di Franco Ricciardiello
La prima notte, al mio ritorno a casa da un viaggio a Istanbul, ho sofferto un’allucinazione. Alzato dal letto a un’ora imprecisata, con l’intenzione di andare in cucina per un bicchiere d’acqua che estinguesse la sete dell’estate, mi sono ritrovato in un palazzo da Mille e una notte. Ambienti di sogno si sovrapponevano alle stanze familiari, una luce bianca e blu entrava attraverso misteriose vetrate a mosaico che sostituivano le finestre, i cui arabeschi elaborati con arte barocca stampavano sul pavimento ombre simili a merletti di sogno. Vedevo gradini di marmo dove non ce ne sono assolutamente; tessere di luce granata, turchese e giada componevano disegni astratti sui muri, che mi sembravano ricoperti di preziose maioliche bianche e blu come quelle che decorano le pareti della moschea di Rustem Paşa, in riva al Corno d’Oro. Disorientato, non riuscivo più a ricordare se la cucina fosse a sinistra o a destra; dovetti seguire alla cieca, al semplice tatto, la testiera del letto che mi sembrava un fantastico baldacchino. Nulla poteva rimanere nascosto alla luce che penetrava dall’esterno a fiotti precisi, come se le pareti dell’appartamento consistessero unicamente di alte vetrate. Tentavo di scendere scalini che non esistono. Tornai indietro quando mi ritrovai davanti alla porta del bagno, nella direzione opposta alla cucina. Ebbi modo di osservare i disegni sulle piastrelle di ceramica, che sembravano composti dall’unione di una serie infinita di microscopici punti blu disposti a formare arabeschi, petali di fiori, piante di sogno, uccelli congelati in volo, motivi floreali, cristalli di neve.
Ero ancora sotto la suggestione della magia di Istanbul. Ero decollato il mattino di quello stesso giorno dall’aeroporto Sabiha Gokçen, lasciandomi alle spalle la confusione levantina dei bazar, l’immensa area del commercio tra Eminönü e Sultanahmet, una città intera dedicata allo scambio di merci, le moschee incastrate nei vicoli dove il passaggio è ostruito dalle mercanzie, come gioielli dimenticati nella polvere. Tra i piani alti delle case, lunghi teli di tessuto colorato fanno ombra nella via. Un piccolo negozio di utensili di metallo, bollitori a pressione, ventilatori di alluminio, attrezzi da cucina, teiere di rame battuto in coppia, una sopra l’altra, in modo che il calore della maggiore conservi la temperatura della minore; nel negozio di fronte, lampade di vetro colorato; accanto a una porticina anonima aperta su una scala di cemento è l’ingresso dei bagni pubblici: bay, uomini, e bayan, donne, ma sull’arco c’è un’altra parola, cami, moschea. In cima alle scale, un porticato si affaccia sulle tende la sole dei venditori, e attraverso una porta laterale si accede a un altro mondo, fresco e silenzioso, orizzontale per la lunghezza degli spessi tappeti dal disegno geometrico, verticale per la prospettiva ariosa della cupola. Dalla volta discendono le sottili linee rette di cavi d’acciaio che sostengono poco sopra le teste dei fedeli i tannur, i grandi lampadari circolari dalle luci flebili. La voce registrata che sostituisce il canto del müezzin chiama alla preghiera non in turco ma in arabo, Allāhu Akbar, cinque volte al giorno. Ašhadu an lā ilāh illā Allāh, non c’è altro dio all’infuori di Dio.
Sono arrivato attraverso il Bosforo in traghetto, da Kadiköy al terminal di Eminönü, a pochissima distanza dai pescatori che friggono il pesce. Code di gente con una banconota spiegazzata in fila davanti alle barche con cucina; se trovano posto siedono ai tavolini di plastica straordinariamente bassi per consumare il panino con il pesce impanato, avvolto in carta oleata. Ašhadu anna Muhammadan Rasūl Allāh, Maometto è l’inviato di Dio. Nelle vie che scendono più o meno dritte dal Gran Bazar alla riva di Haliç, il Corno d’oro, è impossibile camminare nelle ore di punta. Sembra che tutte le merci del mondo siano ammucchiate nel labirinto di vecchie strade irregolari che si arrampicano su questa penisola triangolare attraverso cui la storia è passata a stratificazioni di secoli: abbigliamento, tessuti, metallo lavorato a mano, meccanica di precisione, frutta e verdura, ristorazione rapida, attrezzi da cucina, oggetti di legno, orologi made in china, vetro soffiato, elettronica, si può trovare di tutto in questo paese che è diventato la manifattura dell’Europa.
