di Fabrizio Lorusso
Como ya he muerto, sé lo que es la eternidad
Dato che sono già morto, so cos’è l’eternità*
Presentiamo un testo estratto da: Pan del alma, AA.VV., Libro di testi, foto e illustrazioni stampato presso Tipografia Camuna, Brescia, Autoprodotto da Gloria Corica e Simonetta Scala, pp. 184, € 20, 2014 – Versione E-Book, Feltrinelli, € 5,99, 2014
Secondo molti messicani i pilastri della storia nazionale sarebbero José María Morelos e Miguel Hidalgo, eroi della lotta per l’indipendenza cominciata nel 1810 e conclusa nel 1821. Verrebbe poi il “Benemerito delle Americhe” Benito Juárez, presidente liberale d’etnia indigena zapoteca che cacciò i francesi invasori fuori dal Messico nel 1867. In questa speciale classifica seguirebbero la Madonna nazionale, la Virgen de Guadalupe, e la Revolución di Villa e Zapata, Obregón, Carranza e i fratelli Flores Magón. Il movimento rivoluzionario scoppiò nel 1910 e finì nel 1917 con la costituzione tuttora in vigore. A questa lista, però, è ormai d’obbligo aggiungere l’idea della morte e le celebrazioni del Giorno dei Morti, o Día de Muertos, che si ripetono ogni anno, dalla notte del 31 ottobre a quella del 2 novembre. Il concetto della fine, lo spegnersi della vita, è vissuto ed esorcizzato in Messico con pratiche e canovacci rituali molto particolari ed efficaci, tanto che si dice che in terra azteca non esista la paura della morte. Il popolo messicano, più di tutti gli altri, ha saputo e voluto trasmettere anche all’estero le immagini della Parca come elemento culturale tipico, al punto che la festa del Día de Muertos è stata dichiarata “Patrimonio Orale e Immateriale dell’Umanità” dall’Unesco, l’agenzia delle Nazioni Unite per la scienza, l’educazione e la cultura.
Già una settimana prima della ricorrenza novembrina milioni di famiglie si sbizzarriscono nel comporre pittoreschi altari e ofrendas, ossia offerte. Sempre coloratissime, a volte in bilico tra il kitsch, il meraviglioso e il sorprendente, sono allestite sia in casa che nelle piazze, sia in giardino che nei cimiteri, nei gazebo coloniali e negli atri di chiese e musei di ogni città, da Tijuana a Città del Messico e Oaxaca. Gli spazi pubblici e privati sono invasi da teschi di legno, ceramica e cioccolato, da canditi e scheletri di ogni materiale e dimensione.
Si formano tappeti di petali arancioni di cempasúchitl, il Fiore del giorno dei morti che noi associamo al crisantemo. A scuola si ritagliano scheletri di carta velina. Arcobaleni fatti di candele e bastoncini d’incenso, bicchierini, detti caballitos, colmi di tequila o mezcal, popolano le tavolate, i convivi e i camposanti. I ricordi e le fotografie dei defunti, circondate da teschi zuccherosi e fette generose dello squisito pan de muertos, che ricorda il panettone, addolciscono le nottate di veglia, insieme alle offerte di frutti e caramelle, di bacinelle piene della salsa mole, una creazione messicana a base di peperoncini e cioccolato che è dolce e perversa allo stesso tempo. Sono immancabili anche le riproduzioni delle catrinas, gli scheletri vestiti da nobildonne messicane del primo Novecento disegnati dall’incisore José Guadalupe Posada per prendersi gioco della borghesia francesizzata che dominava il Paese.
Posada era solito rammentare quanto fosse giusta la morte: “La morte è democratica, perché, in fin dei conti, bionda, scura, ricca o povera, tutta la gente finisce per diventare uno scheletro”. La morte, i suoi simboli e le sue riproduzioni, decorano gli altari ma anche i negozi. Si trasformano in prodotti per la compravendita autunnale e per il divertimento dei più piccoli. Creare un altare per i morti è decisamente meglio che fare l’albero di Natale.
