di Mauro Baldrati
Quando sarò morto non smettete di suonare la mia musica. Per molto tempo si è creduto che questa sorta di invocazione messianica di Jimi Hendrix appartenesse alla leggenda che si è creata intorno al personaggio. Invece è vero. E’ la chiosa di Zero, ultima riga: “Quando non ci sarò più non smettete di metter su i miei dischi”. Era il 1970, forse Jimi “sentiva”. Suonate al mio funerale, come i bluesmen di New Orleans: “Alla mia morte ci sarà una jam-session, puoi giurarci. Voglio che tutti diano il massimo e si sballino. E conoscendomi, finirò per cacciarmi nei guai al mio stesso funerale.”
Fine.
Oppure è l’inizio?
Certamente non è uno spoiler. Zero è un ipertesto. Una parola d’ordine è “musica”. Con questo link si può spaziare in tutte le direzioni, dalla fine verso l’inizio, dal centro verso la periferia e viceversa.
Io sono musica, dice Jimi. Lo afferma la sua breve, deflagrante vita professionale e privata. E come non evocare Io sono letteratura di Kafka? Non è difficile trovare singolari affinità elettive tra i grandi artisti del passato. Quegli artisti che sono riusciti ad azzerare il tempo e lo spazio, e ancora oggi i loro messaggi sono vivi, e attuali. Jimi e Kafka: due che non si sono mai omologati. Kafka scriveva e basta, totalmente indifferente alle esigenze editoriali, e ai gusti del pubblico. E Jimi, nel suo ipertesto, dopo avere cliccato per l’ennesima volta “musica”: “Siamo una banda di zingari liberi di vagabondare e di fare ciò che ci piace. Il nostro obiettivo è creare musica autentica, e al diavolo l’immagine che il pubblico ha di noi.” (pag. 157)
Altrove afferma che il pubblico è tutto, e lui è al suo servizio: “Il ruolo del pubblico è fondamentale” (pag. 148). Sembra una contraddizione, ma non lo è. Io sono musica significa che si esiste in funzione del pubblico, di chi ascolta. Di chi recepisce il “messaggio”. Di chi è l’oggetto attivo di amore. Si ama il pubblico, si lanciano messaggi d’amore attraverso la musica, ma non ci si fa omologare. Io sono musica è un’affermazione forte e inequivocabile di libertà. Come Io sono letteratura del resto. Ma è anche una limitazione, una specie di schiavitù. Come una missione. O forse una condanna. Può sposarsi l’artista totale? Può avere una vita normale? Kafka le studia tutte per allontanare la prospettiva del matrimonio con Felice. Usa tutte le risorse a sua disposizione, persino la malattia. Come può ri-sposarsi se lui è letteratura? Una macchina totale di scrittura? Come Jimi Hendrix, una macchina furiosa di musica: “La prospettiva di sposarmi e avere qualcuno da amare mi affascina, ma è impossibile capire quand’è il momento. Se c’è la musica, non c’è tempo per il resto. Sono già sposato alla musica” (pag. 238).
Proprio come Kafka, che ha rivoluzionato la lingua attraverso il suo uso “minore” all’interno di un segmento dominante, Jimi Hendrix ha rivoluzionato il blues, il rock, il freak-out, il funky, “spaccandoli” e fondendoli in un linguaggio musicale nuovo, con suoni nuovi. “Una miscela di rock, blues e jazz, musica in evoluzione, che viene al mondo adesso, una musica del futuro. Una miscela di rock, blues, musica freak e delirio puro.”
Questo processo creativo, questo “delirio puro” aveva bisogno di consumare, tempo ed energie. Jimi Hendrix non era una candela che bruciava da entrambe le parti, come i replicanti di Blade Runner, aveva stoppini supplementari. Il delirio puro, che l’ha portato in tre anni a realizzare quattro dischi epici, e ad esibirsi in un numero incalcolabile di concerti, non gli ha lasciato molto tempo. Proprio come Kafka, o come Rimbaud, per il quale un’ora equivaleva ad almeno un mese del resto dei mortali.
