di Franco Pezzini
Duecento anni fa, il 28 agosto 1814, nasceva a Dublino uno dei più grandi narratori del fantastico moderno – e non solo, considerando il livello delle sue prove in altri generi letterari. Joseph Thomas Sheridan Le Fanu, figlio di un ecclesiastico, il decano Thomas Philip Le Fanu, e della signora Emma Lucretia Dobbin, sarà, com’è noto, l’autore di Carmilla, 1871/1872 (il che rende ovvio ricordarlo su questo sito) e di altri titoli celeberrimi come il mystery-thriller Uncle Silas, 1864, ma anche di una vasta produzione che sarebbe scorretto definire a priori “minore”, e i cui confini non sono a oggi completamente mappati. In particolare testi pubblicati anonimi su riviste: solo in tempi recenti, per esempio, è stato ascritto al canone lefanuiano Spalatro, presentato senza nome d’autore nel 1843 sul ‘Dublin University Magazine’, e dove la presenza di una bella succhiasangue non-morta sembra prefigurare di lontano la più tarda contessina vampira. Un’edizione italiana si imporrebbe.
Tra le ultime fatiche del Nostro che, logoro di ansie e dolori, morirà (sempre a Dublino) solo cinquattottenne per un attacco cardiaco seguito a una brutta bronchite il 7 febbraio 1873, figura l’elegante ricucitura di alcune delle sue storie migliori in un’antologia dal titolo biblico, In a Glass Darkly – a far trascolorare la suggestione paolina su una nostra visione imperfetta della realtà (1 Corinzi 13,12, versione di Re Giacomo: “For now we see through a glass, darkly”) verso dimensioni più sottilmente inquietanti. In a Glass Darkly, edito a Londra nel 1872 da Richard Bentley & Son in tre volumi, raccoglie cinque opere eccellenti, emblematiche delle fantasie dello scrittore: Green Tea, The Familiar, Mr. Justice Harbottle, The Room in the Dragon Volant e appunto Carmilla (una traduzione sequenziale dell’intera raccolta in Italia è recente, Un oscuro scrutare. In a Glass Darkly, curata da Luca Manini e Fabrizio Ferretti per Miraviglia, Reggio Emilia 2011). Per questo carattere di ricapitolazione ideale di tutto un percorso autorale ma in qualche modo anche umano, piace ricordare Le Fanu proprio da tale punto di osservazione: e più precisamente da Green Tea, il racconto lungo che, diciamo così, offre il motore all’intera raccolta.
Le Fanu è tradizionalmente riconosciuto come l’inventore di una figura-tipo dallo straordinario successo postmoderno, fino a Dylan Dog, X-Files e oltre, cioè il detective “dell’occulto” in senso seriale – sia pure attingendo a modelli ben più risalenti, a partire idealmente dal personaggio tardoantico del filosofo-mago Apollonio di Tiana, attraverso tutta una trasformazione narrativa dalla biografia di Filostrato al Lamia di Keats. Per certi versi, come vedremo, l’“eroe” di Le Fanu, “the German Physician” Martin Hesselius, appare anzi provocatoriamente ben più moderno di tanti celebrati epigoni. Psicologo, metafisico e mistico, Hesselius è appunto la figura-cornice dei testi di In a Glass Darkly, presuntamente tratti dal suo enorme archivio attraverso l’ulteriore mediazione di un segretario-curatore: un sistema a più voci che permette all’Autore una presa di distanza dalle vicende narrate e dal modo di raccontarle, immergendole in una fondamentale ambiguità.
Ma oltre che figura-cornice, Hesselius è anche direttamente in azione in Green Tea, unico caso in tutta la raccolta: e in effetti il personaggio nasce con questo testo, 1869, che inizialmente Dickens fa pubblicare nella propria rivista ‘All the Year Round’. Affascinato da quelle che considera evidenti competenze di Le Fanu in campo metafisico, il mattatore della letteratura britannica si premura anzi di metterlo in contatto con l’amica Madame de la Rue, tormentata per anni da presunte insorgenze spettrali. Qualunque aiuto Le Fanu possa fornire alla brava signora, l’episodio – è lecito pensare – può contribuire a suggerirgli la struttura-cornice per la successiva raccolta.