E si fanno rivivere i cari scomparsi almeno per un po’. La visione della morte e lo stereotipo del messicano ossessionato e affascinato da essa sono stati assimilati all’interno del Paese e quindi esportati come artefatti culturali generalizzati, un “patrimonio” tanto culturale quanto economico. Si può azzardare che si tratti, altresì, di un memento mori nazionale, un “ricordati che devi morire” collettivo e irriverente, bagnato da lacrime e distillati sopraffini. [Disegno di Dario Varrica]
Anche se molti credono il contrario, la festa del giorno dei morti come la conosciamo oggi è un’invenzione meticcia relativamente recente, che riprende alcune tradizioni precolombiane e le fonde con quelle cattoliche. L’antropologa Elsa Malvido sostiene che le sue radici sono cattoliche e romane, statunitensi e irlandesi, piuttosto che squisitamente precolombiane. La riscoperta e la mescolanza di queste celebrazioni risalgono agli anni trenta del Novecento, in particolare all’epoca del presidente Lázaro Cárdenas che governò dal 1934 al 1940 e stabilì una politica volta a creare e infondere “lo spirito nazionale” e le tradizioni unitarie in un Paese vasto, difficile da controllare e amalgamare, che era appena uscito da due decenni di lotte intestine, prima e dopo la rivoluzione.
Nel tempo i governi del Messico hanno investito molte risorse nella riscoperta folclorica di quella presunta “tradizione ancestrale” dedicata ai defunti e ai riti di passaggio, accompagnata dall’affermazione di una sorta di “carattere messicano” sprezzante, insieme allegro e drammatico, propenso a sfidare la morte senza remore. All’inizio del secolo scorso esistevano, infatti, tante tradizioni autoctone diverse legate ai festeggiamenti e ai rituali per il giorno dei morti. Piano piano s’è imposto in tutto il territorio un sincretismo tra quella cattolica e quella indigena che dominava nella regione centrale del Paese, cioè nell’area anticamente controllata dagli aztechi in cui si parlava la lingua nahuatl.
Prima dell’arrivo degli spagnoli e dei missionari cattolici, nell’aldilà dei popoli mesoamericani regnava la coppia formata da Mictalntehcutli e sua moglie Mictecacihuatl, rispettivamente il dio e la dea dell’oltretomba o Mictlán. Nel nuovo millennio queste due divinità precolombiane sono state associate alla nuova icona emergente e popolare della morte nelle Americhe, la Santa Muerte o Niña Blanca (Bimba Bianca), una figura scheletrica vestita con un saio francescano che ha milioni di devoti ed è spesso indicata dalla stampa sensazionalista come la “Madonna dei narcos”. Il suo culto è nato in Messico più di tre secoli fa, ma s’è dovuto nascondere per sopravvivere. Da poco più di una decina d’anni è uscito dalla clandestinità ed è diventato globale grazie a internet e alla migrazione di milioni di messicani nel mondo e specialmente negli Stati Uniti. “La morte è così sicura di se stessa che ci dà tutta una vita di vantaggio”, recita la saggezza popolare. E in Messico è anche Santa.
*Modo di dire che comporta una certa sicumera, anche se sta a significare semplicemente “so molto di più di quanto crediate”; insomma, ne ho viste tante, non provate a raccontarmi storie…]
*A cura di: Gloria Corica, Simonetta Scala, Pino Cacucci. Redazione e autori di testi e immagini: Pietro Alagna, Pino Cacucci, Carla Cavina, Gloria Corica, Stefano Delli Veneri, Claudio Giovenzana, Olga Medrano, Angélica Ruiz, Simonetta Scala, Dario Varrica & Carlo Bonfiglioli, Mariana Chiesa, Francesca Gargallo, Vito Giarrizzo, Fabrizio Lorusso, Fabio Moglia, Roberto Pasquali, Ernesto Troiani. Design: Lizart comunicazione visiva, Bologna. Book Trailer: Link
[Il libro si trova presso: Libreria delle Moline a Bologna, mail: libreriadellemoline@gmail.com – Libreria Trame, via Goito 3/c – Libreria Modo Infoshop, via Mascarella 24/b]