di Sandro Moiso
Thomas Pynchon, La cresta dell’onda, Einaudi Stile Libero 2014, pp. 570, € 21,00
– Quindi i grandi guadagni…
– Non sono più possibili. Forse non lo erano mai stati.
Lo confesso: ho impiegato qualche giorno a digerire la lettura dell’ultimo romanzo di Thomas Pynchon. Opera in cui il solito caleidoscopio letterario di citazioni, rimandi, invenzioni, pubblicità, pop songs, film e marche raggiunge veramente l’apoteosi. Un apparente guazzabuglio di situazioni, ipotesi ed emozioni in cui yuppie in caduta libera e yuppie rampanti si mescolano ai capitali wahabiti, il Mossad incrocia IKEA e Uma Thurman (come probabile modello di riferimento femminile) veste gli abiti di un’investigatrice finanziaria, privata della licenza (ma non della pistola) e preoccupata per i propri figli (oltre che per l’ex-marito).
Ancora una volta, però, uno dei grandi vecchi della letteratura americana (insieme a Cormac Mc Carthy) non ci fa rimpiangere nulla degli autori più giovani che, in confronto al ritmo di invenzione e di scrittura di Pynchon, sembrano tutti, soprattutto quando hanno tentato di imitarlo, degli scrittori per depressi cronici. Da Jonathan Franzen a David Foster Wallace. Che nel tentativo hanno fallito proprio in ciò che allo scrittore della classe 1937 è riuscito meglio: cogliere il filo rosso del caos.
Questo è infatti un romanzo caotico, a tratti indigesto per l’eccesso di riferimenti eppure potentemente e chiaramente indirizzato. In cui decine di storie si incrociano come le vite dei più disparati personaggi senza che nessuna e nessuno risulti essere davvero quella o quello principale. Tutti costretti a muoversi come inconsapevoli pedine di un intricato schema scacchistico che ha come solo scopo quello di continuare a rivalutare una massa enorme di capitale finanziario già scaduto; attraverso truffe, inganni e complotti di cui più nessuno ricorda nemmeno l’origine. Nemmeno la protagonista, Maxine, che risulta essere più una testimone dei fatti che non una vera eroina. Un’involontaria e, talvolta, poco adatta guida attraverso le leggi del caos economico e politico che hanno preceduto ed accompagnato l’11 settembre 2001.
Sì perché, se vogliamo, l’evento centrale del romanzo è proprio quello costituito dall’attentato alle torri gemelle del World Trade Center che, però, compare solo a pagina 376. Un attentato intorno al quale ruotano mille complotti e ancor più ipotesi.
“Se non leggete nient’altro che l’autorevole quotidiano cittadino potreste credere che la città di New York, traumatizzata ed unita dal dolore al pari di tutta la nazione, abbia raccolto la sfida del jihadismo globale unendosi alla crociata dei giusti che ora gli uomini di Bush chiamano Guerra contro il Terrore. Se consultate altre fonti – su internet, per esempio – potreste farvi un quadro un po’ diverso. Fuori nella vasta e indefinita anarchia del cyber-spazio, fra i miliardi di fantasie autorisonanti, cominciano ad affiorare oscure possibilità […] a gran parte della città l’esperienza è giunta mediata, in maggioranza dalla televisione – più era uptown e più il momento era di seconda mano, racconti di parenti pendolari, di amici, di amici di amici, colloqui telefonici, sentiti-dire, folklore, come se entrassero in gioco forze tra i cui interessi è fortissimo quello di prendere al più presto il controllo della vulgata, e la storia affidabile si riducesse a un fosco perimetro centrato su «Ground Zero», un termine da Guerra Fredda estrapolato dagli scenari di conflitto nucleare così popolari nei primi anni Sessanta. Qui non c’è stata neanche l’ombra di un attacco sovietico contro Manhattan downtown, eppure quelli che ripetono all’infinito «Ground Zero» lo fanno senza vergogna né pensiero per l’etimologia. Lo scopo è far sì che la gente si trovi fomentata in una certa direzione. Fomentata, impaurita e impotente” (pp. 389 -390).
