di Dziga Cacace
Questa sera il montaggio analogico mi ha completamente sconvolto!
687 – Sbaglierò: Michael Clayton, di un ciuco, USA 2007
Vedo troppi pochi film, ultimamente, per non imbestialirmi di fronte a una roba come questa, già vista millemila volte: l’avvocato carogna ma con gli occhioni da giuggiolone che – ingorgato in un casino senza vie d’uscita – ha il finale sussulto di coscienza. (Se ci penso bene, però, no: quali film conosco così? Nessuno. Vabbeh, non è importante). Sono di cattivo umore – lo so – e solo io, a differenza di critici e pubblico, ho trovato il film borghese, ipocrita e consolatorio, con gli attori da botteghino e la trama senza sorprese. Ma perché – scusate – Clayton (Clooney, fichissimo, ça va sans dire) non poteva essere stronzo fino in fondo, giacché lo è quasi fino in fondo? E fate uno sforzino, eddai! E poi ‘sto ritmo blando, con inserti narrativi che allungano la broda in un thriller giudiziario già immobile, avvincente come un discorso di Lamberto Dini. La regia si atteggia anche ad autoriale, ma se mi date il regista Tony Gilroy lo interrogo come si deve e ve lo faccio confessare in dieci minuti. Inoltre c’è Tilda Swinton: per me da sempre un autentico mistero qui premiato addirittura con l’Oscar. È espressiva come un calco pompeiano in gesso, ha lo stesso colorito e – per rimanere in campo artistico – un fisico picassiano, periodo cubista. Però due secoli fa la Swinton ha fatto un film che ha colpito gli stramaledetti cinéphiles segaioli di mezzo mondo e lei continua ad essere considerata un’icona del cinema “alto”. Boh. Abbiamo visto ‘sta cosaccia perché Barbara riteneva di aver affittato Good Night, and Good Luck: la gravidanza fa brutti scherzi. (Dvd; 23/3/08)
688 – Adrenalina pura con 24 – Season 3 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2004
Allora: faccio un riassuntino per chi si fosse sintonizzato solo ora. Lo show funziona così: 24 ore in tempo reale, in un giorno che più di merda non si può. Vittima della fatale giornata il povero Jack Bauer (Kiefer Sutherland), agente operativo della CTU, Counter Terrorists Unit di Los Angeles, agenzia (fittizia nel mondo reale, ma forse no, chissà) che si occupa di antiterrorismo. Una volta all’anno, arriva quel giorno in cui il malcapitato protagonista capisce che saranno cazzi amarissimi: userà un cellulare con la batteria magica per 24 ore filate (deve avere un abbonamento molto vantaggioso), non mangerà, non si farà mai una sana pisciata, figuriamoci una cagata come si deve leggendo la Gazzetta. Ovviamente la giornata infame vede sempre coinvolta in qualche casino anche quella cretina della figlia. In questa terza serie, tra le altre cose, Bauer sta anche smettendo di drogarsi, cosa che sembra la parodia de L’aereo più pazzo del mondo. Fortuna che queste benedette ultime 24 ore non fossero anche l’ultimo giorno per pagare i contributi alla domestica, l’Iva trimestrale e che non ci fossero visite dentistiche improrogabili in programma. Però – diciamo – la materia narrativa non manca: nella prima serie troviamo dei balcanici efferati (serbi, ovviamente), che ce l’hanno precisamente con Bauer e, per vendetta, vogliono fargli ammazzare il candidato alla Casa Bianca dato per vincente, Palmer, un nero buonissimo, onestissimo e democraticissimo. Solo che c’è una talpa alla CTU e tutta la serie vive del dubbio. Nella seconda tornata, il nero buonissimo etc. è diventato ovviamente presidente (sembrava fantascienza 4 anni fa, ma chissà se adesso questo Obama dell’Illinois…) e Bauer deve fronteggiare una minaccia atomica su Los Angeles, orchestrata da degli arabi pazzi furiosi, mentre nel palazzo presidenziale c’è praticamente un colpo di stato. Niente di meno. Diventa tutto un po’ isterico: meno intrighi, molta azione, gran divertimento. Nella terza stagione – che ho visto dopo la quarta causa pesante rincoglionimento da paternità – l’attacco è batteriologico ed è condotto da un occidentale già al lavoro con gli yankee e ora deciso a fare giustizia vera. Dura poco, chiaramente (per l’appunto: 24 ore). Nella quarta serie c’è un nuovo presidente (il rivale del solito nero dei primi tre episodi) che viene fatto secco da uno Stealth rubato all’uopo; anche qui dietro al complotto stanno degli arabi vagamente incazzati. La crisi sembra indistricabile e il vecchio presidente Palmer torna a dare una mano e, siccome è superlativo come sappiamo, mette tutto a posto. Fino alla prossima stagione. 