di Daniele Picciuti
[Pubblichiamo il primo capitolo di Terraluna, il nuovo romanzo di Daniele Picciuti (Runa Editrice, Mestrino 2014, pp.242, € 14,00)]
Il ciccione dagli occhi a palla storce le labbra e soffia fuori un anello di fumo, mentre si rigira tra le mani il microchip, come se pensasse che potrei fregarlo. Mi chiedo come gli venga in mente, visto che al momento è la mia unica fonte di sussistenza.
«È integro» sussurro, con la voce bassa quanto basta per non farmi sentire dalla mandria di ubriaconi di questo scalcinato locale «e pulito».
Oleg annuisce ma leggo nel suo sguardo da merluzzo appena pescato, una diffidenza che mi dà sui nervi.
«E dai, che c’è che non va? Provalo, se non ti fidi».
Lo vedo frugare nelle tasche senza nemmeno rivolgermi uno sguardo, poi tira fuori un palmare che potrebbe fare da sottobicchiere al boccale che ho davanti, e lo accende.
Ho sete, butto giù l’ultimo sorso di questo intruglio che chiamano Iron Rhum, un cocktail di rhum e vodka che ha dentro qualche additivo segreto che ne fa una specialità qui nei bassifondi. Vengono persino dai satelliti orbitali ad assaggiare l’Iron Rhum dei sobborghi orientali di Terraluna. Secondo me non è poi questo granché, a meno che prima non si sia mandato giù uno spicchio di mela alla cannella.
«Aspetta» fa Oleg, infilando il microchip nel palmare e digitando sui tastini con le dita tozze ma dannatamente allenate. Poi annuisce, chiude il palmare e se lo rimette in tasca.
«Va bene».
Certo che va bene, ridicolo bastardo di un trafficante hi-tech!
Lascio perdere, tanto so come funziona con questa gente. È tutta una posa, un modo di fare che serve solo a metterti a disagio e a farti capire che dipendi interamente da loro, che sei una nullità, che non vivresti un giorno di più se loro non lo volessero.
«Sessanta» bofonchia subito dopo.
Sessanta Lune per un microchip appena sfornato dalla Micro&Macro Hi-Tech? Con quest’affare potrebbe azionare un intero luna park e comandarlo dal cesso di casa sua!
«Duecento» ribatto decisa «sai che li vale».
Oleg scuote la testa.
«Sì, ma scotta. È un pezzo nuovo di fabbrica. Per usarlo dovrò aspettare almeno che venga immesso sul mercato. Posso arrivare a ottanta».
Allungo la mano e la apro col palmo in su.
«Me lo riprendo, grazie».
Eccole, le goccioline di sudore sulla sua fronte larga, le stavo aspettando. Il signor Volkov sta facendo i suoi conti.
«Cento» mormora infine «Valery, più di questo non…»
«Centocinquanta o me ne vado».
Oleg mi squadra come se fossi un ologramma sfocato.
«Abbiamo bisogno di fondi» sorrido «lo sai».
«Maledetti fanatici!» biascica buttando giù l’ultimo sorso della sua bevanda, un intruglio dal colore giallastro del quale non ricordo il nome ma che non oserei mai bere.
Non bado alle sue parole. So cosa pensa la maggior parte della gente della Fondazione per la Tutela dei Diritti Alieni. Siamo una manica di idioti che hanno tempo da perdere, soldi da spendere e nessun rispetto per la razza umana. Poco importa se quel rispetto di cui loro parlano, l’uomo se l’è guadagnato schiavizzando gli alieni dalle intelligenze inferiori o abusando di quelli più evoluti, senza ritegno alcuno.
«Non sono affari tuoi» ribatto, sollecitandolo con un gesto della mano «e sto aspettando».
Oleg bofonchia qualche altra cosa, poi infila una mano nei calzoni e ne estrae una carta a impronte, un dischetto quadrato e trasparente nel quale è ben sigillato uno schermo azzurro, vi preme sopra il pollice della mano destra e il disco si accende come una lampadina. Sul display appare la scritta “accesso autorizzato”.
«Su quale conto?» fa lui, nascondendo la carta tra le mani in un modo così goffo che anche un cieco lo noterebbe.
«Quello a sei cifre. L’altro l’ho chiuso».
La faccia tonda e grassa si distende in un ghigno che trovo insopportabile.
«Tempi di magra, eh? Se ti interessa arrotondare ce ne andiamo su da me, nei miei uffici… ho una camera con un letto gravitazionale che…»
«Va’ al diavolo, Oleg».
Sorride, il bastardo. Pensa forse che basti qualche zero in più per riuscire a spogliarmi e scoparmi?
D’istinto lancio uno sguardo alla mia immagine riflessa sui vetri al di là dei quali c’è solo la strada buia. Capelli corti, la frangia più lunga su un lato che scende fino alle labbra, occhi brillanti, di un azzurro ghiaccio ereditato dall’incontro intimo con un dokiano, il fisico sportivo ma non certo prosperoso. Forse al borioso ciccione piacciono i modelli schermo piatto?
Lurido verme. Lo osservo mentre termina di digitare l’ordine per il bonifico sul mio conto, poi dà il fatidico invio e spegne il palmare.
I rumori del locale tornano a farsi vividi e il vociare degli avventori mi ricorda che non siamo soli in questo posto. Mi guardo intorno. Sembra che ognuno stia badando ai fatti propri, non scorgo occhiate nella nostra direzione e ciò mi solleva. L’ultima cosa che desidero è essere assalita in un vicolo da qualche idiota che pensi che Oleg mi abbia pagato in contanti.
«Bevi qualcosa?» chiede con un sorrisetto ammiccante che vorrebbe essere un invito “particolare”.