Hayya ‘alā al-salāt, Hayya ‘alā l-falāh. Davanti a Haya Sofia c’è ancora un frammento del milion, la stele che Costantino fece erigere come miliario aureo di riferimento per misurare tutte le distanze lungo le vie dell’Impero. Allāhu Akbar, lā ilāh illā Allāh, Dio è grande, non c’è altro dio all’infuori di Dio.
I turchi alle ultime amministrative hanno votato per il partito di governo, per Erdoğan, ma la città è spaccata fra tradizione e modernità. Salgo con la teleferica sotterranea fino a piazza Taksim, qui nella città nuova è l’epicentro dell’opposizione di strada all’autoritarismo del premier. Dalla piazza e fino alla torre di Galata corre la lunga via Istiklal, fiancheggiata da negozi di grandi marche e piegata più volte a angolo. Istanbul si regge in equilibrio fra la tradizione laica repubblicana e tentazioni di regolare la vita secondo precetti religiosi. Erdoğan ha mostrato i muscoli contro gli studenti, la polizia ha sparato i lacrimogeni e gli idranti, ha bruciato le barricate; gli elettori hanno apprezzato. Dalla torre si scende verso la riva del Bosforo tra negozi di strumenti musicali, idraulica, meccanica artigianale, oggetti di plastica stampata. Sotto il ponte gettato attraverso il Corno d’oro c’è una sequenza ininterrotta di ristoranti all’aperto che offrono menu di pesce, i camerieri guardano l’acqua con nostalgia mentre aspettano clienti.
Divisa in tre parti separate, Istanbul è una città unica: metà in Asia e metà in Europa, e quest’ultima ancora sezionata in due dal Corno d’oro. Bisanzio, Costantinopoli, Eis-ten-Polin, Istanbul. La seconda Roma, la Sublime Porta, Dersaade, la Città della Pace. La sera davanti alla Yeni Camii, la moschea nuova, i bambini di strada corrono i vicoli bui che di giorno sono occupati dal mercato, vestono stracci di taglie troppo grandi e chiedono monetine ai passanti. Il perimetro del grande quadrato del bazar delle spezie è circondato da bancarelle di abbigliamento, si trovano famosi brand internazionali; non sono contraffatti nel senso proprio del termine, sono originali made in turkey venduti in un mercato parallelo dove costano il 10% dell’originale, il resto è il costo del logo e il profitto della multinazionale. Il cortile ombreggiato del vakf a fianco della Küçük Aya Sofya è circondato da un antico portico sotto il quale gli artigiani vendono direttamente ai visitatori, miniature manufatte, vecchie cartoline, monili di metallo. Il nome degli artigiani è scritto sulle porte di legno. Si può ordinare un tè forte che ha il colore del rame nei tipici bicchierini di vetro senza decorazione, a forma di anfora, seduti nelle poltroncine di damasco polveroso davanti ai tavolini di noce. Il nostro albergo è in un quartiere di antiche case di legno deformate dagli agenti atmosferici, a più piani, sbilenche, le assi scolorite in un grigio malsano. Molte sono ristrutturate, verniciate a colori pastello e trasformate in sale da tè ottomane, ristoranti esclusivi, gallerie di artigiani gioiellieri, sparpagliate lungo vicoli in salita sotto il muro della moschea di Solimano, dove la gramigna ricopre cumuli di materiali da costruzione, ghiaia, pietra, mattoni spezzati.
Di sera l’aria fresca sale dal mare lungo le vie fiancheggiate di negozi. L’immenso bazar con le gallerie di gioiellieri dal tetto a volta di mattone e le fontane di marmo chiude dopo la preghiera del pomeriggio, ma la gente passeggia ancora davanti alle vetrine delle pasticcerie, dove piramidi di lukum scintillano di zucchero a velo sotto le luci artificiali: cubetti di pistacchio, fichi, cioccolato, mandorle, petali di rosa, prugne, mandarino, vaniglia da depositare con due dita sulla lingua prima del caffè. I camerieri sgusciano tra la folla del bazar, portano bicchieri di tè con una zolletta bianca in bilico su vassoi a bilanciere, il manico di metallo sottile a silhouette di pera.
Mi riaddormento stordito dalla magia, al risveglio il mattino dopo è tutto finito. Svaniti gli arabeschi d’ombra, i fiori d’oleandro, la musica ipnotica, il fumo azzurro delle braci, i veli ricamati, i gatti sulla soglia di casa, le auto ferme agli incroci, i passeggeri che osservano dai finestrini del tram, le case di legno annerite dal fumo. Mi alzo, metto su un caffè. Ascolto un cd di Sertab Erener, chiudo gli occhi. Come un sogno stracciato, il ricordo di Istanbul evapora lentamente alla luce del giorno.