Un ritratto di Hesselius ci è offerto dal prologo dell’amico-curatore, evidentemente inglese, per quasi vent’anni al suo fianco. Come lui medico, ed entusiasta della professione, “errava senza tregua da un luogo all’altro per suo volere, e sebbene non possedesse un patrimonio, nel senso almeno che diamo a questa parola in Inghilterra, era in ogni caso quella che i nostri avi definivano una persona «facoltosa». Quando l’incontrai la prima volta era già vecchio, contando un trentacinque anni più di me. […] Persona dallo sconfinato sapere, era in grado di intuire ogni caso con ineffabile colpo d’occhio. Era l’uomo adatto ad ispirare reverenza ed entusiasmo in un giovane come me, e la mia ammirazione nei suoi confronti ha superato la prova del tempo ed è sopravvissuta al gelido distacco della morte: segno che era ben riposta, senza alcun dubbio” (Joseph Sheridan Le Fanu, Tè verde,trad. di Attilio Brilli nella storica edizione Tè verde. Storie di fantasmi indiscreti, Serra e Riva, Imola 1981). Sulla frase finale il lettore sarà invitato a riflettere.
Una narrazione autografa del dottore sul caso Green Tea è reperita dal devoto curatore “fra un bailamme di appunti sui casi da lui registrati sessantaquattro anni fa, durante un viaggio in Inghilterra”, all’interno della corrispondenza con un tale professor Van Loo di Leida, non medico ma chimico e cultore di metafisica. Un “memorandum attached” riporta poi che tali lettere – redatte in lingue diverse “some in English, some in French, but the greater part in German” – sono state restituite a Hesselius alla morte di Van Loo nel 1819: a richiamare virtualmente una narrazione epistolare che solo l’adattamento del curatore “confeziona” in racconto. Dove l’apparente realismo e la pignola univocità dei singoli dati offerti si confronta con un tessuto narrativo fitto di allusioni, dati impliciti o solo possibili: uno stile che – lo ritroviamo anche in Carmilla – finisce con lo sperdere il lettore in una straniata deriva. Crediamo di saper tutto, e scopriamo via via quanto il testo ci sfugga.
Vediamo dunque cosa riferisce Hesselius: e il racconto della storia – attenzione, contiene spoiler – funge da invito (sommariamente) commentato a una lettura di straordinaria godibilità.
A casa dell’amica Lady Mary Heyduke, il Nostro incontra un certo reverendo Jennings (i nomi, ha avvertito il curatore, sono in parte alterati), e nota il suo “modo inconfondibile di guardare in tralice, come se stesse seguendo con la coda dell’occhio qualcosa lungo la bordatura del tappeto”: un atteggiamento oggetto di attenta disamina da parte del filosofo medico Hesselius, e occasione per una successiva, sintetica esposizione delle sue convinzioni di fondo – quelle, in particolare, circa il rapporto tra realtà naturale e mondo spirituale che essa esprimerebbe e dal quale trarrebbe vita. Complice uno dei più visionari sistemi metafisici della prima età moderna, quello del mistico svedese Emanuel Swedenborg (1688-1772), il gioco di fusioni e confusioni tra le sfere del corpo e dello pneuma provoca tutte le tradizionali categorie della ghost story, sparigliando con abilità oggettive inquietudini e colta ironia.
Ma Hesselius osserva anche che l’interesse è reciproco, e presto i due gentiluomini iniziano a dialogare. Jennings ha letto certi suoi Saggi di medicina metafisica, “i quali alludono a molto più di quanto dicano esplicitamente” (ecco l’allusione, cifra caratteristica della letteratura ermetica, ma qui giocata in un’elegante altalena di suggestione e ambiguità); e per quest’opera scritta in tedesco ma non tradotta in inglese, data alle stampe forse una dozzina d’anni prima ma ormai esaurita presso l’editore (dunque il paradigma del libro sfuggente, richiuso nell’alienità linguistica – la lingua, in particolare, di mistici ed esoteristi – e ormai perduto) il reverendo sembra tradire un interesse personalissimo e imbarazzato. In parallelo però a quanto l’attento osservatore Hesselius (è ancora l’occhio diagnostico dell’antico Apollonio) nota del reverendo, i toni sfumati e urbani di un confronto da salotto ci svelano anche qualcosa sul narratore: il compiacimento un po’ vanitoso sulla propria statura autorale, la sicumera circa il controllo della conversazione, una certa sufficienza o ironico distacco sui sentimenti “ingenui” dell’interlocutore (quando assimila l’imbarazzo di Jennings “a quello che fa arrossire una ragazza conferendole quella cert’aria un po’ amente”). E sulla stessa linea è il compiaciuto, spettacolare saggio di deduzioni che, alla partenza del reverendo e a proposito di lui, Hesselius offre a Lady Mary, già prefigurando le simili prove di un altro grande vanitoso, Sherlock Holmes – persino nell’autoassimilazione scherzosa a uno stregone, che Watson riecheggerà sulla figura dell’amico.