Leggendo l’ultimo capitolo di Zero (perché possiamo partire da qui, e saltare all’inizio in qualsiasi momento), troviamo Jimi che cerca di avere tempo. Chiede vita, futuro. E’ un capitolo importante per superare la leggenda che vuole Jimi nel 1970 in crisi, finito, distrutto dalla droga. Attraverso la sua stessa voce, in questo compendio ipertestuale di appunti, interviste, pagine di diario, lettere che costituisce una sorta di romanzo in divenire, conosciamo i suoi progetti. E la sua maturazione. Si era avvicinato alle Pantere Nere, che gli avevano chiesto una canzone. Aveva suonato gratis ad Harlem, soffrendo perché la “sua” gente non c’era, forse neanche lo conosceva, perché, in fondo, era stato un idolo per i bianchi. Aveva incitato i giovani che manifestavano contro il Vietnam a difendersi, a non scendere in piazza disarmati per farsi spaccare la testa: “I ragazzi si lanciano nella mischia senza protezioni, sprovvisti di tutto. E così finiscono per prenderle. Basterebbe guardare il Giappone. I ragazzi giapponesi comprano elmetti, si organizzano in piccoli squadroni, si muovono in formazione. Hanno scudi. Indossano protezioni di metallo. Bisogna avere un equipaggiamento” (pag. 225).
Voleva creare una nuova musica, usando anche la classica, una musica “popolare”, che portasse messaggi di liberazione per “aiutare” il pubblico a trovare una sua strada. Non era utopia. Era una ricerca. Ma aveva bisogno di fermarsi, di riposare, di riflettere, senza essere ossessionato dai tour-manager e dai produttori terrorizzati che il pubblico potesse dimenticarsi di lui.
Non ha avuto il tempo. Forse gli è stato negato. Oppure gli è stato chiesto il conto per la fortuna che l’ha sostenuto nei tre-quattro anni in cui è stato una macchina di produzione frenetica e perfetta. Musica+testi+suoni+body art.
Perché Jimi è stato fortunato. Ha incontrato le persone giuste nel momento e nel luogo giusto. Altri come lui, altri grandi artisti, non hanno avuto la sua stessa fortuna. Dal 1962 al 1965, quando cercava di farsi conoscere, di sottrarsi alla schiavitù del chitarrista turnista che dormiva tra gli scarafaggi e tra i topi dopo avere saltato la cena, i produttori, i manager ai quali chiedeva un’audizione, gli rispondevano che era uno tra tanti, un mediocre. Proprio come Van Gogh, al quale i galleristi parigini e olandesi ripetevano che era negato sia per il disegno che per la pittura. Van Gogh non ce l’ha fatta. Io sono pittura è morto pazzo senza avere venduto un solo quadro. Anzi, uno solo, acquistato da un’amica pittrice, Anna Boch. Jimi ha incontrato Linda Keith, la fidanzata di Keith Richards, che ha perso la testa per lui, probabilmente solo dal punto di vista artistico. E il 5 luglio 1966, al Café Wah? di Mac Douglas Street, Greenwich Village, New York, c’era Chas Chandler ad ascoltarlo, invitato proprio da Linda.
E qui iniziò il suo breve, inarrestabile cammino artistico.
Lo schiudersi di un seme che aveva accumulato un’enorme, insostenibile potenza.
Ma nulla era gratis, nulla era regalato.
Anche se uno dei due curatori, Alan Douglas, gode di dubbia fama per le manipolazioni dei materiali sonori di Jimi Hendrix, la voce che ascoltiamo in Zero, quella voce sola sussurrata e gridata, che chiede, afferma, racconta, di sicuro non mente.
Jimi Hendrix, Zero, Einaudi Editore Torino 2014, pagg 251 € 22