24 è un serial ottusamente geniale (è una combinazione possibile, l’ho deciso adesso), un thriller fantapolitico ad orologeria a tratti fascistissimo (tipico interrogatorio: “Se non dai una cosa a me, io do…” – agitando una mannaia – “…una cosa a te”) ma anche con insospettabili afflati democratici, probabilmente dovuti al caos mentale da sedicenne con l’ormone impazzito tipico degli sceneggiatori di queste cose: branchi di nerds miliardari che vestono in bermuda e magliette di gruppi metal. E poi ti inventano ‘sto popò di roba. (Dvd; aprile ‘08)
689 – L’inguardabile Billy, perché l’hai fatto? di due bestie, Volker Schlondorff e Gisella Grischow, Germania 1992
Freddie Mercury e Jimi Hendrix insegnano: è proprio vero che da morto non puoi più difenderti da nessuno, neanche da chi pensa di ripubblicare questa porcata micidiale, un documentario allucinante che – una volta tanto d’accordo – Barbara e io abbiamo mollato dopo quaranta minuti. La schifezza è l’ignobile mix di una vecchia intervista al maestro Wilder e da inserti recenti di Schlondorff che cuce e rappezza. Senza chiarire niente: chi sia Billy (e la sua vita vale quanto i suoi film) e perché sia stato un genio. L’intervista storica, oltre ad avere una qualità da videotape smagnetizzato, è ottusa ai limiti dell’idiozia, con il petulante Schlondorff che chiede con fervore maniacale soluzioni di regia e sceneggiatura a un Wilder infastidito da questo fan inopportuno. Le risposte son sempre sopra le righe (ma se sono sbagliate le domande è logico che poi siano sbagliate anche le risposte) e mai Billy avrebbe pensato che da quel colloquio sarebbe potuto uscire alcunché. Ahinoi si sbagliava, il mercato sdogana qualunque cosa e c’è sempre chi ci casca (non ricordo chi mi abbia regalato questo prezioso prodotto Feltrinelli che ora puntella il tavolo della cucina). Tornando all’abominio che non troverebbe spazio in palinsesto neanche su una tivù satellitare della Val Brevenna: il commento a posteriori del regista teutonico è freddo come un ghiacciolo in culo, con luci da obitorio, verve cimiteriale e chiarezza narrativa pressoché nulla. Questa schifezza di film non è un omaggio, è un insulto alla memoria. E se non avete visto i film di Wilder è pure pieno di spoiler. (Dvd; 2/4/08)
690 –Il blues di Feel Like Going Home di Martin Scorsese, USA 2002
Esco il precedente dvd dal lettore e ne metto subito un altro, tanto il destino della serata è segnato e la gravida Barbara si addormenterà a breve al mio fianco. Scelgo per cui a mio gusto e mi scoppio un bello Scorsese: il vecchio Martin si riserva, nell’ambito della serie di documentari dedicati al blues da lui coordinata, il compito più impegnativo e ambizioso. Però, siccome non è un presuntuoso come Wenders o un mestierante come Figgis – autori in questo ciclo di due autentiche bestemmie su pellicola –, si fa scrivere il film da Peter Guralnick che è un giornalista e uno scrittore che sa, e molto bene, ciò di cui parla. L’unica pecca, non da poco, è la totale mancanza di didascalie, per cui i personaggi che incontriamo durante la narrazione rimangono per lo spettatore medio degli assoluti carneadi, né sono chiari i rapporti tra chi parla e di cosa. Siamo alla solita mancanza di comunicazione che mi parrebbe marchiana in un esordiente, figuriamoci in un maestro come Scorsese. Ma è inutile che mi ci incazzi: all’Autore lo spettatore, in realtà, fa schifo. Un po’ come a Veltroni e D’Alema dan fastidio gli operai, per intenderci. Ad ogni modo nel racconto c’è una prospettiva storica, c’è un percorso e una chiara intenzione narrativa. Inoltre a farci da Cicerone, nella (ri)scoperta del blues del Delta c’è un musicista nero sconosciuto ai più, Corey Harris, che suona la chitarra in maniera eloquente e comprende