Più avanti il Dottore fa visita al reverendo, e nella biblioteca di lui si imbatte in volumi del venerato Swedenborg stranamente glossati dal proprietario; allora, racconta Hesselius, “messo sull’avviso dal tenore privato” delle annotazioni (che iniziano con “«Deus misereatur mei»”), ne distoglie pudicamente lo sguardo. Se il riserbo ostentato su note tanto personali è ovviamente quello che possiamo aspettarci da un gentiluomo, l’episodio è funzionale a introdurre alcuni stralci del mondo visionario del mistico svedese, fatto di richiami alla vista interiore, agli spiriti maligni e alle loro opere, preparando il terreno alle terribili rivelazioni che Jennings più avanti dispenserà. Ma insieme, ancora una volta, il testo può suggerire qualcosa su Hesselius, che implicitamente rimarca la propria impossibilità di intervenire in assenza di dirette, complete e tempestive confidenze del paziente – una sorta insomma di prima e implicita excusatio dell’illustre Dottore per quel che accadrà poi.
Comunque Hesselius non intende accreditarsi quale freddo analista. Jennings ha accennato in termini vaghi alla propria ipocondria (deprecando il luminare materialista Harley, il cui consulto è stato inutile) e a “crisi” per cui potrebbe, in futuro, dover cercare il soccorso del Nostro: e questi gli promette aiuto e discrezione. “Ci separammo in apparente serenità, ma sereno non lo era affatto ed io nemmeno. Ci sono alcune sfumature espressive di quello straordinario organo dello spirito, il volto umano, che hanno il potere di turbarmi dentro, sebbene ci sia ormai abituato e abbia contratto il severo distacco del medico. Lo sguardo sgomento del signor Jennings mi perseguitava. S’era insinuato nella mia immaginazione come un tossico, tanto che mutai i progetti della serata e preferii recarmi all’opera perché avevo bisogno di un diversivo”. E notiamo l’evocazione quasi subliminale del tema del tossico che tornerà più avanti in questo testo, ma anche in un’altra opera della raccolta, il grande mystery (non sovrannaturalistico) The Room in the Dragon Volant su seppellimenti prematuri e droghe arcane – altro fronte su cui Hesselius risulterà un esperto.
Però soprattutto, erede dell’antico Apollonio, il Dottore psichico si propone come nuovo modello di confessore laico, che offre fiducia e insieme spiazza per le sue peculiarità, disseziona i fatti con esasperata freddezza tecnicista ma ostenta emozioni e turbamenti grandiosi, gigioneggia in prove di bravura e si concede derive bizzarre, ai limiti del grottesco: il frutto di un gotico in via di profondo rinnovamento, in rapporto curioso coi miti della scienza e con le progressive maree degli irrazionalismi magici. Già si prefigurano le bizzarrie caratteriali del Van Helsing stokeriano, e di parecchi detective del sovrannaturale che incontreremo via via in letteratura, cinema, fumetti; ma anche le peculiarità dei loro colleghi “ordinari”, i grandi indagatori del crimine, capaci di attrarre le confidenze dei sofferenti (i clienti / pazienti) con un’affidabilità quasi sovrannaturale, forti della freddezza del raziocinio ma insieme spersi in fisime, hobby strani e pratiche compulsive. E tuttavia Le Fanu, come vedremo, spinge il gioco ben oltre quelle oggi consideriamo convenzioni di genere.
