di Sandro Moiso
Alfred Bertram Guthrie, Il grande cielo, Mattioli 1885, Fidenza 2014, pp.450, € 16,90
“L’epoca degli uomini della montagna nel Far West non fu mai narrata così bene. Probabilmente non lo sarà mai più” (Ernest Hemingway)
Le edizioni Mattioli 1885, nella loro pregevole opera di riscoperta e pubblicazione di opere ed autori della letteratura nord-americana del XIX e XX secolo, rendono nuovamente disponibile per il pubblico italiano, nella nuova traduzione di Nicola Manuppelli, uno dei capolavori meno conosciuti della letteratura statunitense. Pubblicato, infatti, negli Stati Uniti nel 1947, il romanzo di A. B. Guthrie fu tradotto e pubblicato per la prima volta in Italia dalla Mondadori nella collana Medusa nel 1950; in seguito ricomparve, ad opera della Rizzoli, nel 1978 per poi sparire definitivamente nel dimenticatoio.
Probabilmente ciò fu dovuto allo scarso interesse che la letteratura e il cinema di carattere western esercitarono in Italia a partire dalla fine degli anni settanta e per i decenni successivi. Dal libro era stato infatti tratto nel 1952 anche un film dall’omonimo titolo, diretto da Howard Hawks ed interpretato da Kirk Douglas, che, però, ne stravolgeva completamente storia e significato. Assolutamente lontano dai modelli di cinismo, violenza e ribellione che avrebbero caratterizzato il cinema western di Sergio Leone e di Sam Peckinpah negli anni sessanta.
Peccato, perché in realtà il romanzo di Guthrie anticipava di decenni il revisionismo western di cui sarebbero, poi, stati protagonisti i due registi ed autori come Cormac McCarthy, Larry Mc Murtry, Annie Proulx e, anche se per un solo romanzo,1 John Williams. Lontano dall’epica della Frontiera come creazione di un mondo nuovo e migliore, Guthrie mostrava, in quello che è stato unanimemente considerato il suo romanzo migliore, il peccato d’origine degli Stati Uniti: la distruzione dei nativi, delle specie animali, del territorio e di qualsiasi rapporto sociale che non fosse immediatamente basato sulle logiche dello scambio mercantile e del profitto individuale o delle grandi compagnie commerciali.
Un’America che nasce tutt’altro che vergine e che porta con se un peccato originale non di carattere religioso, come avrebbero voluto i Padri Pellegrini, ma di stampo capitalistico e mercantile; dando vita, come risultato inevitabile, ad una società spietata in cui tutte le contraddizioni del sistema si sarebbero manifestate senza alcuna remora. Una società in cui la presenza della morte avrebbe dominato non come conseguenza del puritanesimo importato col Mayflower, ma come risultato delle logiche distruttive messe in atto.
A.B. Guthrie Jr. (1901 – 1991), come ci rivela nelle preziose note poste a chiusura del testo il curatore e traduttore, aveva deciso preventivamente di narrare il West e i suoi avventurieri come mai nessuno li aveva narrati prima. Ci riuscì e nel corso della sua vita, in cui scrisse molti altri romanzi e racconti di ambiente western, si spostò sempre più su posizioni radicali a difesa dei nativi americani e dell’ambiente. Praticamente fino al termine dei suoi giorni.
Già negli anni successivi al college l’autore si dichiarava “agnostico, liberale e ribelle” e tutto ciò traspare fin dalle prime pagine del romanzo, in cui il protagonista Boone Caudill rompe violentemente con il padre e fugge, ancora diciassettenne, verso l’Ovest e verso l’ignoto; scontrandosi immediatamente con l’avidità degli uomini e la falsità della Legge e dei suoi tutori. Ma la sua odissea di formazione, come in seguito per tanti personaggi di Cormac McCarthy, non assumerà le forme né della liberazione né, tanto meno, della redenzione dai peccati della civiltà.
