di Mauro Baldrati
Lucy, la prima femmina di austrolopiteco della preistoria, è tornata per portare a compimento il ciclo dell’evoluzione.
Potrebbe essere questa la scheda dell’ultimo film di Luc Besson, il regista franco-hollywoodiano che si porta dietro l’aura epica di film fortunati e ben riusciti come Nikita, Il Quinto Elemento, Leon. Non ci sarebbe molto da aggiungere, a parte questa considerazione: per quanto tempo un regista può continuare a vivere della rendita di opere passate? In teoria per sempre. Il marketing selvaggio, l’insipienza della critica cinematografica, che non dice, non consiglia, non stronca, ma si limita al riassuntino della storia, permettono, anzi, impongono, di attingere dal passato, dall’epoca in cui erano ancora presenti le sfide, le ricerche. Un trend che non ha scadenza, visto che, dopo 40-50 anni, si continua a pescare e ripescare dall’estetica degli anni Sessanta, quando si faceva sul serio e il Mercato si adeguava. Un certo vuoto pneumatico di idee, di innovazione, che trovano linfa dalla sperimentazione senza un esito garantito, viene riempito con gli effetti speciali, sempre più evoluti e fine a se stessi.
Così il cinema muore, sostituito da un prodotto interattivo coi videogiochi, i feuilletton, le commedie, le sceneggiature improvvisate e di una imperfezione entropica.
Non che Lucy sia brutto. E’ adeguato ai tempi. Gli effetti speciali, come sempre, sono ottimi, si vede addirittura l’ennesima sequenza di inseguimento in auto con incidenti spettacolari che non annoia. Dalla sua ha la storia semplice, senza fronzoli né svolte pretenziose. Lucy studia a Taiwan, quando viene costretta dal fidanzato a consegnare una valigetta sigillata a un certo Mr Jang. Cade in balìa di una banda di mafiosi coreani abbastanza fumettistici, che le aprono la pancia per inserirle un pacchetto di una potentissima droga che si apprestano a mettere sul mercato. Però un aguzzino tatuato la massacra di botte, il sacchetto si rompe e la droga entra in circolo. Ci sarà una rivoluzione psico-fisica di enormi dimensioni, una vera e propria mutazione che la porterà a sviluppare ultrapoteri che derivano da un uso intensivo delle cellule celebrali. Noi usiamo il 10% del nostro cervello, Lucy sale di intensità fino a raggiungere il 100%, che equivale al fine ultimo dell’evoluzione, che coincide con la creazione primigenia, il principio stesso della materia.
Allietato da inserimenti di riprese naturalistiche di ottima qualità, tuffi nella preistoria che ricordano 2001 Odissea nello spazio, “visioni” di Lucy del mondo affollato di onde e interferenze che evocano Matrix, timidi tentativi di rievocare Nikita, il film scorre verso un finale tecno-lisergico che sarebbe piaciuto a Timoty Leary e ai suoi allievi della rivoluzione chimica. Però che senso di inutilità di fondo, di costruito, di incerto. E poi la Scarlett Johansson. Besson deve essersi reso conto che non è adatta per una seconda Nikita, proprio non ce la fa. Così ad ogni immagine della star, laterali all’overdose compulsiva di primissimi piani, noi vediamo le didascalie: “superbambola con pistola”; “superbambola che cammina”; “superbambola seduta che non fa un tubo”.
E dopo?
Ripensando alla mano esperta del regista, alla cura degli effetti e dei dettagli, e a una certa mediocrità dell’opera, ci deprimiamo leggermente. Ci chiediamo cosa abbiamo perso, e perché. Oppure cosa ci è stato rubato, e come. Ci chiediamo se è anche colpa nostra.
E non sappiamo rispondere.
Chi ha una risposta merita il Premio Nobel.