Certo molti romanzi sono già stati scritti sulla caduta delle torri gemelle e sui drammi personali che ne sono conseguiti. Il dramma emotivo come al solito è un ottimo espediente per creare empatia tra lettore e vicende narrate. Ma Pynchon, tutto sommato, non vuole creare empatia nei confronti dei suoi personaggi. Tutti troppo ossessionati dai soldi, dalle mode, dalla famiglia o dalle tradizioni da rispettare formalmente. Oppure troppo sconclusionati. No, non c’è epica nelle pagine di Bleeding Edge (titolo originale del romanzo).
Perché l’obiettivo del vecchio scrittore non è spiegare qualcosa di secondario, l’attentato appunto e i suoi possibili, infiniti artefici. L’obiettivo è altro. E’ il NASDAQ, l’indice dei titoli tecnologico-elettronici istituito a partire dal 1971 a New York con un valore iniziale di 100 punti e che ha raggiunto un massimo storico di 5132 punti il 10 marzo 2000, in pieno boom della New Economy prima del successivo scoppio della bolla speculativa, madre di tutte le successive speculazioni e di tutte le crisi (da quella del 1985 a quella del 2008).
La madre di tutte le speculazioni, da cui non possono discendere che disastri economici, politici, sociali e militari. Ed è sul filo tagliente di un rasoio spietato che corrono tutti i personaggi, più che sulla cresta di un’onda. Sia che si tratti di nerd ingegnosi e sfruttati nella loro capacità di creare nuovi giochi e nuovi ambienti, sia che si tratti di spietati killer di agenzie ultrasegrete legate alla CIA pur, però, capaci di improvvisi atti di coraggio oppure di malavitosi russi, agenti israeliani più o meno sinceri, truffatori incalliti e imprenditori vincenti o falliti.
L’economia reale è morta, ma il capitale deve fingere di continuare a vivere.
Con la truffa, la speculazione oppure con la minaccia e l’omicidio.
Singolo o di massa non importa.
Una sorta di ”lavoro socialmente utile senza prodotto finito, dei nerd in una stanza” (pag.394) potrebbe essere tutto ciò che regge la facciata. Dietro il vuoto, oppure uno spazio virtuale dove nulla è quel che appare.
“Anche se la tecnobolla, un tempo in appariscente curva ellissoidale, ora penzola, rosa shocking, sull’orlo del precipizio sopra il mento tremante dell’epoca, con solo una parvenza di fiato in corpo” (pag.360) Basterebbe questo romanzo da solo a distruggere tutte le false certezze che giovani presidenti del consiglio e vecchi lupi mannari della finanza europea ed internazionale vorrebbero rivenderci con la banda larga, le nuove tecnologie, le start- up e app come panacea universale per la crisi mortale del capitale.
DeLillo in Cosmopolis s’era avvicinato al tema, ma non aveva colpito così duramente.
“Reale e fasullo è tutto quello che volevo dire […] La fibra è reale, la tiri nelle canaline, la appendi, la seppellisci ci fai le giunte. Ha un peso. Tuo marito è ricco, forse anche sveglio, ma è come tutti voi, vive in questo sogno lassù tra le nuvole, galleggia nella bolla, la crede reale, ripensaci. Resterà lì solo finché va la corrente. Che succede quando la griglia diventa buia? Il carburante del generatore si esaurisce e abbattono i satelliti, bombardano i centri operativi e rieccoti sul pianeta Terra. Tutte quelle chiacchiere sul niente, quella musica di merda, e quei link, giù, giù e morti” (pag. 553).
Non si salva neppure chi crede nella democrazia della rete o di Facebook o di Twitter. Né tanto meno chi crede di poter rinnovare l’analisi economica e politica dando credito alle panzane della produzione immateriale. On line.