Scandita in cinque parti (1830, ancora 1830, 1837, 1842-1843 e 1843), la narrazione accompagna Boone attraverso le grandi pianure del bacino del Missouri e le Montagne Rocciose, fino al suo trentesimo anno e al suo, inutile, ritorno all’Est. Un Odisseo senza Itaca, perché quello che ritorna non è un Boone migliore o più maturo o più saggio. No, è soltanto un uomo indurito, con la nostalgia per un mondo che ha contribuito a conquistare e distruggere e in cui ha dimostrato di non sapere davvero amare. E che non potrà nemmeno portare a termine la vendetta che aveva meditato per così lungo tempo.
Un mondo di violenza e di sospetto, in cui il mito dell’amicizia virile non è altro che una leggenda come quella delle valli ancora piene di castori; che, invece, a loro volta sono già stati distrutti per soddisfare, con le loro pellicce rivendute anche a bassissimo costo, l’industria e il mercato dei cappelli a cilindro per i benestanti delle grani città. Un mondo duro e spietato dove un minimo errore può significare la morte e la vita scorre fino a quando non incontra un coltello, una freccia o una pallottola. Magari sparata da un amico.
Domina su tutto il grande cielo del West, infinito e imperturbabile; sia sulle vicende degli uomini bianchi che su quelle degli uomini rossi. I primi destinati a morire per gli agguati e le ferite oppure a soffrire la fame, la sete, il freddo o per le conseguenze di malattie veneree; i secondi destinati ad essere spazzati via per effetto delle devastazioni e delle violenze portate dalla civiltà e dalle epidemie diffuse ad arte. Vittime del primo grande genocidio moderno. Il tutto in uno scenario in cui domina una natura solo potenzialmente ancora incontaminata, ma, in realtà, già cartografata, divisa e contesa dalle grandi compagnie per il commercio delle pellicce.
Lewis e Clark sono passati da lì pochi anni prima, ma il danno è stato già fatto e non si potrà più tornare indietro. Esattamente come per Boone Caudill.
Mentre rimangono sullo sfondo le donne. Bianche e rosse. Le prime eterne Penelopi dalla vita passata in attesa di un ritorno che magari non avverrà mai oppure di un amore che non si rivelerà altro che violenza, anche sessuale, oppure, ancora, destinate a morire di fatica nelle povere case costruite in prossimità della Frontiera. Le altre destinate ad essere, nel rapporto con l’uomo bianco, null’altro che una merce di scambio o inconsapevoli oggetti e schiave sessuali.
Leggendo questo romanzo, durissimo e bellissimo, ci si rende conto che il cinema western tradizionale ha davvero fatto un cattivo servizio alla storia degli Stati Uniti e della Frontiera. Probabilmente lo sapevamo già tutti da tempo, ma Guthrie, che con il successivo “Il sentiero del West” avrebbe vinto il Premio Pulitzer, lo ha rivelato ben prima di tutti gli altri autori che abbiamo poi imparato a conoscere ed amare.
Non vi è traccia in Guthrie della visione pastorale di una America bucolica in cui potersi rifugiare e dove solo l’avvento della macchina a vapore, oppure del macchinismo tout court, avrebbe segnato l’inizio del declino e della rovina, così come Henry David Thoreau nel “Walden” aveva teorizzato fin dall’Ottocento.2 Non vi è romanticismo, ma una visione, che rasenta il naturalismo espressivo, ben lontana da qualsiasi forma di epica o di epopea.
Non resta così che augurarsi che l’editore continui nella riedizione dei romanzi e delle novelle dell’autore americano, sia di quelli già pubblicati in Italia sia di quelli ancora inediti. Un autentico Omero di una frontiera priva di qualunque funzione mitopoietica, le cui vicende non sono determinate dalla volontà di divinità sregolate e volubili, ma dal raziocinio del calcolo della profittabilità delle imprese e delle conquiste.