Mi alzo, rifilandogli un’occhiata malevola.
«No, grazie» rispondo secca, decisa a lasciare questa specie di porcile il prima possibile.
Mentre mi allontano, sento la sua voce sovrastare il brusio del locale
«Ci si vede in giro!»
Sì, certo. Se proprio non avrò scelta.
«Spero piuttosto di vederti morto» mi sfogo in un bisbiglio, quando ormai non può più sentirmi.
Una volta fuori, vengo investita da un freddo glaciale. Non c’è vento, non ce n’è mai su Terraluna, almeno non in città. Per sentire una brezza leggera bisogna spingersi fino ai confini esterni, dove sorgono le barriere elettromagnetiche. Per qualche strano scompenso atmosferico, in quella zona i venti sono forti. Al di là della barriera invece, nulla. C’è solo la Luna con la sua gravità zero.
Mi avvio verso la moto, che mi attende silenziosa, incatenata addosso a un palo. È uno scooter a cuscino magnetico, un modello un po’ antiquato, ma a me sta bene. Non ho grosse pretese. Le mie uniche ambizioni riguardano il futuro della nostra società… anzi no, della nostra dignità.
L’uomo ha attinto a tutte le risorse della Terra, l’ha prosciugata dei suoi tesori, della sua linfa vitale, estirpando foreste su foreste, tanto da aver ridotto la vecchia Europa e parte delle Americhe a giganteschi blocchi di pietra desolata, inabitabili a causa delle continue tempeste di sabbia e detriti che si abbattono sui continenti. Si sono salvati dalla devastazione quelli che un tempo erano chiamati Africa e Asia, oggi identificati con un unico nome: Solaria.
Col tempo però, gli effluvi venefici delle industrie farmaceutiche, uniche vere padrone della Terra, hanno contaminato anche Solaria e si prevede che, tra pochi decenni, le città-industria di prodotti farmaceutici saranno le uniche a essere ancora vivibili.
Salgo sulla moto e avvio il motore. La sella si alza sotto di me e lo scooter si solleva a venti centimetri da terra. Poi accelero e parto, diretta verso la sede della Fondazione. L’aria è pesante, gravata da strati e strati di smog, ma ormai non ci faccio più caso, anche se tra i miei amici ambientalisti c’è chi ucciderebbe per veder fallire almeno una delle trentasette fabbriche che sorgono nel sobborgo industriale.
Il cielo a quest’ora di sera è di un indaco che buca gli occhi e sfoca i contorni delle cose. A Terraluna sono poche le persone in grado di mantenere buona la vista per un periodo superiore ai vent’anni di età. Quasi tutti, tra i venti e trenta, sono costretti a impiantarsi delle retine artificiali in grado di resistere ai raggi ultravioletti che rimbalzano dall’esosfera artificiale fin quaggiù.
Le ore migliori sono quelle del mattino, anche se le strade si colorano di un giallo seppia che non ti fa distinguere i colori. Poi, dopo pranzo, la luce va smorzandosi e attraversa tutti i colori dell’iride, passando per l’ambra, lo smeraldino, il cremisi e l’indaco, fino a che non scende la notte.
Mentre la moto sfreccia nell’aria, mi accorgo che davanti a me la boa luminosa segnala il rosso. Rallento, mentre un treno articolato mi taglia la strada. È un serpentone lungo una ventina di metri e ha impresso su ogni vagone il simbolo della Brown Neo Pharma. Probabilmente trasporta merce di contrabbando, forse droghe o medicinali vietati dal Parlamento.
Mentre aspetto che scatti il verde, accade qualcosa. Sento un grido, provenire da un vicolo alle mie spalle. Non che sia una cosa fuori dal comune, ogni giorno si verificano stupri, rapine e aggressioni per i motivi più futili, ma quella voce… sembrava satura di puro terrore.
Non dovrei immischiarmi, ma l’urlo riecheggia ancora, più forte e più doloroso. Sembra il gemito dell’ultimo dinosauro prima dell’estinzione.
Giro la moto e i magneti fremono, facendomi schizzare avanti. Entro nel vicolo a razzo. Se c’è qualche bastardo con un’arma, dovrà prima assaggiare il mio paraurti.
La strada è dannatamente buia e si restringe sul fondo. Rallento nel timore di finire contro qualche ostacolo in ombra, come uno di quei cassonetti da appartamento, una bizzarra invenzione che permette a ogni abitazione di avere il proprio secchio dell’immondizia fuori dal palazzo, in levitazione davanti alla finestra.
Decelero ancora e, quando i miei occhi la vedono, inchiodo in aria, rimanendo a fissare i resti del cadavere con il cuore in gola. È una donna, la riconosco dai tacchi a spillo e da una gonna ridotta a uno straccio. Il resto è un guazzabuglio di carne dilaniata e sangue.
Odo un gorgoglio provenire dalla fine del vicolo. Qualcosa si muove, nascosto nell’ombra. Dirigo i fari della moto da quella parte e una sagoma scura schizza via, su per l’edificio, arrampicandosi come se avesse le ventose sulle mani.
Dovrei fare qualcosa, ma non riesco né a muovermi, né a gridare. Poi la figura scompare. Mi rendo conto che mi conviene filare. Se la polizia mi becca sul luogo di un massacro, si divertirà a ingabbiarmi ancor prima di avermi processato.
Già m’immagino la scena.
Signorina Valery Horn, lei è in arresto. Non ha diritti e se ne vuole qualcuno, deve chiamare il suo avvocato.
Giro il manubrio e accelero, poi schizzo via, rendendomi improvvisamente conto che, quando la notizia si spargerà, i benpensanti coglieranno la palla al balzo per incolpare qualche creatura aliena della strage e la Fondazione avrà nuovo pane per i suoi denti.