di Sandro Moiso
Se Bertolt Brecht auspicava la fortuna di quei popoli che non avrebbero più avuto bisogno di eroi, io, da tempo, non riesco e non voglio più celebrare i martiri.
Soprattutto della causa a cui tengo di più: quella della liberazione della specie umana dalla schiavitù capitalistica.
Il martirologio religioso, conservatore o, peggio ancora, “rivoluzionario” non mi appartiene più.
Naturalmente quelle che seguono sono considerazioni di carattere personale, ma, allo stesso tempo, vorrebbero provocare una riflessione in tutti coloro, soprattutto giovani, che ancora si battono ostinatamente e giustamente per la causa della liberazione umana e per il superamento dello stato di cose presenti.
Sì, perché al concetto di martirio è indissolubilmente legato quello di sconfitta. E, non c’è dubbio, quello di sconfitta è sempre rinviabile a quello di errore. Errore di calcolo, di prospettiva, di valutazione, ma, comunque errore. E non possiamo continuare a credere fideisticamente e religiosamente che la “nostra” rivoluzione sarà il frutto di una serie di innumerevoli e ripetuti errori.
Con i calcoli sbagliati e con la sola fede non si va da nessuna parte.
Al massimo si crepa oppure, come minimo, si perde e si passa la vita a rimuginare sulle proprie sconfitte. Magari all’ombra di una nuova dittatura.
Oppure ci si pente. Si torna sui propri passi.
Si rivaluta ciò che si combatteva, magari con strane contorsioni del pensiero.
Martirio e pentimento sono le due facce di una stessa medaglia.
Scusami Dio, per avere peccato. Per aver molto peccato. E così tu mi hai punito.
Ma io ti amo ancora, perché so di aver sbagliato.
Ecco perché alla fine di tante esperienze vere o para-rivoluzionarie, di lotta e di sangue abbiamo dovuto fare i conti con il pentimento. Con la rassegnazione.
Con l’accettazione della sconfitta .
Le rivoluzioni e le lotte vincenti non le realizzano i Rambo o gli dei: le fanno gli uomini. In carne ed ossa. E sangue.
Per cui soffrire molto, assaporare il dolore della sconfitta, delle ferite e della morte, alla fine, non porta da nessuna parte.
Si può morire, si può combattere, si può soffrire per una causa.
Si può essere costretti ad esercitare la violenza per una causa, ma non celebriamolo. Il bello non sta lì.
La ragione ci impone, da Epicuro a Marx passando per il materialismo illuministico, di perseguire la felicità degli uomini, mentre le sofferenze e le violenze non possono costituire altro che incidenti di percorso determinati dalle casualità storiche in cui ci si ritrova dover lottare.
Incidenti che l’umanità futura non celebrerà ma rimuoverà, insieme al ricordo della preistoria in cui siamo ancora immersi, esattamente come la nostra psiche tende a rimuovere i traumi dell’infanzia.
A meno che non si voglia a tutti i costi accettare il filisteismo borghese. O, peggio, la logica del sacrificio tout court. Che è anche quella che più si adatta alle memorie e alle necessità del nazionalismo e dei costruttori di nazioni. O, ancora, a quelle dei fanatismi politici e religiosi di ogni genere.
Dalla jihad odierna ai “martiri” di Piazza Indipendenza a Kiev.
Perché il filisteismo é sempre uguale a sé stesso.
Piange sul latte versato, si cosparge il capo di cenere; grida all’offesa, contro l’inciviltà, contro la mancanza di regole, contro il tradimento. E, intanto, li coltiva. Coscientemente. Spudoratamente. Vilmente. Opportunisticamente.
Così a volte, anche negli ambienti antagonisti, si spera che la sofferenza altrui o le lotte disperate, frutto di ricette “antiche” ma sbagliate, siano di giovamento alla propria causa. No, sbagliato: restano soltanto sofferenze e lotte disperate.
Non vado matto per il leader dallo sguardo da tartaro, ma Ulianov detto Lenin su una cosa aveva mille volte ragione: l’insurrezione è un’arte.
La lotta vincente è un’arte. La Rivoluzione è un’arte.
E non si inventa né, tanto meno, si improvvisa.
Si improvvisa, coscientemente, su uno spartito conosciuto o del quale, almeno, si sanno leggere le note. E sul quale occorre aver a lungo studiato.
Tutto il resto è illusione, dolore, sofferenza e perdita di tempo e di speranza.
Un altro leader, che non amo affatto, disse invece che “la Rivoluzione non è un pranzo di gala“. E così facendo fece accomodare centinaia di milioni di cinesi ad un ben misero banchetto. Gli mancava, per così dire, l’idea della Festa.