“E’ iniziato ai tempi della Guerra Fredda, quando i think tank erano pieni di geni che ideavano scenari atomici. Valigette diplomatiche e occhiali di corno, all’apparenza studiosi sani di mente, che ogni giorno andavano al lavoro per immaginare tutti i modi in cui il mondo sarebbe finito. La tua Rete che ai tempi il Ministero della Difesa chiamava DARPAnet… il vero scopo originale era assicurare il predominio e il controllo degli USA dopo uno scambio nucleare con i sovietici […] Sì, la vostra Rete l’hanno inventata loro, questa comodità magica che adesso si infiltra come un odore nei minimi dettagli delle vostre vite, la spesa, i lavori di casa, le tasse, assorbendo la nostra energia, divorando il nostro tempo prezioso. E non c’è innocenza. In nessun posto. Non c’è mai stata. Stava nascosta nel peccato, il peggiore possibile. Man mano che cresceva, non ha mai smesso di portare nel cuore un desiderio freddo e amaro di morte per il pianeta e non credo sia cambiato nulla , bambina” (pp. 499-500).
Nel discorso del padre, ebreo e trotzkista, della protagonista è contenuto un altro dei fili principali tenuti in mano da Pynchon. Che, con un’amarezza degna di Ellroy, delinea la trama elettronico-finanziaria che regge i giochi di potere ed accumulazione nel mondo e con un’ironia capace di divorare e distruggere tutte le illusioni di facile arricchimento dei gonzi affascinati dalla bolla tecnologica-speculativa si pone in prossimità del Mark Twain di L’uomo che corruppe Hadleyburg e Un legato di trentamila dollari.
“Ed eccoli che si rimettono le loro facce di strada per affrontarlo. Facce già sotto attacco silenzioso, da parte di un qualcosa più in là, qualche Anno Duemila della settimana lavorativa che nessuno riesce a immaginare […] un frastuono di messaggi che nessuno capisce, come se fosse quella la vera storia scritta delle notti della Alley, consegne della Kozmo alle tre del mattino a gente che passa la notte a scrivere codici o a distruggere documenti […], i lavori con riunioni in cui si parla di delle riunioni e capi deficienti, file assurde di zeri, modelli di business che cambiano da un minuto all’altro, i party delle start up ogni sera della settimana e soprattutto il giovedì, quale di queste facce così preda del tempo […] quale di loro può vedere più in là, tra i microclimi del sistema binario, seguitando per tutta la terra, dappertutto, attraverso la fibra ottica spenta e le coppie bifilari oggi senza fili, attraverso spazi privati e pubblici, dappertutto tra le lancette del cyber-cottimo sfolgoranti e mai ferme, in quell’inquieto arazzo […] la forma del giorno che incombe, una procedura in attesa di esecuzione, sul punto di essere rivelata, un esito di ricerca senza istruzioni su come cercare?” (pp.372-373)
Alla strategia dell’autore non serve delineare appieno il colpevole o i colpevoli, in fondo, lo sono tutti. Per avere operato, per aver tentato o per aver anche solo semplicemente creduto. Tutti stanno o, ancor meglio, stiamo, forse inconsapevolmente, correndo sulla o incontro al bleeding edge, la lama tagliente che ci farà sanguinare, del capitale fittizio che divora sé stesso sperando di allungarsi la vita come il naufrago costretto a tagliarsi a mangiare un arto alla volta per sopravvivere. Tutto il resto non è stato, non è e non sarà altro che una conseguenza del non averlo capito e impedito per tempo.
Motivo per cui, così come per la principale protagonista e le sue amiche, la sicurezza raggiunta può essere solo momentanea: “Hai sentito che ha detto? Credo sia nel suo contratto con i Signori della Morte per cui lavora. E’ protetto. Si è allontanato da una pistola carica, ecco tutto. Tornerà. Non è finito niente.[…] Lui continuerà a fare calcoli di costo-beneficioe a scoprire che […], prima o poi, quei miliardi cominceranno a calare, e se ha un po’ di buon senso, farà i bagagli e via verso una destinazione tipo l’Antartide” (pag. 565).