di Alberto Prunetti
Premessa
Mi ero preparato per tempo e avevo prenotato con largo anticipo questa data per commentare su Carmilla la sentenza Eternit. Mi ero preso qualche giorno perché pensavo di schiarirmi le idee e di recuperare lucidità, magari dopo aver festeggiato a Casale con Afeva e Voci della Memoria e con tutti gli altri comitati che ci avrebbero raggiunto: i francesi dell’Andeva, gli inglesi della Greater Manchester e quelli di Liverpool (nella foto a destra), i belgi, persino gli svizzeri e poi i brasiliani, forse i più combattivi. Invece sapete tutti com’è andata: ha vinto l’ingiustizia. Quanto a me, mi sono chiuso in casa col mal di pancia a scrivere e a fare interviste e adesso ho poco di nuovo da dire su Carmilla, a riguardo dell’ingiusta e inaccettabile sentenza Eternit. Ingenui noi, a pensare che la morte di 3mila vecchi lavoratori valesse quanto e più dell’impunità di un miliardario, sui piatti della bilancia della dea bendata. Quel che è certo è che dopo poche ore di rabbia e lacrime, la gente di Casale è scesa in piazza e quasi non è più tornata a casa. La mobilitazione è continua e si va avanti: senza recriminazioni, senza rotture, con ostinazione. Si tenterà di ricorrere alla Corte di Strasburgo ma soprattutto, dato che si continua a morire (tre morti di mesotelioma nei tre giorni successivi alla sentenza di mercoledì scorso) si ripartirà con un nuovo capo di intestazione e nuovi casi, per evitare il ne bis in idem: i morti di oggi non si prescrivono (o forse si, se l’imputato è della stessa classe sociale di chi deve condannarlo…).
Intanto, dopo aver scritto sulla sentenza in continuazione, non voglio ripetermi (si vedrà alla fine di questa pagina che a dire il vero non ho potuto trattenermi dal tornare a commentare). Mi limito a riprendere e segnalare alcuni miei commenti su altre testate e poi voglio lanciare un allarme.
Cominciamo col commento scritto a caldo. Il settimanale Internazionale ha pubblicato sul nuovo quotidiano web un mio commento “di pancia” successivo alla sentenza che ha prescritto il reato di disastro ambientale (prescritto ma non assolto). Il giorno prima della sentenza sempre Internazionale aveva pubblicato un brano dalla nuova edizione del mio libro Amianto una storia operaia. Dopo la sentenza della Cassazione il lettore potrà pensare che l’unica giustizia sia quella che viene da Steve McQueen o dai film di Peckinpah. Proprio questa idea stava alla base di una testimonianza sulle morti d’amianto che mi ha chiesto Il Manifesto e che ho pensato come un modo per raccontare una vita operaia tra Casale Monferrato e il Far West. L’articolo è stato ripreso anche da il Lavoro culturale, assieme a un mio piccolo reportage fotografico degli attivisti venuti in solidarietà da altri paesi. Infine alcune riflessioni più discorsive sono apparse su Vice in un’intervista che mi ha fatto Leonardo Bianchi. Aggiungo che un’altra intervista sta per uscire sul sito di Clash City Workers.
Detto questo, visto che per il problema amianto, escrescenza del capitalismo in cui viviamo, il peggio in termini di malattie e decessi deve ancora venire, scrivo le righe che seguono sperando che si voglia un giorno affrontare seriamente la questione, senza buttarcisi sopra per convenienza come è stato fatto da molti politici in questi giorni. Se non per chi si ammala adesso, almeno per le prossime generazioni.
L’amianto ai bambini
Un paio di mesi fa avevo appuntamento con Bruno Pesce dell’Afeva di Casale Monferrato a Firenze e ho colto l’occasione, assieme a un amico, per visitare la mostra sull’amianto ospitata nel Palazzo della Regione Toscana, in via Cavour. I pannelli illustrativi avevano un impianto didascalico ma al terzo piano mi ha colpito la presenza di una serie di manufatti d’uso comune, in fibrocemento, disposti dietro provvidenziali teche di vetro che impedivano l’eventuale disseminazione di fibre pericolose.
Erano perlopiù materiali domestici, quindi non quelli di tipo industriale o abitativo (come le condotte o gli ondulini). C’era un po’ di tutto: i phon che contenevano coperture delle resistenze in amianto accanto alle presine ignifughe per la cucina. Ma la cosa che ci ha colpito come un colpo allo stomaco, a me e al mio amico, sono stati i giochi per bambini. Due giochi per l’infanzia che contenevano amianto.
Uno era un gioco che non mi diceva niente. Forse perché nella mia infanzia le attività ludiche dei bambini erano rigorosamente diversificate per genere, c’erano i giochi per maschi e quelli per bambine, non bambini e bambine ma maschi e bambine, così ci dicevano. E quello, nella visione da “piccole donne” d’un tempo, era un gioco da bambine, perché c’erano di mezzo i fornelli. Ma il mio amico, un po’ più giovane di me, ha subito esclamato: “Mia sorella ce l’aveva! Negli anni Ottanta…” Eravamo entrambi abbastanza allibiti, perché abbiamo scoperto che attorno alle lampadine che cuocevano il cibo nel “Dolce forno” c’era una protezione, alquanto pericolosa per il bambino che avesse voluto vedere com’era fatto il gioco dentro: era in amianto.