Che non avrebbe mai permesso alla Cina “popolare” di diventare la prima potenza economica mondiale.
Ma la Rivoluzione, per essere tale, è anche una festa.
Non condivide la povertà, ma la ricchezza. Non solo materiale.
Non solo il lavoro, ma anche il riposo. Il sacrosanto diritto all’ozio del nostro Paul Lafargue.
La Festa ha poco a che spartire con il martirio e il sacrificio, ma il martirio e il sacrificio hanno molto a che spartire con i regimi, le religioni, i nazionalismi e la loro supina accettazione.
Sacrificatevi per la Patria, per l’Onore, per la Vera Fede, per la Causa oppure per il Grande Partito. L’hanno fatto i vostri Padri. L’hanno fatto i Martiri.
Lo farete anche voi.
Si fanno i sacrifici oggi come sono stati fatti ieri. La vita e la lotta sono fatte di sacrifici. E’ sempre lo stesso principio.
Il trionfo della morale cristiana. Anzi delle religioni rivelate
Dall’Antico Testamento al Corano.
Così ci si perde il bello della Festa rivoluzionaria e delle lotte sociali.
Che, alla faccia di De Coubertin, devono essere vincenti. Davvero.
Si partecipa per vincere e non solo per far presenza.
Lo spirito olimpico non appartiene ai rivoluzionari.
Magari ai pacifisti e ai masochisti della politica, non a chi vuole una nuova vita, un diverso futuro.
E poi il problema è costituito dal fatto che chi è masochista è spesso anche un po’ sadico. Non vi è piacere senza dolore, nostro o altrui, questo è il suo comandamento.
E allora bello il sangue versato; belle le vite perdute; bella anche la sconfitta!
Dai moti mazziniani a Shangai nel 1927 si potrebbe elencare una serie infinita di insurrezioni e tentativi rivoluzionari falliti.
Falliti perché fuori tempo rispetto allo spartito del loro momento storico e destinati alla sconfitta fin dal momento della loro ideazione.
Autentici tritacarne in cui hanno perso la vita migliaia di giovani rivoluzionari e di lavoratori, da Pisacane a Sapri fino al Che tra le foreste boliviane. Ma dalla lezione di tutte quelle sconfitte possiamo imparare a non ripetere gli stessi errori.
Così in caso di vittoria, per forza di cose, ci sarà poi la vendetta.
Sui nemici, anche quando sono rivoluzionari che hanno espresso qualche dubbio sull’efficacia delle decisioni prese dai grandi timonieri della storia.
Da Stalin a Mao ai leader di altri mille massacri.
Dai processi di Mosca della fine degli anni trenta all’orrore delle infinite stragi di carattere etnico, religioso, politico e di genere.
Teste tagliate, campi di lavoro, condanne a morte o ai lavori forzati, montagne di teschi destinati, foscolianamente, a far da trono ai nuovi dittatori.
Tutto entrerà o dovrebbe entrare nel medagliere futuro.
Della Rivoluzione fallita (comunque), della Nazione rafforzata, del Gulag travestito da Società migliore. Ma il ben noto “Chi non lavora non mangia” ha sempre avuto poco a che spartire con il comunismo.
Magari più con il socialismo reale, che ha sempre portato con sé l’idea che chi non soffre non è degno dello stato socialista.
Mentre, al contrario, una società altra, libera, di eguali potrà essere tale solo se sulle sue bandiere potrà scrivere: ”Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!”
Come affermò Marx nella sua Critica al programma di Gotha.
E allora perché celebrare ancora il marxismo-leninismo di impianto staliniano? Oppure lo stakanovismo fuori tempo massimo di chi chiede più lavoro e più produzione?
Di chi vuole occupare le fabbriche per far vedere quanto è bravo a fare il lavoro del capitale? Perché impiccarsi con le proprie mani all’albero luterano e capitalista del lavoro salariato? O, ancora più semplicemente, alla continuità aziendale?