Dopo un apparente miglioramento, le condizioni di Jennings tornano a precipitare, e il reverendo convoca Hesselius nella cornice malinconica della sua casa tra i boschi di Richmond, promettendo una completa confessione dei propri turbamenti. L’arrivo di Hesselius alla “vetusta dimora” prefigura idealmente infiniti altri approdi del medico pneumatico sui luoghi dell’incubo, un topos sull’attesa e la tensione in vista del confronto col male (resta famosa l’immagine poi utilizzata per la locandina di The Exorcist, con la sagoma scura del sacerdote stagliata contro la luce livida dalla casa della possessione). E in effetti Jennings inizia ad aprirsi.
Quattro anni prima, libero da preoccupazioni, aveva posto mano a un’opera sulla metafisica religiosa degli antichi, un tema fascinoso ma insieme per nulla “benefico per la mente… la mente cristiana, voglio dire”; e per poter scrivere con impegno, soprattutto a notte fonda, aveva preso l’abitudine di consumare come stimolante forti quantità di tè verde. “Scrissi pagine su pagine, proprio qui, in questa stanza, nel tempio della quiete. Restavo alzato fino a tarda ora contraendo l’abitudine di sorseggiare il mio tè – il tè verde – nel prosieguo del lavoro. Tenevo sullo scrittoio una cuccuma poggiata su un lume da notte e facevo il tè tre o quattro volte fra le undici e le tre del mattino, l’ora in cui andavo a coricarmi”.
Può essere interessante considerare come ciò corrispondesse alle abitudini dello stesso Le Fanu: “Il suo metodo di lavoro era alquanto particolare. Egli usava scrivere soprattutto di notte, a letto, adoperando dei grandi quaderni rilegati. Vi erano sempre due candele sul comodino: una di queste veniva lasciata accesa mentre egli si concedeva un breve sonno. Risvegliatosi verso le due del mattino si preparava del tè molto forte – ne beveva tantissimo – poi scriveva ancora un’ora o due, in quel periodo strano della notte in cui la vitalità umana viene meno e in cui si dice che le potenze occulte abbiano il sopravvento. Non c’è da stupirsi, con il cervello così costantemente attivo, giorno e notte, a creare cose sempre terribili e misteriose, se Le Fanu fu tormentato da sogni orrendi”, attesta il figlio minore dello scrittore, nei ricordi raccolti e pubblicati nel 1916 da S.M. Ellis (trad. Malcolm Skey). Tra questi, per inciso, l’incubo ricorrente negli anni di trovarsi bloccato davanti a un antico palazzo che minacciava di crollargli addosso – qualcosa di cui aveva parlato certamente al medico, se costui, quando lo scrittore si spense nel sonno, si lasciò sfuggire: “Alla fine, la casa è caduta”.
Un giorno il reverendo era andato a consultare i testi di un conoscente, “certi volumi antichi, inconsueti, edizioni tedesche di testi di latino medievale”, messigli “a disposizione […] in una zona fuori di mano, nella City”. Green Tea, abbiamo già visto, è fitto di libri sfuggenti perché rari, destinati a pochi o magari irraggiungibili, ciò che agevola il gioco di oblique allusioni e rimanda a un terreno equivoco che solo il Dottore psichico può affrontare senza rischi; ma insieme risponde a un’oggettiva fascinazione dell’Autore per un certo tipo di ricerche bibliografiche. Ancora il figlio, riguardo allo scrittore nel periodo di Green Tea rammenta: “In quegli ultimi anni della sua vita usciva solo di rado dalla clausura, sempre di sera e col buio, per recarsi negli uffici della sua rivista oppure nella bottega di qualche libraio antiquario alla ricerca di opere sulla demonologia o sui fantasmi”.
