di Simone Scaffidi Lallaro
James C. Scott, Elogio dell’anarchismo. Saggi sulla disobbedienza, l’insubordinazione e l’autonomia, Elèuthera, 2014, trad. Alberto Prunetti, pp. 174, € 14,00
I ventinove “frammenti” di James C. Scott raccolti in Elogio dell’anarchismo – il nuovo volume edito da Elèuthera e tradotto da Alberto Prunetti – vanno a comporre un quadro incompleto e non strettamente apologetico – come si potrebbe dedurre dal titolo – di un pensiero troppo spesso relegato alla nebulosa dell’utopia e privato della natura spontanea e creativa che lo determina. «In geometria, due punti fanno una retta. Ma quando il terzo, il quarto e anche il quinto punto cadono tutti sulla stessa linea, allora è difficile non fare i conti con tale coincidenza» (p. 7), è partito da qui l’antropologo e scienziato politico di Yale, dall’apparente inconsapevolezza del suo anarchismo e da qui ha cominciato a scandagliare quella linea irregolare e discontinua che è il pensiero anarchico. Senza timore, e con la convinzione che reciprocità e autonomia garantiscono, Scott è saltato sul filo della contraddizione e ha provato a guadagnarsi l’equilibrio precario necessario a radicalizzare il discorso senza perdere il filo da sotto i piedi.
Non si è preoccupato troppo dei numeri, non ha calcolato le probabilità di caduta o le citazioni che i sui saggi avrebbero accumulato attraverso il Science Citacion Index, non si è ostinato a soddisfare determinati standard quantitativi ma ha agito semplicemente derivando una logica dalle sue ricerche e dalle sue pratiche quotidiane: «il principio astratto è il figlio dell’azione pratica non il genitore» (p. 163) E lo ha fatto difendendo il conflitto e la politica ed elogiando – questa volta sì – la «condizione perpetua di incertezza e di apprendimento che questi implicano» (p. 11).
Il libro si apre con una foto in bianco e nero: sotto il filo spinato, si erge una barriera ondulata, forse d’amianto, sulla quale spicca una grossa scritta che recita: «spread anarchy» («diffondi l’anarchia»). La scritta è sovrastata da due righe nere – come a volerla cancellare – e sotto di essa qualcuno manifesta disapprovazione verso quell’invito, con una risposta che fa al caso nostro: «don’t tell me what to do!!» («non dirmi quello che devo fare!!»). L’istantanea riflette l’opera di Scott, che pur ribadendo a più riprese la necessità politica di adottare uno sguardo obliquo anarchico per mettere a fuoco «alcune prospettive […] rimaste invisibili da qualunque altro punto di osservazione» (p. 10), non sale mai in cattedra con la presunzione di educare il lettore e millantare un pretestuoso “uomo nuovo” dalle fattezze anarchiche.
Una sensibilità, quella di Scott per l’educazione, che ritorna costante nei frammenti di cui è composto il testo e non si limita a denunciare la standardizzazione delle conoscenze attraverso l’istituzionalizzazione dei saperi ma indaga le perversioni di un sistema escludente che genera disuguaglianza sociale e garantisce controllo sociale attraverso la colonizzazione dei comportamenti. Da accademico di Yale l’autore sa di essere un “vincente” e sa che quelli come lui, «un quinto delle persone che passano attraverso il sistema educativo» (p. 101), godranno di privilegi per tutta la vita e si auto-compiaceranno della propria presunta superiorità, ma sa anche – grazie a un’altra scritta letta in un cesso di Yale – di essere il vincente di una corsa di ratti, e dunque ratto anch’egli.
Il testo è ricco di esempi concreti di resistenza al sistema che per la loro natura anonima, individuale e invisibile agli archivi, vengono esclusi dalla Storia e sottostimati. Le classi subalterne, spesso impossibilitate a sostenere uno scontro frontale con l’autorità, si sono nutrite di questa moltitudine di resistenze silenziose – diserzione, renitenza, bracconaggio, furto – e grazie a queste quotidiane infrazioni hanno mantenuto viva la fiamma di quella che Scott chiama “calistenia anarchica”. Perdere l’abitudine quotidiana ad infrangere regole che riteniamo irrazionali – pensiamo a una fila di pedoni che rimangono fermi davanti a un semaforo rosso di una strada deserta – rischia di annichilire il libero pensiero e anestetizzare il senso critico fino ad escludere qualsiasi forma di ribellione alla norma. Per questo rimanere in movimento è il compito di una vita, per saggiare il conflitto e saperlo interpretare ed agire.