Rovistando nella recente tradizione marxista-leninista potremmo scoprire così che José Manuel Durão Barroso, principe dei sacrifici europei, è stato a lungo leader e militante di un gruppuscolo portoghese m-l filo-cinese. Proprio di quel MRPP1 il cui giornale, “O grito do povo”, avevo già avuto modo di apprezzare in Portogallo ai tempi della rivoluzione del 1975! (qui http://olharaesquerda.blogspot.it/2014/05/durao-barroso-estalinista.html )
Oppure, scendendo di qualche gradino, potremmo accorgerci che Aldo Brandirali, che è stato in anni recenti un importante rappresentante delle cooperative bianche, anzi della cattolicissima e più che chiacchierata Compagnia delle opere, oltre che di Forza Italia, tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta fu direttore di “Servire il popolo”, il periodico dell’Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti) di cui era l’incontrastato leader. E che incoraggiò tanto il culto della (sua) personalità da spingere i militanti della sua organizzazione (sì, gli stessi di cui celebrava i “matrimoni comunisti”) ad inneggiare al proprio nome insieme a quelli di Mao e Stalin nei cortei dei primi anni Settanta!
Ma qui l’album delle figurine di leader e leaderini, non solo di matrice m-l ma anche provenienti da altre galassie, che in quegli anni predicarono e razzolarono male per poi fare ancora di peggio nei decenni successivi rischia di farsi talmente lungo da dover tagliare immediatamente il discorso.
Quel che c’è ancora da dire, però, è che Matteo Renzi, nel suo credersi così originale ed innovativo rispetto al suo partito, non fa altro che rinnovare la tradizione stakanovista e dittatoriale dello stalinismo (e del fascismo) su lavoro salariato e sulla produttività dello stesso. Così come la rinnova con le “purghe” interne dei vecchi quadri dirigenti. Mentre sono virtualmente già tutti compresi nelle sue riforme e nelle sue proposte quegli entusiasmi dimostrati da quei gerarchi e intellettuali fascisti che visitarono il paese di Stalin tra il 1929 e il 1934.2 Cosa che, tra le altre, gli toglie anche il primato della collaborazione con la Destra.
Gli stessi obiettivi che sono presentati come miraggio positivo dal presidente di Confindustria. E persino da quel sindacato che, contrario a qualsiasi reale mobilitazione di classe, sabato scorso ha portato a spasso per le vie e le piazze di Roma “le sue tristezze“, senza vergognarsi di essere stato, un tempo, il primo a chiedere sacrifici ai lavoratori.
Non temete, sarà una risata a seppellirli.
Tutti insieme.
Appassionatamente.
E senza alcun dolore.
E con il TAV.3
Movimento per la riorganizzazione del partito del proletariato ↩
Si veda a questo proposito l’utile testo di Pier Luigi Bassignana, Fascisti nel paese dei soviet, Bollati Boringhieri, Torino 2000 ↩
La Corte dei Conti conferma che il Lione-Torino è un’opera inutile e costosa
23 ottobre 2014La Corte dei conti francese ha oggi appena pubblicato un nuovo rapporto per denunciare la deriva ferroviaria francese. Non ha risparmiato l’opera Lione-Torino che ha già largamente rimesso in causa per tre volte nel corso dell’anno 2012.
In effetti, dichiara che la « troppo debole redditività socio-economica è per esempio manifesta per li collegamento Lione-Torino, che ha criticato nel suo rapporto del 1° agosto 2012 »
Come giustificare, al momento in cui il governo cera 50 miliardi d’euro, un’opera di cui ogni chilometro di tunnel è uguale alla costruzione d’un ospedale di 60 000 m².
Il governo si sbaglia orientando i finanziamenti al Lione-Torino per soddisfare gli egoismi regionali a cui sottomettersi al ricatto dell’uso del BTP.
Ecco i fatti : la Francia, per mancanza di volontà di rimettere in causa il « tutto su strada », non trasporta che 3,4 milioni di tonnellate sulla linea esistente quando in Svizzera o in Austria, delle linee identiche (Gottardo e Brennero) sopportano fino a 5 volte di più.
E’ possibile creare occupazione investendo in opere utili, ridando la priorità al merci ferroviario su rotaia, cominciando con il riorganizzare le vie ferroviarie esistenti, come lo prevedevano le raccomandazioni delle autostrade de l’ispezione generale della finanza che datano dal giugno 2006 e che non sono state seguite.
Credere che i finanziamenti europei permetteranno di realizzare quest’opera faraonica è illusoria perché i fondi disponibili non sono sufficienti per finanziare i 40% annunciati dal governo francese.
La corte ha appena duramente sostenuto questa constatazione, « La presa en compte di una di queste opere [canal Seine Nord Europe et Lyon-Turin], implicherebbe in effetti che« alcuna possibilità di finanziamento d’altre opere da parte dell’AFITF (Agenzia di finanziamento delle infrastrutture dei trasporti di Francia) non sarebbe più allora iniziata prima del 2028 o 2030 »Karima DELLI et Michèle RIVASI, eurodeputate ecologiste ↩