di Alfio Neri
Leggete Wikipedia, se non sapete cosa fare la sera. Leggete la voce Teoria del Complotto1. Leggete anche Conspiracy Theory2, la voce inglese corrispondente. Date un’occhiata ai link. Leggerete cose incredibili: Kennedy, gli UFO, la guerra del Viet-Nam. Date anche un’occhiata alla bibliografia. Troverete parecchi libri. Nella lista spicca Conspiracy Theory in America, pubblicata dalla University of Texas Press nel 2013. L’autore è Lance deHaven-Smith, un professore universitario con un notevole curriculum scientifico3. dell’area delle Scienze Politiche. Il libro con un capitolo sui Padri Fondatori e con altri temi ed autori tipicamente americani (Popper e Leo Strauss per esempio) sembra tagliato per la destra repubblicana. L’assoluta mancanza di ogni riferimento agli autori tipici della sinistra europea conferma questa impressione.
Quello che deHaven-Smith scrive però ostacola le veloci carriere universitarie. Negli Stati Uniti il termine conspiracy theory (in italiano il termine si direbbe ‘complottismo’) è un’etichetta pesante, ridicola e denigrante. La parola indica un approccio privo di prove, portato avanti da persone intellettualmente limitate, lontano dal senso comune. I complottisti sarebbero dei paranoici che vedono oscure vicende anche laddove non ve ne sono e dove tutto è alla luce del sole. Questa accusa viene rispolverata ogni volta che si toccano dei temi che sono attraversati dalla ragion di stato. Quando si parla di ‘complottismo’ cessa ogni vero dibattito. Potresti essere di fronte a un pazzo. Ma se si parla di ‘crimini di stato contro la democrazia’, come è possibile evitare l’accusa di essere un complottista?
Il termine conspiracy theory inizia ad essere usato nelle conversazioni quotidiane statunitensi dopo l’omicidio del Presidente Kennedy. Per la precisione diventa molto frequente nel 1964 quando si devono rigettare tutte le critiche rivolte alla commissione Warren, la Commissione del Congresso istituita per indagare sull’omicidio del presidente Kennedy. Quello che era successo nei giorni dell’omicidio di Kennedy sembrò davvero molto strano. Però visto che le istituzioni avevano agito in modo trasparente, chi le criticava non poteva essere che un pazzo. Inoltre anche i più dubbiosi raramente si erano spinti al di là della ricostruzione degli eventi. Pochi erano arrivati al nocciolo della questione. Pochi si erano chiesti chi aveva interesse a uccidere Kennedy e quale poteva esserne la ragione. La domanda fu sempre in quanti avessero sparato (una stessa pallottola ben difficilmente può colpire in tre punti diversi) mentre la questione di fondo era se quell’omicidio poteva anche essere un colpo di stato.
Il termine stesso di complottismo è ingannevole. Parlare di oscure cospirazioni porta mentalmente a riferirsi a cose torbide e poco chiare. Se invece si cercano le ragioni di precisi disegni politici, le cose risultano subito chiare. L’accusa di complottismo presuppone un obbligo di dimostrazione da parte di chi critica. A nessuno viene in mente di chiedere altrettanto a chi difende il senso comune. Inoltre se questo concetto è applicato ai crimini dei ceti dirigenti ne distrugge il contesto, lo sfondo e la prospettiva. Definire complottista chi accusava il regime fascista dell’omicidio dei fratelli Rosselli oggi sembra un’idiozia. Però gli assassini dei due fratelli non sono mai stati individuati. Pensare all’omicidio Kennedy a partire dalla traiettoria dei colpi senza chiedersi chi avesse interesse a ucciderlo è demenziale. Pensare le implicazioni dell’omicidio Mattei come effetti imprevisti di errori burocratici delle perizie della scientifica nell’individuare l’esplosivo è assurdo. Affrontare i crimini di stato con la categoria del complottismo è come cercare di vedere un elefante con un microscopio; quello che si vede aiuta a non capire.
Per deHaven-Smith i crimini di stato contro la democrazia iniziano con la Seconda Guerra Mondiale. In America la manipolazione politica esisteva anche prima ma questa favoriva interessi privati. Non riguardava la forma dell’ordinamento politico. Con lo scontro contro l’Asse, nella filosofia politica americana prende piede una corrente che sosteneva il patriottismo, scoraggiava il sospetto di massa sull’intrigo politico, mentre insegnava nelle aule universitarie che la menzogna poteva essere necessaria per sostenere la propria nazione. Il momento chiave è il 1941. Con l’attacco a Pearl Harbour la corrente isolazionista viene messa a tacere per sempre. Chi sostiene che il presidente Roosevelt avesse nascosto informazioni di intelligence alla marina prima dell’attacco giapponese viene isolato e eliminato dal dibattito. Quando viene occultata la questione, termina anche il dibattito pubblico sulla manipolazione della democrazia americana.
Nel libro spicca il documento della CIA Dispatch#1035-9604. L’informativa indica alla stazioni della CIA presenti nel territorio statunitense come comportarsi di fronte alle critiche contro l’operato della Commissione Warren. Dopo l’apparizione di questo documento si diffonde nelle conversazioni quotidiane la categoria di conspiracy theory. Da un punto di vista americano la questione è molto importante.
Rigettare la categoria analitica di complottismo (chi fa certe critiche al governo è uno strambo) significa anche rifiutare un’idea mitologica di democrazia e di trasparenza. Se chi fa certe critiche non è uno strambo, allora è il governo che ha agito in modo abbietto. Ammettere che un’agenzia del governo (la CIA in questo caso) abbia promosso per decenni azioni di manipolazione dell’opinione pubblica equivale a dire che la mitologia dell’eccezionalismo americano è falsa. Significa che l’immagine diffusa dai mezzi di comunicazione di massa è completamente fittizia.
L’enorme fortuna di questa categoria indica poi che l’operazione è riuscita oltre ogni dire. La manipolazione di massa ha avuto un enorme successo. Pochi hanno formulato le domande chiave e nessuno ha avuto risposte adeguate. L’operazione ha addirittura creato una specie di psicoreato. Quando si viene accusati di complottismo si esce del gruppo dei ‘normali’. Dopo l’accusa si forma una specie di barriera invisibile. Ogni critica complottista non può che essere folle, paranoica e antipatriottica.
Il libro di deHaven-Smith ha molti meriti. Descrive un problema e pone importanti problemi. Non scade mai nella facile retorica. La sua intelaiatura concettuale è quella in cui si riconosce l’America profonda. Un mondo di banalità intellettuali ma anche onesto e lavoratore. La sua richiesta di trasparenza e democrazia è poi anche la nostra. Visto da questa parte dell’Atlantico, leggere questo libro è poi quasi rassicurante. Noi sappiamo già che la menzogna e il crimine fanno parte della vita politica. Gli americani invece sembra non lo sappiano ancora.