di Francesco De Collibus
Ippolita, La Rete è libera e democratica? Falso!, Laterza, Bari 2014, pp.110, € 9,00
Quando i posteri tracceranno la storia della cultura umana a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo, dovranno fare i conti con un meteorite talmente grande e devastante che non sapranno neppure stabilire se ci abbia colpito oppure semplicemente inghiottito: la Rete.
Mai nella nostra storia tutto è cambiato così vertiginosamente e irreversibilmente. L’accelerazione è stata tale che non ci siamo ancora accorti in pieno della sua portata: non è stata solo un’accelerazione dell’oggetto, quanto del soggetto conoscente e della sua capacità cognitiva (mutata fino alla fisicità stessa del cervello, come ipotizza Nicholas Carr nel suo The Shallows). Le conseguenze di questa accelerazione sono talmente oscure che, nel buio che ci avvolge, risulta provvidenziale qualsiasi cerino.
E particolarmente illuminante è la fiaccola della riflessione portata avanti dall’identità plurale chiamata Ippolita, un gruppo di ricerca che agisce in rete dal 2005 e che rifiuta il posizionamento classico dell’autore individuale per approdare a una riflessione collettiva. Il loro nuovo libro è uscito per i tipi della Laterza nella collana “Falso”, un’iniziativa editoriale che sin dal titolo si propone popperianamente di smentire, falsificare e decostruire.
La coerenza è virtù ammirevole negli individui, figuriamoci nei collettivi, e a Ippolita va riconosciuto il merito di diffondere con coerenza da oltre dieci anni del salubre scetticismo contro i miti fondanti di questo nostro evo tecnologico. La tecnocrazia digitale, Google, Facebook: una sequenza necessaria di bersagli in Open non è free (2005), poi Luci e ombre di Google (2009) e infine Nell’acquario di Facebook (2012). La critica di Ippolita – che nasce nell’humus della scena hacker italiana, quindi con atteggiamento tutt’altro che tecnofobico – sovrasta intellettualmente sia il luddismo qualunquista degli ultimi anni che l’attuale moda del pessimismo di ritorno sui social.
Quest’ultima si configura come un’istintiva, ragionevole allergia alla “colonna di destra di repubblica.it”, con i cani che suonano Beethoven a colpi di stomaco e i fantomatici #popolidellarete ansiosi di schierarsi sulle posizioni dell’editore in cambio di qualche minuto in homepage. Una salutare repulsione per chi invoca fondi per la ricerca scientifica a colpi di secchiate d’acqua gelida sul pube, per quelle distese caprine di piedi su spiagge assolate, per quelli frasi di Wilde ricondivise milioni di volte ma che mai e poi mai il povero Oscar si sarebbe sognato di pronunciare.
Duole ammetterlo: la Rete è un posto terribilmente meno interessante da quando ci sono finiti dentro tutti. Non troverete questo scetticismo di pancia in Ippolita, ma uno scetticismo autentico, epistemologico. Nel labirinto della Rete, Ippolita insegue l’umano. Mentre la maggioranza dei libri sull’argomento, persino quelli più interessanti, condividono una impostazione giornalistica e sociale, l’indagine di Ippolita predilige l’argomento strettamente filosofico. Canetti e Wittgenstein sono spesso citati, Mozorov, Castells e McAfee mai.
L’analisi di Ippolita si basa su tre argomenti: ontologico, epistemologico e storico-geopolitico. La forma particolare di questa collana di pamphlet Laterza, con una tesi precisa da smontare in un numero ridotto di pagine, si presta particolarmente alle argomentazioni del collettivo, che risultano precise al limite della stilettata.
L’unica obiezione che si può muovere a Ippolita è a volte l’assenza di discernimento tra i papisti e il Papa. Faccio un esempio: sono certo che nessuno dentro Google, e probabilmente nessuno al di fuori di Wired, abbia mai fatto dell’algorimo di Google un idolo religioso. Google è piena, in proporzioni variabili a seconda delle country, di über-nerd e azzimati markettari, non certo di metafisici.
L’unica correttezza che l’algoritmo può garantire è quella su input e output, l’unico modo in cui un algoritmo può essere migliore di un altro che risolve lo stesso problema è sui tempi di esecuzioni, (O(n), O(log n), etc.) e sull’occupazione di memoria. Ma correttezza non è “verità” (non in senso metafisico), e migliore non vuole dire “buono” (non in senso morale). L’essenza della realtà è un concetto decisamente poco interessante per un informatico, che al più si preoccupa di modellizzarla in maniera funzionale. Il Page Rank è una buona approssimazione della realtà, per lo stato attuale della tecnologia, e probabilmente la gente non si rivolge a Google per avere la risposta ultima sul senso della vita, ma solo per trovare una pagina di previsioni del tempo attendibili che non venda Cialis.
Se confondiamo la propaganda delle corporate identity (asserzione del marketing, disciplina del tutto priva di statuto epistemologico) con una affermazione ontologica, vuol dire che stiamo riconoscendo al marketing una dignità ben superiore ai suoi meriti, e questo è un errore che Ippolita si guarda bene dal commettere.
Un altro esempio: in quasi tutte le analisi si tace sul fatto che le piattaforme social sono state create con l’obiettivo del profitto, non con l’idea di creare un contesto democratico globale di dibattito interculturale.
Sostenere, quindi, che le esperienze degli utenti, estremamente soggettive ed eterogenee fra loro, siano “essenzialmente” libere e democratiche, costituisce un’ulteriore fallacia ontologica che presuppone che gli strumenti forniti gratuitamente agli utenti dagli intermediari digitali siano “per natura” liberi e democratici.
Parlare di democrazia digitale senza parlare delle strutture della disuguaglianza digitale e sociale dimostra quanto poco i rivoluzionari del doppio click abbiano compreso.
Il libro colpisce in pieno lo zeitgeist riassumibile nel sillogismo:
a) La Rete è Google.
b) Google è libero e democratico.
ergo
c) La Rete è libera e democratica.
Anche se forse, al nome di Google, andrebbe sostituito quello dell’imprenditoria digitale espressa dalla Silicon Valley. Google non è poi molto diversa da numerose altre espressioni del capitalismo californiano: ha solo avuto più soldi, più tempismo e forse sviluppatori più competenti.
In questo libro si registra un’evidente preponderanza della pars destruens sulla construens. Grazie alla coerenza che proviene dalla militanza, Ippolita individua con precisione le sagome degli idoli da demolire. Ma fortunatamente per noi, nella Rete c’è molto di buono che merita di essere salvato. Capire cosa salvare è il miglior antidoto contro qualsiasi futura tentazione grillina o tecnoutopica, ed è l’auspicio che posso fare per le future riflessioni di Ippolita.