Certo, questi racconti su The Invisible Prince – come Le Fanu veniva chiamato negli ultimi anni di volontaria reclusione – tendono a enfatizzare la dimensione pittoresca: sugli scrittori del fantastico c’è tutto un fiorire di storie bizzarre, a volte diffuse proprio dai familiari quasi a cercare di armonizzare l’uomo e le sue fantasie, a dare un senso a ciò che altrimenti apparirebbe gratuito. Come si è tentati di collegare l’orizzonte di angosce di Jennings con quelle che per esempio attanagliarono la vita coniugale di Le Fanu: la vicenda di Susanna, la sua giovane moglie malata di nervi, turbata da crisi di fede – ne parlava col cognato, visto che il marito sembrava aver smesso di frequentare i service religiosi – e morta in circostanze non chiare nell’aprile 1858 il giorno dopo un “hysterical attack”, lasciandogli addosso dolore e sensi di colpa. Resta come al solito, a voler uscire dalle forzature banalizzanti, lo scarto complesso di quella stanza di compensazione che è la vita, per cui autore e opera non si travasano mai reciprocamente in modo meccanico: anche se è legittimo ravvisare in questa raccolta dell’ultima stagione, al di là del libero piacere della scrittura e di un’ironia provocatoria di cui si dirà, una genuina dimensione di conoscenza del disagio psichico e del dolore metafisico. Tanto più che Le Fanu, a dispetto delle stramberie descritte, non era affatto un personaggio sinistro. Quando, un paio di giorni dopo la sua morte, la figlia Emma Lucretia si trovò a scrivere “mi dà conforto pensare che è in Cielo, perché nessuno poteva essere migliore di quel che lui è stato. È vissuto solo per noi, e la sua vita è stata tanto travagliata”, non è un semplice tributo al caro estinto di turno, ma l’effettiva fotografia di un uomo buono, affettuosissimo e capace di lasciare serenità agli altri. Riprendiamo però ad ascoltare Jennings.
È ormai tardi, quando torna a casa con l’omnibus. Ed è lì che accade qualcosa: perché nella vettura ormai vuota il reverendo vede comparire una misteriosa scimmia. Un animale tuttavia che il suo ombrello attraversa “da parte a parte, avanti e indietro, senza incontrare la minima resistenza”: e quando, inorridito, scende dal veicolo cercando di guadagnare la via di casa, la grottesca figura inizia a seguirlo. Nel suo tremebondo cercare di convincersi che si tratta di una semplice e patologica allucinazione, del mero “sintomo di una dispepsia nervosa”, Jennings non può ovviamente rendersi conto di stare varando una nuova era del fantastico. Un’era in cui i fantasmi prendono a comparire in tram (plausibilmente questo è il primo caso registrato); e un’era soprattutto in cui i reverendi, di fronte al Nemico dello spirito, non pensano più all’invasione demoniaca (il diavolo scimmia di Dio di secoli di predicazione) e non sono più attrezzati a farvi fronte con esorcismi – ma tentano solo blande terapie salutiste, si consumano nell’orrore e invocano Dio un po’ in ultima istanza, con una debolezza che sconfina nella poca convinzione. Quella notte, di fronte alla scimmia che lo fissa, Jennings si astiene dal tè verde limitandosi a un brandy allungato con acqua…
Per tutta una prima fase, racconta il reverendo, l’ossessione si era sostanziata nella presenza costante della scimmia a fissarlo, con una sorta di languore maligno; quindi la bestia era scomparsa per qualche tempo per poi tornare, con cocente delusione e orrore del poveretto, come dotata di nuova energia e maggiore irrequietezza. Tra nuove sparizioni della scimmia – assente anche nel momento di quella confessione a Hesselius – e infruttuosi tentativi di cura presso un famoso medico, Jennings tenta di occuparsi del proprio ministero: ma ora l’apparizione prende a ostacolarlo direttamente “in chiesa… sul leggìo… sul pulpito… nel recinto dei comunicandi”, giungendo ad accoccolarsi sulla Bibbia per impedirgli di proseguire la lettura ai fedeli. Dove lo scarto tra l’ossessione descritta e infinite altre dell’agiografia non sta neppure tanto nelle forme di manifestazione, quanto nello spiazzamento epocale della vittima innanzi al fenomeno – alla deriva di ogni categoria nota, fisica o spirituale, del povero reverendo. A un certo punto la bestia comincia anzi a impedirgli di pregare; e in una fase successiva prende a parlargli – “come se […] cantasse dentro nel cervello” – incitandolo a commettere delitti e persino a uccidersi.
