomo con un fagotto sta portando il proprio figlio morto sulla catasta di cadaveri. Una madre non ha di che sfamare il proprio figlio.
Poi Salgado, dopo questa immersione nello stagno nero della morte e della violenza, si dedica a una ricerca ecologica, con viaggi in Antartide, in Siberia, alla ricerca dei leoni marini, che ritrae con la tecnica di sempre, con una luce che sembra inserita da lui stesso in immagini in realtà più banali e scontate. Va in Papua Nuova Guinea, a fotografare le ultime tribù di indios Trombetta, che vivono fuori dal tempo, incontaminati. Ci va oggi, seguito da Wenders e da suo figlio Juliano Ribeiro, che fanno foto delle foto, immagini delle immagini. Lancia un messaggio ecologista importante e sincero, la riforestazione di ampie aree del Brasile. E inizia lui stesso, ricreando la foresta nell’azienda agricola famiglia, che avvizzisce abbandonata.
Alla fine di questa avventura visuale, una carrellata di foto straordinarie, alcune quasi inverosimili in quanto a intensità, alcune dei capolavori, il lavoro di Salgado assume un’altra significanza, una rinnovata potenza. Forse non è vero – o non è sempre vero – che le immagini vivono esclusivamente di vita propria. Wenders, con la sua proiezione, con la lunga intervista a Salgado, diciamo pura con la celebrazione della sua vita, ci ha mostrato i retroscena, ci ha fatto rivivere i sacrifici e la tensione che il loro autore ha dovuto superare per realizzare la sua opera. Ci ha mostrato anche la poesia, i suoi Fiori del Male. Ed io oggi vorrei averli tutti, i libri di Sebastião Salgado, per sfogliarli pagina per pagina, come quegli oggetti preziosi che sono.