ciò di cui si parla. Dal Delta del Mississippi fino al Mali, a recuperare le radici della musica più bella che esista, pura, intensa, dolorosa, carica di storia. Si vedono Son House (eccezionale), John Lee Hooker, Muddy Waters, Ali Farka Toure e altri personaggi minori ma anche loro con una storia da raccontare. Film più che discreto, ma fruibile solo da una percentuale della popolazione con almeno due lauree, in musicologia e folclore. Cioè quasi nessuno. Tutti gli altri che se ne dicono entusiasti, mentono, anche perché – a differenza che con Buena Vista Social Club – il disco non se l’è comprato proprio nessuno. Ma nessuno nessuno, perché il blues non si danza nelle balere come quel ritmato scassamento di minchia della musica cubana. M’è scappata, eeeeh. (Dvd; 2/4/08)
692 – Il pacifismo guerrafondaio di Kingdom of Heaven di Ridley Scott, USA, Gran Bretagna, Spagna 2005
Sceneggiato col martello pneumatico e montato come se fosse Salvate il soldato Ryan, Kingdom of Heaven è un film ambiguo come spesso capita alle ultime cose di Ridley Scott. Ma la sua non è un’ambiguità ricca, bensì subdola, cinica, a buon mercato. Come da titolo italiano (Le crociate, non sia mai che ci si confonda) siamo in Terra Santa a liberare i luoghi sacri. Ci sono i saraceni buoni e il fanatico guerrafondaio che identifichi subito con uno di Al Qaeda. E ci sono i cristiani saggi e disponibili e quelli teo-con che vogliono la guerra a tutti i costi. Il messaggio generale vorrebbe essere di tolleranza, pace e comprensione, però poi la cinepresa indugia piacevolmente sulle scene di battaglia che – detto tra noi – sono anche la cosa migliore di un film che – ridetto tra noi – sembra adatto, nella sua semplice consequenzialità, all’età mentale di un dodicenne. E infatti – seppur turbandomi ideologicamente l’unico neurone funzionante – m’ha divertito. Girato con consueto stile grafico, purtroppo a Ridley scappa la cafonata di qualche modernismo di troppo: l’impressione che ogni paesaggio o scena di massa siano digitalizzati toglie molta magia a una messa in scena che fa (o dovrebbe fare) della grandiosità la sua cifra distintiva. Il belloccio Orlando Bloom se la cava, Eva Green – diamante splendente in The Dreamers del Maestro Bertolucci – mi sembra già appassita. Bravini gli altri e anche i costumi sgargianti. Suvvia: me lo son goduto (Barbara no, era indignata e sicuramente ha ragione lei). (Dvd; 11/4/08)
693 – Il classico La carica dei cento e uno di Wolfgang Reitherman, Hamilton Luske, Clyde Geronimi, USA 1961
Regalato a Sofia per i suoi tre anni (festeggiati il 26 aprile e non il 25, a sua insaputa; potere del nostro regime autocratico, neanche in Corea del Nord si cambia il calendario!) e visto praticamente subito assieme a lei. Il commento critico della piccina a fine visione è sintetico e straight to the point: “Questo è un film bellissimo!”. E non ha tutti i torti. Prima di questo ha visto, a inizio aprile, solo Le avventure di Barbapapà (di Talus Taylor e Annette Tison, Olanda 1973) che io ho finora evitato in toto e che in realtà sembra l’assemblaggio di una serie di episodi televisivi, per cui non so se possa valere come film “narrativo” vero e proprio (non c’è insomma la consequenzialità delle storie classiche di Barbapapà e lo dico a ragion veduta perché le ho lette tutte. Non per esclusivo piacer mio, s’intende). La Carica è un film molto “familiare” e lineare, anche se con azzeccata struttura ad inseguimento. Giusto per la cronaca: Crudelia De Mon è considerata una delle cattive più cattive del grande schermo di sempre, una zitellaccia ingrigita dal fumo, secca come un’acciuga e che non deve avere partner da decenni. Vuole farsi un pelliccione di pelle di dalmata e ruba 15 cuccioli a una coppia felice di conoscenti (coppia sana, solida, che tromba, seppur con britannica discrezione), ma in realtà, Crudelia, ne aveva già da parte 84 comprati, suppongo, con regolare fattura, e di cui poteva farne il cazzo che voleva, eh. E quando i 101 (99 cuccioli più Peggy e Pongo, genitori dei 15 rapiti) scappano e si salvano, gli 84 di Crudelia sono effettivamente sottratti alla legittima proprietaria. E questo nessuno lo dice! Ci starebbe un seguito politicamente corretto dove i cuccioli vengono restituiti e giustamente scuoiati, perché se non gli insegniamo l’osservanza della legge fin da piccoli, poi ci aspetta l’anarchia, no? (Dvd: 26/4/08)