Si noti che quest’impazzare dell’Ombra non emerge solo in Green Tea, e anzi connota gran parte della raccolta In a Glass Darkly: un orizzonte livido su cui il dottore psichico repertoria, discetta, fornisce spiegazioni, ma che in realtà fotografa anzitutto un senso di smarrimento. Nei racconti del primo “collezionista” di storie bizzarre creato da Le Fanu, il buon Father Purcell (1838-1840, pubblicati sul ‘Dublin University Magazine’ e raccolti postumi in The Purcell Papers, 1880), anche nei più inquietanti, la chiave era in fondo quella del sovrannaturale “classico”, spettri e demoni del folklore irlandese, le cui regole del gioco sono più o meno note. Al contrario i testi di In a Glass Darkly registrano anzitutto una crisi di comprensione. Gli uomini colpiti sono persone di mondo, magari colte, che hanno ben chiara l’ipotesi dell’allucinazione: materialisti scettici e navigati, religiosi eruditi, persone di volta in volta e quasi indifferentemente benevole o malvagie. A cercare un carattere che accomuni profili tanti diversi, si potrebbe pensare a quella sorta di superficialità che fa sorridere delle antiche paure, senza però coglierne le ragioni profonde, l’Ombra e il Male; alla perdita di categorie “sicure” senza una qualche rielaborazione personale; all’assenza di nomi da dare alle colpe e ai sogni, come di un senso di profondità interiore. In un’altra storia di persecuzioni spettrali della raccolta, The Familiar, la vittima è un ufficiale, il capitano Barton, che a un certo punto chiede aiuto a un “allora famoso predicatore” – l’ennesimo teologo salutista, la cui placida incomprensione delle profondità del male è in fondo solo l’altra faccia della fragilità del collega Jennings. Le pagine del suo dialogo con l’angosciato Barton (di formazione laicista, ma in ultimo pronto a sperare “che per mezzo di qualche altra forza spirituale più potente di quella che mi tortura, quest’ultima possa essere combattuta ed io finalmente liberato”) sono anzi, nel loro gioco di grottesco e amaro, tra le più terribili del racconto. Alle confidenze del sofferente, il teologo non sa recare che qualche osservazione di buon senso, un paio di rimedi come la dieta e il moto, qualche rampogna per l’abbandono agli “impulsi dell’immaginazione” e la generica promessa di preghiere – tanto che “Si separarono con un frettoloso commiato, pervaso di malinconia”, poi il teologo “ritornò nella sua camera, a rimuginare con agio sul singolare colloquio che aveva poco prima interrotto i suoi studi”. Nella critica feroce alla religione di buon senso dei suoi tempi, l’ugonotto Le Fanu sta ricordando qualcosa dei drammi della moglie, delle angosce da lei rovesciate tra i banchi della St. Stephen’s Church vicino a casa, delle ombre stesse che forse non era riuscito a condividere con lei? Non possiamo saperlo, ma l’ipotesi colpisce.
In ogni caso, come a specchio oscuro di questa inadeguatezza del mondo ad aiutare le vittime, riverbera la spudorata disinvoltura degli spettri, la loro incomprensibilità: donde l’orrore indicibile e tutto moderno di Jennings per l’incongruità della persecuzione subita, il rapporto sghembo tra causa ed effetto, il collasso tra dimensioni della realtà (fede, salute, ruolo sociale e ministeriale) e relativi punti fermi. Come ricorda Malcolm Skey parlando della ghost story, “Oltre alle sue elaborazioni di modelli classici e popolari, il contributo più importante di Le Fanu a questo genere così sfuggente è l’aver saputo creare una serie di fenomeni studiatamente ambigui, che affiorano lenti ma inesorabili come grumi venuti su dal nulla nel liquido torbido della psiche, per poi assumere una forma autonoma” (Presentazione a Joseph Sheridan Le Fanu, L’inseguitore, Theoria, Roma-Napoli 1988). E che in altri casi della raccolta vedremo strabordare persino dall’orizzonte psichico dell’interessato, coinvolgendo illusionisticamente le capacità sensorie dei suoi stessi vicini o parenti – fino al caso-limite di Carmilla, il riflesso che si fa carne amante e vampiresca.
