di Sandro Moiso
Franca Rame con Joseph Farrell, Non è tempo di nostalgia, Della Porta Editori, Pisa Cagliari 2013, pp. 128, € 11,00
L’agile e, allo stesso tempo, interessante testo proposto da Della Porta Editori è frutto di un’intervista rilasciata a Joseph Farrell da Franca Rame, a pochi mesi dalla morte, nel febbraio del 2013 . Insieme alla trascrizione di questa Farrell, Professore Emerito di Italianistica presso l’Università di Strathclyde di Glasgow (Scozia), ha utilizzato altri brani provenienti da un’intervista rilasciatagli nel 2000 mentre stava scrivendo una biografia di Dari Fo e Franca Rame poi pubblicata in inglese nel 2002.
Scomparsa nel maggio del 2013, Franca molto spesso “ha dovuto sopportare un’indubbia sottovalutazione: gli stessi critici impegnati in commenti agiografici su Dario, per molti anni si sono limitati a uno scarso: «Bellissima la Rame!»”, come sottolinea lo stesso Farrell nell’introduzione al testo.
Eppure Franca non è stata soltanto la moglie di quello che può essere, forse, considerato il più grande autore teatrale italiano del secondo novecento né è stata soltanto la sua migliore interprete femminile.
E’ stata qualcosa di più. Anche più di una musa. Tutta l’opera di Fo è stata infatti in gran parte trascritta, rivista, riletta e, molto spesso, ispirata da una donna che nel teatro era nata per tradizione famigliare e che nelle commedie e negli atti unici del premio nobel ha saputo infondere la passione e lo sguardo ironico che non le derivava dalla frequentazione delle Accademie, ma della vita stessa come lei sembra rivendicare in ogni passo dell’intervista.
Un’attività, quella teatrale, che non aveva neppure potuto scegliere poiché ad otto giorni dalla nascita si era già ritrovata tra le braccia della madre sul palco di una di quelle rappresentazioni, ancora così vicine allo spirito della Commedia dell’Arte, che la sua famiglia era solita recitare a braccio e ad improvvisare sul palco davanti al pubblico popolare delle campagne e delle città di provincia della pianura padana.
Un’abitudine che l’aveva plasmata come donna e come attrice, nella sua ricerca di un’arte e di una recitazione il più possibile vicina alla naturalezza e alla semplicità della gente comune e che l’avrebbe portata, dagli anni cinquanta agli anni settanta passando per il ’68 e la stagione delle grandi lotte operaie e studentesche, a sposare sempre più la causa degli sfruttati e dei proletari. Contro qualsiasi forma di oppressione e repressione.
Una scelta che l’avrebbe vista, da una parte, avvicinarsi per un lungo periodo, insieme a Dario, al Partito Comunista per poi allontanarsene quando a seguito delle critiche ai comportamenti dei dirigenti dello stesso partito il duo, in particolare per gli interventi di Franca, si vedrà sostanzialmente sabotato nelle iniziative teatrali portate in giro nelle stesse Case del Popolo per essere più vicini ai lavoratori e ai militanti di base.
“Arrivavamo lì e non c’era neanche un manifesto, la gente chiedeva:«Come mai da queste parti?»
«Come ‘come mai’? Abbiamo lo spettacolo stasera»
«Stasera? Ma no, vi sbagliate».
Trovavamo le nostre locandine buttate nei bagni. Fu allora che lasciai il PCI e resi la mia tessera stracciata” (pag. 118)
Ad ulteriore riprova, se mai l’attuale e definitiva deriva renziana ne avesse ancora bisogno, della tradizione di un partito che è riuscito costantemente ad allontanare da sé, quando non a criminalizzare letteralmente, proprio coloro i cui interessi e le cui aspirazioni avrebbe dovuto, almeno formalmente, saper rappresentare. Proprio come nel caso dei due artisti che fin dai tempi della Canzonissima televisiva, del 1962, interrotta dalla censura democristiana alla ottava puntata nonostante l’eccezionale seguito di pubblico, erano stati accusati di essere comunisti. Forse “troppo rossi”, come l’anguria di cui avevano parlato in uno dei loro sketch, anche per il PCI.