694 – Good Night, And Good Luck di George Clooney, USA 2005
Stavolta Barbara azzecca l’affitto e il film, effettivamente, merita: Clooney ritorna alla regia con le idee chiare (il suo primo film non m’era piaciuto per niente, vulgo faceva cacare). Qui troviamo afflato democratico, impegno rivendicato anche per un mezzuccio come la televisione, e ottima cinematografia, con gusto e classe. Bravo Giorgetto che non dimentica di reinvestire i mijiardi – guadagnati recitando in puttanate – in qualcosa di durevole e onesto. Film ben fatto e necessario, dài. (Dvd; 3/5/08)
695 – Altro classicone: Il libro della giungla di Wolfgang Reitherman, USA 1967
I doveri di babbo mi impongono la visione di un film che non vedo dai miei nove anni (al Manin di Genova, con nonna Franca: avevo scazzato con un bambino di quattro perché disturbava. Avevo vinto). È il film Disney con due dei momenti più divertenti in assoluto: l’amicizia di Baloo e Mowgli e l’incontro con l’orango tersicoreo Re Luigi. Per il resto, il percorso di crescita e maturazione del trovatello tra animali buoni e meno buoni (lo spauracchio Shere Khan) scorre facile, tenero e sereno, narrativamente semplice, disegnato bene e animato meglio, con belle caratterizzazioni e sfondi. Semmai il finale, molto dark e coraggioso, lascia un po’ perplessa Sofia. E due giorni dopo nasce Elena. (Dvd; 4/5/08)
696 – Man of the World di un cretino, Gran Bretagna 2007
Una tra le più belle storie del rock. E una delle più tragiche: quella di Peter Green. Giovanissimo chitarrista nei Bluesbreakers di John Mayall in sostituzione del dio Clapton, forma poi i primi Fleetwood Mac (quelli blues, che poi diventeranno pop) e i 3 album che produce in meno di due anni, ’68 e ’69, vendono più di Beatles e Rolling Stones assieme. Albatross, Need Your Love So Bad, Black Magic Woman, Man of the World e The Green Manalishi vanno in testa alle classifiche e rendono l’uomo molto ricco e molto infelice. Ma sarà un’infausta serata a Monaco nel 1970 a farlo uscire completamente di cotenna. Già da un po’ Green era insoddisfatto del suo ruolo di rockstar per caso, del successo e dello show-biz. Andava dicendo agli altri della band: “Diamo tutti i soldi alle popolazioni del Biafra, dài!”. Nessuno che gli desse retta: volevano diventare ricchi sfondati e pochi anni dopo ci sarebbero riusciti eccome. Comunque, alla festicciola di Monaco di cui si diceva, a Peter viene somministrato dell’LSD a tradimento che fa il resto: il genio esplode, vuole solo fare jam oceaniche (tipo 40 minuti di improvvisazione), molla il gruppo, pubblica un disco folle e doloroso (e splendido e dal titolo inconsciamente programmatico: The End of the Game) e poi crolla in una depressione che lo fa finire perfino in casa di cura per malati di mente. Le medicine lo annientano, così come l’elettroshock e il musicista più lirico del British Blues finisce per imbracciare un fucile per minacciare il suo commercialista (cosa che in realtà vorremmo fare tutti, credo, quando ti presenta la dichiarazione dei redditi). Non vuole soldi che ritiene maledetti, vuole solo scomparire. Il recupero è lento e non completo. Oggi Green fa compassione: parla impastato, in maniera incoerente, con sprazzi di amarissima lucidità. Ha tentato un ritorno alla musica negli anni Novanta e a Pistoia fui testimone di un concerto a dir poco straziante. Adesso ha mollato del tutto e forse si gode un po’ di pace, dopo alcuni anni di incisioni (più che dignitose e sicuramente dolorose) e concerti che giustifico solo come trattamento terapeutico per questa anima in pena. Il documentario di Steve Graham è pedestre, senza alcuna idea se non quella della consueta biografia scandita cronologicamente, con interviste molto statiche e non particolarmente brillanti (e riprese cazzo canis). Il film lo tiene a galla il simpaticissimo Mick Fleetwood che è una fucina di ricordi. Musica ovviamente magnifica e immagini di repertorio straviste (da me) e riutilizzate più volte per le due ore del film. Gli do 6 perché l’argomento merita 10, ma la regia non va oltre il 2. Occasione persa molto molto male. (Dvd; 15/5/08)