Il fatto è che Le Fanu, come nota Guido Almansi (nella Prefazione alla citata edizione di Tè verde), “scrive tutte le sue storie sul filo del rasoio fra la buona e la mala fede, in quanto è troppo furbo per credere agli esseri soprannaturali, troppo intelligente per non credervi […]. Gli spiriti evocati da Le Fanu vengono da un «oltre» che possiamo continuare a chiamare «oltretomba» per ignavia o per incompetenza nomenclatoria. […] Le sue storie sono incredibili solo per colui che rifiuta di credere sia nel trascendente della legge che nell’immanente della coscienza: furono quindi incredibili per i miopi positivisti ottocenteschi, contemporanei di Sheridan Le Fanu, che relegarono i suoi racconti nella sottospecie del gotico (in cui poi si ritrovano in ottima compagnia con il Dottor Jekyll e Mr Hyde di Robert Louis Stevenson). Le storie di questo volume non sono paurose perché fantastiche bensì paurose perché vere: con la forza della verità di un caso clinico di Freud, a cui tendono a rassomigliare. […] La scimmia, il demone familiare, il revenant […] non vengono da lontano ma da uno specchio: sono incarnazioni del doppelgänger, riflessi del nostro essere, voci della nostra coscienza, proiezioni della nostra angoscia, immagini duplicate del nostro volto inquietante. […] Il solo nemico è la nostra anima mortale: non la coscienza, che potrebbe offrire una possibilità di riscatto; ma la coscienza della propria incoscienza (ovvero la coscienza della propria assenza di coscienza). La scimmietta, il demone familiare, il giudice onirico abitano un vuoto d’aria nell’intimo dei protagonisti. / In altre parole questi fantasmi appariscenti hanno l’incerto statuto, fra presenza ed assenza, dei servi defunti del Giro di Vite di Henry James. Ma questa parziale rinuncia all’obbligo pesante dell’esistere non sottrae niente alla loro prepotente e persuasiva veridicità. Forse non esistono, ma sono bravissimi nel fingere di esistere, nel mimare lo spettacolo della loro vitalità”. Ciò che ancora in età postfreudiana rende questa collezione di doppi e spettrali persecutori sul crinale ambiguo tra psiche e oltretomba foriera di genuine inquietudini per i lettori – e insieme delle delizie di una rara eleganza narrativa.
Jennings si confessa a fatica con Hesselius, che tenta di calmarlo; e anzi, davanti al resoconto angosciato su una certa passeggiata di poche settimane prima, quando solo la presenza di una nipote aveva frenato il reverendo dal tuffarsi in un precipizio, lo conforta suggerendogli di ravvisare nell’episodio la prova della benevolenza di Dio. Ma è ancora e sempre una religiosità di buone parole, e il richiamo vertiginoso dell’abisso rimane.
Poi Hesselius si congeda, con la promessa di investigare sul caso e di far sapere qualcosa l’indomani, e la richiesta di avvisarlo prontamente alla ricomparsa della scimmia. Si attarda però a meditare in una locanda, dove stila (osserva il curatore, in un inciso) “una nota minuziosa, nella quale […] esprime le proprie opinioni sul caso, sui comportamenti a cui si associa, oltre a prescrivere una dieta e le medicine specifiche. È una nota strana… qualcuno potrebbe definirla mistica. Sia come sia, dubito che possa interessare quel genere di lettori per i quali scrivo, per cui ometto di riportarla”. Rimandando all’ennesimo testo irraggiungibile (la nota di Hesselius), l’inciso prepara con un’opportuna dilazione all’impatto del finale, spiegando il ritardo con cui il Dottore torna al proprio appartamento e in fondo il precipitare della vicenda. Un ritardo curioso, e in qualche modo imbarazzante: Hesselius, raccolti uno scrittoio portatile e gli effetti personali, si è fatto condurre a due miglia dalla città, all’amena locanda «Alle due corna», “un posticino tranquillo e beato, dalle mura solide e spesse. In questo sito di pace, al riparo da ogni fastidio” ha deciso di dedicare le ore notturne e del mattino successivo a meditare sul caso. Un po’ di pagine prima il Dottore ostentava turbamento per i vaghi cenni del povero Jennings sul proprio male: pare strano che ora, al corrente di un quadro ben più dettagliato e drammatico, e dopo aver chiesto espressamente di essere avvisato sul ritorno della scimmia, prenda la faccenda con tanta calma. Sdilinquendosi sull’idilliaca oasi di pace per le proprie colte meditazioni, e senza fornire all’ammalato un recapito per l’emergenza. Rientra a casa, bontà sua, solo verso l’una del giorno dopo – trovando (ovviamente) un’angosciata missiva di Jennings. La scimmia è tornata e sa tutto, e sta scaricando la propria rabbia sul reverendo: il domestico di lui, sgomento per non aver trovato Hesselius e non sapere dove reperirlo, ha anzi avuto ordine di non tornare senza una risposta.