Ma accanto a questa scelta c’era sempre stata quella di stare vicina a coloro che non potevano pagarsi il biglietto per un teatro “borghese”. Da qui la svolta che li avrebbe portati a non calcare per un lungo periodo i palchi dei teatri istituzionali. Proprio a partire dal 1968. Con la creazione, prima, della cooperativa Nuova Scena e le sue recite nelle piazze d’Italia e nelle Case del popolo, poi, con la formazione del collettivo teatrale “La Comune” con sede al Capannone di via Colletta a Milano e, infine, con l’occupazione della Palazzina Liberty.
Scelta che ben presto l’avrebbe costretta a travalicare i limiti della rappresentazione teatrale e del “terzo atto” (il dibattito politico con il pubblico che seguiva ogni rappresentazione) per proiettarsi nella fondazione del Soccorso Rosso per sostenere gli arrestati e, spesso, le loro famiglie durante le lotte operaie ed antifasciste. Azione di soccorso che per Franca continuerà anche quando i detenuti non saranno più solo quelli “«gloriosi», vale a dire ragazzi delle manifestazioni antifasciste, oppure operai arrestati per l’occupazione di una fabbrica” (pag.63), ma anche quando si inizierà a parlare di terrorismo.
Perché anche se “Non condivido le tue scelte, non sono d’accordo politicamente, difenderò fino alla morte il tuo diritto a una carcerazione civile. La tortura non mi va bene, se sei cieco che ti tolgano gli occhiali non mi va bene, se ti picchiano non mi va bene” (pag.63). Questo la porterà a doversi confrontare con le critiche provenienti dall’interno della lotta armata e delle BR, ma anche a subire un rapimento il 9 marzo del 1973, durato poco meno di un’ora, in cui sarà vittima di torture e di uno stupro ad opera di fascisti milanesi in accordo con alcuni vertici dell’arma dei carabinieri.
Sono, probabilmente, vicende risapute, ma è sicuramente utile rileggerle nei ricordi di Franca. Nel suo continuo ricollegare la propria recitazione e le proprie opere, oppure quelle quasi “riscritte” di Dario Fo, alle esperienze vissute, anche attraverso la vita e le testimonianza degli altri. Dal proprio dramma rivissuto attraverso l’atto unico Lo stupro a quello raccontato in Una Madre che ricostruisce le vicende della madre del brigatista Umberto Farioli: “Una madre che viene perquisita in vagina e analmente prima di vedere il figlio attraverso il vetro, era una scena che parlava da sola” (pag.66).
E poi c’è l’opera costante di battitura, revisione e di editing delle opere del marito, in cui l’attrice/donna/moglie rifiuta nei fatti la condizione di moglie come “entità, fantasma o uovo sodo” (pag.91). Una sorta di femminismo, ma lei avrebbe quasi sicuramente cassato questo termine, vissuto contemporaneamente dall’alto (la donna “libera” artista e creatrice) e dal basso (la compagna di una figura maschile che sembra destinata ad offuscare sempre la sua immagine, anche senza volerlo).
Il testo è tutto pervaso di spunti, riflessioni e richiami, come lo è stata la vita della donna al centro della scena, il cui unico vero cruccio, forse, è stato quello portato in scena dal Ruzzante “uno dei più grandi drammaturghi del Rinascimento europeo, nato cinquant’anni prima di Shakespeare” (pag. 92): “Troppo in fretta mi sono invecchiato, non ho fatto in tempo a liberarmi della leggera imbecillità della giovinezza” (pag. 93).
Dove, in questo caso, la leggera imbecillità sta per l’entusiasmo con cui Franca Rame sembra aver vissuto ogni istante ed ogni passione, anche tra innumerevoli contraddizioni, fino al termine dei suoi giorni. Senza quella nostalgia, come sembra suggerire il titolo, che appartiene più a chi guarda al passato piuttosto che a coloro che si ostinano a guardare al futuro e alle sue infinite possibilità di ricambio culturale, sociale e politico.