697 – Classicone aggiornato: Tarzan di Kevin Lima e Chris Buck, USA 1999
Con la minuscola Elena son giorni di gran daffare e faccio questo regalo a sorpresa a Sofia che lo riceve emozionatissima, giacché sono settimane che chiede senza speranze di averlo. Guarda il film a bocca aperta, non si prende particolari spaventi ed è totalmente presa da una vicenda che in effetti non ha un attimo di respiro e va via veloce. Alla fine del film si gira verso di me e sentenzia: “Bello, eh?”. Divertente, ritmato, animato da dio ibridando tecniche tradizionali con quelle più moderne (gli sfondi sembrano statici e molte volte vengono esplorati in 3D), con tentazioni moderne (Tarzan che surfa tra i rami) e concessioni classiche (il cattivone Clayton, molto anni Quaranta), si fa vedere volentieri. Anche più volte, ahinoi, tollerando Phil Collins che canta cose insensate in un italiano degno di Mal. Due giorni dopo Sofia mi chiede se i cattivi esistano anche fuori dai film, nella vita reale. Beata innocenza. (Dvd; 16/5/08)
698 – Immagina The U.S. vs. John Lennon di David Leaf e John Scheinfeld, USA 2006
Paratelevisivo, molto lavorato ed effettato, è un discreto racconto della vita politica di John Lennon durante la sua contrastata permanenza negli USA. Parte bene e regge per almeno un’ora, poi si ripete e mostra un po’ la corda anche perché abbiamo capito che John stava sul cazzo a Hoover e non volevano dargli la cittadinanza, però poi non è che sia capitato molto altro. Lennon s’è battuto ancora e alla fine gli han dato la carta verde. Bene, bravo, bis. Oltre a tutto al ripiegamento privato di Lennon e della Ono (che, francamente, nelle scene di repertorio è fuori luogo in maniera evidente e puntualmente sovrastata da Lennon) non corrisponde una virata del racconto, che in troppe parti è meramente cronachistico. Poi, certo, la musica è splendida, Lennon illumina ogni volta lo schermo e i commenti sono interessanti, però si vede che è stato prodotto per la tivù (VH1) e c’è un evidente sentimento agiografico, anche perché la vedova ha collaborato attivamente. Non brutto come avevo letto da qualche parte né neanche lontanamente un capolavoro come molti critici ignoranti di cinema, rock e vita hanno blaterato; mmh. (Dvd; 22/5/08)
699 – Non ha bisogno di presentazioni Il secondo tragico Fantozzi di Luciano Salce, Italia 1976
E beh. Secondo shot dopo il successo galattico del primo Fantozzi, uno dei film italiani più visti di sempre come biglietti staccati (non fidatevi delle classifiche degli incassi, vincon sempre gli ultimi!). Qui è evidente come la struttura episodica (e stagionale) non sia sempre riuscita come nel prototipo e viene un po’ a mancare l’evidenza del sottotesto politico, concentrandosi invece più sulla satira grottesca di vizi, manie e sogni dell’italiano medio, un’analisi della sua evoluzione che oggi ha un valore antropologico notevole. Il problema è che Fantozzi siamo noi e chi vede il film preferisce sempre credere che sia qualcun altro diverso da sé, confondendo inoltre il padronato e la sua rappresentazione grottesca con un’esagerazione umoristica. Qui – comunque – abbiamo la corazzata Potemkin imposta dal prof. Guidbaldo Maria Riccardelli, il varo a Genova con cena tra i potenti (con i pomodorini “dentro palla di fuoco a 18mila gradi”), la notte brava di Calboni, Filini e Fantozzi, la seguente fuga d’amore del ragioniere e della signorina Silvani a Capri e anche la clamorosa gita del Duca Conte Semenzara al casinò di Montecarlo. Ci sono pure la fiacchissima battuta di caccia e la truffaldina malattia di Fantozzi con visita al circo, due parti che sembrano outtakes, con umorismo scarico e pure delle scopiazzature (alcune che risalgono addirittura al Chaplin muto… che chissà dove le aveva fregate lui, però). Detto questo, io Fantozzi non lo contesterò mai. Mai. (Diretta tv su Retequattro; 31/5/08)