Accanto, in un’altra teca di vetro, c’era una cosa molto familiare, che mi ha fatto strozzare la gola. Il pongo. Il dash che ho modellato tante di quelle volte sui banchi di scuola. D’incanto, ne ho pure sentito l’odore, in un gioco della memoria. Ma non erano madeleine. Era amianto. Ho cominciato a esclamare barbarità a caso fino a quando un inserviente per tranquillizzarmi mi ha fatto leggere un cartello che diceva che il periodo in cui c’era amianto in quel materiale così diffuso nelle scuole si riferiva agli anni Sessanta. Dal 1965 fino ai primi Settanta. Poi hanno cambiato formula e, insomma, ero salvo, visto che ho iniziato la prima elementare nel ’79. Magari però sono problemi per i miei amici un poco più vecchi di me. L’inserviente mi ha fatto vedere che oltre al pongo umido, conservato sottovuoto, c’era una versione anteriore in polvere, che i bambini impastavano con l’acqua sotto la direzione delle maestre. Quel pongo conteneva anche amianto. E ovviamente, essendo in polvere, senz’acqua, era altamente volatile e poteva essere inalato dagli scolari.
Roba da pazzi. “Non sai se è cattiveria, ignoranza o follia”, ti viene da dire. Ma del resto, se si pensa che alla Eternit gli operai sull’amianto ci mangiavano, che la Eternit regalava il polverino, la polvere di risulta delle lavorazioni dell’amianto agli oratori di Casale Monferrato, perché i bambini che giocavano a pallavolo potessero cascare senza farsi male… Era una strategia di marketing che serviva a far apprezzare l’uso del materiale, a renderlo indispensabile e a normalizzare la sua presenza come oggetto d’uso comune. Pensate che un’insegnante casalese mi diceva che in città la polvere d’amianto era così diffusa che c’era chi la usava per fare la neve nei presepi di Natale. Allora non ti stupisci neanche che il polverino lo regalassero ai vecchi pensionati per farci gli stradini nei loro orti. O che l’industria del cemento amianto ha svuotato i propri magazzini mettendo i propri manufatti sulla testa dei terremotati dell’Irpinia, aggiungendo disastro a disastro e raggiungendo un picco di vendite nei primi anni Ottanta, a dimostrazione che i terremoti devono far sorridere non solo i costruttori ma anche i cementieri.
Problema del presente allora, non del passato. Anche perché se tra dieci anni dovessero diminuire le morti per esposizione professionale, la curva dei morti per amianto comunque non decrescerà, perché aumenteranno nel frattempo i morti per esposizione ambientale. Gente che ha respirato le fibre non per il lavoro ma per aver avuto una canna fumaria in eternit nella propria abitazione o per avere il tetto della palestra o dell’officina dove vanno a riparare il motorino in cemento amianto. E intanto i nuovi morti di amianto, i cittadini che si ammalano di mesotelioma, tendono a morire prima dei lavoratori. Sono casi limite, ma a Casale è morta quest’estate una ragazza di 35 anni. Qualche settimana fa, è mancata una ragazza di 28 anni. Ovviamente nessuna delle due aveva lavorato all’Eternit. Se si pensa che la malattia ha tempi di incubazione molto lunghi, dai 20 ai 35 anni, a volte anche 40, ne rimane da concludere che i nuovi ammalati da patologie correlate all’esposizione ambientale di amianto erano giovani, molto giovani al momento del loro contatto con la fibra maledetta. Adolescenti. A volte bambini.
L’ho già detto ma lo ripeto: per l’amianto, il peggio deve ancora venire e il picco verrà ancora posticipato. Perché l’amianto che ci sta in testa comincia a invecchiare e a rilasciare fibre. Perché il possessore di quel triste logo che continuerà a impestare per l’eternità le vite di tante persone è impunito per scelta ponderata della giustizia italiana. “Perché non ci sono i soldi per fare le bonifiche”, ci dicono, ma quando si potevano prendere al padrone della Eternit lo hanno prescritto. E perché c’è amianto anche a scuola. Perché nelle scuole italiane (e immagino che le cifre vadano interpretate per difetto) si parla di contaminazione di amianto in 2400 istituti scolastici, dove rischiano di essere esposti più di 300mila ragazzi. Si tratta di un ventaglio che va dalle scuole dell’infanzia fino alle superiori. Non negli anni Sessanta, all’epoca del pongo della morte. Oggi, nell’epoca della “buona scuola” di Renzi. Nell’epoca dei tagli di bilancio che lasciano l’edilizia scolastica in condizioni pietose, oggi si mandano bambini di 6 anni a fare ginnastica in palestre col tetto di amianto, o col linoleum d’amianto, o con le condotte dello scarico delle grondaie in amianto. Sapendo che tutto questo può rovinare la loro vita.
Ci aspettiamo dati precisi dal ministero sulla presenza dell’amianto in tutte le scuole italiane e un programma per la bonifica, da applicare in tempi brevissimi. Paghi chi inquina o chi prescrive. Stavolta non ve la caverete con le promesse: vogliamo vedere quell’amianto rimosso dalle scuole italiane. E poi da ogni altro edificio pubblico. Costi quel che costi, vogliamo tutto. Vogliamo anche il padrone della Eternit che viene a rimuovercelo lui, il suo amianto, e senza mascherina, come lui faceva lavorare i suoi operai. E si faccia aiutare da tutti quei politici che battono le mani sulle spalle ai familiari delle vittime dell’amianto mentre si apprestano a approvare leggi che infieriranno ancora di più sulle condizioni dei lavoratori italiani. Perché siamo stanchi di filantropi che ci portano via i babbi e di politici che ci portano via il futuro, di tribunali che chiedono una condanna ai no tav di 9 anni per un compressore e che prescrivono un miliardario per la morte di 3mila lavoratori. Almeno i nostri vecchi sono morti senza dover assistere alla ridicola parodia dei loro sogni di giustizia sociale, di impegno politico e di etica del lavoro. Forse questa è l’unica consolazione che ci rimane. Lo scriveremo sui muri dei cimiteri: voi non lo sapete cosa vi siete persi.