di Danilo Arona e Renzo Frosini
Stavo giusto tentando di mettere assieme qualche considerazione non traballante in merito a quel che sta succedendo in Iraq e altrove (e soprattutto in rete) con l’orribile strategia dei “messaggi” dell’ISIS e affini a base di decapitazioni mostrate al mondo via Internet. Un grumo di pensieri, ipotesi e concetti che sfiorano, va da sé, lo spostamento dell’asticella nella ridefinizione di quell’entità filosofica e antropologica che in filosofia e/o in letteratura chiamasi Male, con la maiuscola. Volevo già porvi mano l’anno scorso in settembre dopo l’assalto al Westgate Mall di Nairobi, ma qualcosa – forse le poche, mostruose foto diffuse nel web delle vittime falciate dai terroristi islamici mentre facevano spesa – me lo ha impedito. Un misto, non so quanto giustificato, di pudore e pure di vergogna perché è troppo facile speculare “in alto” di fronte a una settantina di cadaveri scempiati. Ho letto come tutti delle atrocità compiute sugli ostaggi: faccende irriferibili che non riporto e che sfidano l’immaginazione più sfrenata, andando inevitabilmente a riformulare l’idea del Male come inevitabile e incorreggibile imperfezione della natura umana che non può far altro che crescere entropicamente in quanto cancro invisibile e virale all’interno della così chiamata da molti “Tanatosfera” (e a questo proposito andatevi a leggere le ineludibili considerazioni di Veniero Scarselli sull’irriducibile ubiquità del “disordine molecolare” in www.literary.it).
Autocitandomi, tempo fa ho definito il Male come un’assordante e inquinante vibrazione energetica in perenne espansione – e le condizioni pessime del pianeta forse lo dimostrano –, un planetario e immenso Peter Quint di cui tutti subiamo la nequizia senza per questo essere istitutrici vittoriane sessualmente represse. Nel mio romanzo più faticoso e viscerale, L’estate di Montebuio, ho tentato di dar corpo a elucubrazioni personali vecchie di decenni sull’argomento. Citando un intimo amico, che è pure eccellente scrittore e che più di altri ha ben visitato le stanze di Montebuio, Daniele Bonfanti, “il Male non è un concetto, ma una realtà fisica. O meglio, il Male è ‘anche’ un concetto, ma un concetto – un simbolo, un’idea – che si fa vibrazione-sostanza. Come gli atomi di Democrito, come le particelle della Fisica dei Quanti. Attraverso la Coscienza e la Memoria… Perché le cose sono vibrazioni, così come i simboli, che nella Coscienza cosa sono, se non vibrazioni. E il Male muta, in continuazione (sposta, appunto, l’asticella). E soprattutto, il Male cresce, si espande, contagia.”
Bien (anzi, proprio no), tutto questo fino a poco fa. Perché ora le decapitazioni via rete vanno a porre altre inedite questioni. Alla rinfusa, l’invasività di un Male primordiale che ci giunge per un corridoio altamente tecnologico; uomini neri dall’Altrove che, come Freddy Krueger, sanno perfettamente come invadere l’inconscio e gli incubi dell’Occidente; la consapevolezza del contagio mediatico e virale dell’immagine maligna che produce “Ultracorpi” nei territori nemici. Tralascio, pur accennandone, un mio tormentone di cui al mondo poco dovrebbe fregare: qualche anno fa, attraverso la trance ispirativa, “vedevo” decapitazioni usate come “messaggi” e ammonimenti all’Occidente e ne scaturirono lavori come Tufanaltorab e Black Magic Woman. Oggi non “vedo” più niente e vorrei sul serio che si trattasse soltanto di una personale deficienza, diciamo, artistica. Insomma, materia da strutturare per La Luce Oscura. Ma ecco che un bruttissimo fatto di cronaca, accaduto in Roma (l’uomo decapita la colf ucraina), scombina il tavolo, facendomi capire che manca ancora un tassello. E, come spesso mi capita, qualcuno viene in mio soccorso. Ancora una volta l’amico Renzo Frosini da Viareggio (che ha già lavorato con me a questa rubrica) giunge a integrare sincronicamente una meditazione tanto monca quanto necessaria. Ecco il testo della sua mail:
Buongiorno Danilo.
Durante le ferie mi sono riletto la Cry Fly Trilogy di Gianfranco Nerozzi (oltre ad aver imbiancato la cucina…); ne è evidente il protagonista “oscuro”, quel male che si acquatta all’estremità sfilacciata della nostra percezione del reale, nella narrazione di Nerozzi una sorte di tenia che mi sembra rappresenti il serpente che nel nostro inconscio scimmiesco, quello delle pulsioni ataviche, apre la porta all’Abisso che è dentro di noi e che disconosciamo per sopravvivere.
Ecco, l’Abisso s’è aperto ancora una volta, per quel folle di nome Leonelli, in via Birmania a Roma.
Quelle villette così simili ai luoghi descritti da Nerozzi, giardini discreti nascosti da allori e rampicanti, arcate e colonne rusticheggianti d’ordinanza, garage abilmente occultati, cantine e seminterrati con pietre a vista testimoni dell’orrore più “Nero”.
Ci sono tanti posti così in Versilia; a volte t’immagini come sarebbe piacevole abitare una di quelle case, così borghesi, tanto spazio…
Ma se passeggi in quelle vie che, chissà perché, hanno una toponomastica che si ripete nello stile: nomi di nazioni, o di piante (forse, arrivati lì, l’assessore ha esaurito nomi più congrui) o di scrittori o eroi locali; se passeggi lì, dicevo, percepisci una solitudine straniante. Sono banale, ma qualcosa ti tiene d’occhio, ti aspetta, dietro persiane chiuse un po’ sghembe, intonaci corrosi, geometrie scalene di designer anni ’50 o ’60.
Il folle in mimetica, in quell’oasi, ha spalancato dentro di sé una bocca nera, atroce che l’ha divorato e risputato in frammenti melmosi, finalmente quella mosca che scivola via all’angolo dell’occhio e ti costringe al tentativo d’inseguirla ha invaso la sua coscienza, forse rivoltandone gli occhi a mostrare la sclera, come lo sguardo si facesse interno, come in un bell’horror di quelli che amiamo tanto.
Con l’ascia ha risolto l’irresolubile, il rapporto con il mondo sensibile, con il femminile.
La mimetica e l’acciaio, simboli che hanno aperto la via al Male che è dentro, nella nostra psiche antica. Chtulhu eternamente in attesa di congiungersi con il nostro io cosciente, di essere richiamato dal profondo, con gli altri Antichi, o dalle rovine ventose della “Città senza nome”.
Sto avventurandomi in qualcosa che comincia ad assomigliare ad un risvolto di copertina di un romanzo sul Graal e i monaci circassi… lascio perdere, ma mi hai capito.
Ciao, Danilo
Renzo