700 – Pensa: Le avventure di Peter Pan di Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson, USA 1953
Sofia l’ha preteso e, da genitore fermo nelle sue convinzioni pedagogiche, ho ceduto subito. Ma al momento non è sembrata particolarmente impressionata salvo poi diventarne fanatica. Io l’ho sopportato, anche se poi, alla quarta visione, ho cominciato ad affezionarmi (coi bambini la visione ripetuta è d’obbligo: o impazzisci o t’innamori). Disegnato benissimo, musicato con belle canzoni, ci presenta un cast eterogeneo e ben congegnato e noto subito che Capitan Uncino è praticamente Willy DeVille mentre Spugna sembra il Baciccia marinaretto della Sampdoria; assortito anche il cast femminile, con la virginale Wendy, la molto hot Giglio Tigrato e infine la lolita da tasca, Trilli. Il protagonista Peter Pan è invece un’odiosa faccia da cazzo con le orecchie a punta, un coglione dispettoso che non vuol crescere e il povero Capitan Uncino è la sua vittima frignona (pure con l’incubo di un coccodrillo… marino?! Sì, esistono). Il film me lo vedo, ma tutte le menate sulla fantasia, sul rimanere bambini… boh, mica lo so se sono d’accordo. Poi io son cresciuto con Bennato (e il suo layer politico alla vicenda) piuttosto che con questo Disney, per cui tutta la faccenda mi risulta confusa, anche se evidentemente il confuso sono io. E già che ci sono: il Bennato Peter Pan libero contro il movimento giovanile massa di pecoroni, rivoluzionari coi soldi di papà etc. etc. m’è sempre sembrato troppo egocentrico e qualunquistico, anche se non dubito che Edoardo abbia incontrato tanta gente così nella sua carriera. Però il disco era bellissimo: Bennato, quando non gli parte la brocca e il tono profetico/apocalittico, è (stato) un genio. Ma tornando al film: a me sarebbe piaciuto che quelli per cui tenere fossero i pirati, ecco. Cioè, posso farlo lo stesso, ma vallo a spiegare a Sofia, eh. (Dvd; 31/5/08)
701 – L’orrendo The Grand Finale, di due pelandroni, Gran Bretagna 2006
Michael Apted, già responsabile di film più che dignitosi come Gorky Park o Gorilla nella nebbia, di serial goduriosi come Rome e di documentari celebratissimi (il militante – e menoso – Incident at Oglala o il kolossal televisivo Up series) si macchia assieme a tale Pat O’Connor di questo documentario che dovrebbe raccontare il campionato mondiale di calcio del 2006, disputato in Germania. Ne viene fuori una minchiata catatonica, per nulla coinvolgente, col gioco più bello del mondo (in un campionato in effetti non esaltante) raccontato come sarebbe capace di fare solo un appassionato di shangai. Le interviste fanno letteralmente schifo sia come domande poste ai calciatori (all’attaccante Thierry Henry: “Come mai tanti talenti in Francia?”… ma come si può soltanto pensare di porre una domanda così stupida?) che come regia (Cannavaro è ripreso in una palestra, con un audio soffocato e delle luci degne di un’emittente uzbeka). Il commento è spesso fuori luogo e il montaggio e l’impianto generale del film sono disastrosi: non solo manca la cronaca spiccia (l’Italia sembra capitare in finale a Berlino per caso), ma non c’è proprio calore, umanità, curiosità; è un film celebrativo surgelato, con le interviste realizzate dopo, senza avere a disposizione materiali pensati e realizzati prima e durante. Mancano vitalità, ritmo e invenzione; e mancano soprattutto un’idea del cinema e – cosa gravissima e incomprensibile – un’idea del calcio. Oltre a tutto c’è anche uno smarrone clamoroso: dell’arbitro della finale Elizondo (pure intervistato e senza motivo) si sbaglia il nome. Immagino che Apted sia stato locupletato dalla Fifa a suon di milionate di euro e poi non ci abbia perso granché tempo, tanto il committente era quella blatta di Sepp Blatter. Vabbeh, ancora grazie che il film non sia stato affidato al tedesco Wenders: almeno abbiamo evitato l’ennesima colonna sonora modaiola, tipo vecchietti tirolesi che fanno lo yodel e tutti a perderci le bave. (Diretta tv su La7; 1/6/08)
(Continua – 63)
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