Affrettatosi a quel punto a Richmond, Hesselius giunge però troppo tardi: Jennings l’ha fatta finita, tagliandosi la gola con un rasoio. Dove Le Fanu consacra la novità dei fantasmi “moderni” che appaiono in tram e sparigliano le categorie corpo/anima con una prima, raggelante sorpresa al lettore: in scena è un tipo di demone che l’uomo di Dio non solo non comprende ma non riesce a cacciare, restando travolto dalla tentazione fino a commettere il peccato per antonomasia (così, vittorianamente, nella simbolica lefanuiana), il suicidio. Una sorta insomma di negativo fotografico del topos classico della tentazione di sant’Antonio (uno dei classici plot, rammentiamolo, di un proto-horror che ha nutrito l’arte per secoli prima che il genere horror apparisse in quanto tale): qualcosa che per la particolarissima dialettica tra aggressore e vittima già contrassegna Green Tea come un punto di svolta, e la raccolta In a Glass Darkly che di lì idealmente si dipana come una delle opere-chiave del fantastico moderno.
Da quella casa, Hesselius si allontana “cupo e irrequieto” – e ora Le Fanu, implacabile, gioca la seconda sorpresa. L’esperto sdottrina per un po’ di “di un processo di avvelenamento, d’un tossico che eccita l’azione reciproca dello spirito e dei nervi, e che conduce alla paralisi il tessuto che separa queste funzioni gemelle dei sensi, quella esteriore e quella interiore”. Poi rammenta sussiegoso di aver curato con successo “cinquantasette casi di questo genere di visionarietà che definisco indifferentemente «sublimata», «precoce» o «interiore»” – più il caso (apprendiamo) dello stesso destinatario Van Loo. “Non esiste malanno di cui soffre l’umana fralezza che non possa essere risolto più agevolmente, e con maggior sicurezza, da una piccola dose di pazienza e da un’assennata fiducia nel medico. A queste condizioni elementari, garantisco una guarigione completa” ha la bontà di garantirci. Per continuare soave: “D’altra parte non dimenticate che non avevo neppure iniziato a prendere in cura il signor Jennings. E non mi sfiora nemmeno il dubbio che avrei potuto guarirlo in diciotto mesi, o in un paio d’anni al massimo. Ci sono infatti dei casi che si risolvono in breve tempo, altri assai più tenaci. Ma ogni medico degno di questo nome, che affronti un simile caso con senno e assiduità, otterrà l’effetto sperato. / Voi conoscete di già il mio trattato attorno alle Funzioni basilari del cervello. Adducendo un’ampia casistica, credo di dimostrare”… E lasciamolo diffondersi in chiarimenti tecnici sulla possibilità di suturare l’occhio interiore – che nel caso di Jennings sarebbe stato inconsapevolmente socchiuso proprio per l’abuso di tè verde, permettendo la percezione degli “spiriti incorporei”. (Incuriosisce tra l’altro che oggetto dell’abuso sia proprio il tipo di tè, quello verde, meglio apprezzabile dall’organismo – ma forse, anche in questo, Le Fanu gioca sull’ambiguità delle ricostruzioni.)
Puntiamo piuttosto allo spudorato finale: “Il povero signor Jennings volle farla finita. Ma tale catastrofe fu l’esito di tutt’altro morbo che, per così dire, si sovrappose alla malattia di cui era già sofferente. Il suo caso era una specifica complicazione e ciò che lo portò al tracollo fu la mania suicida che aveva ereditato. Mi è impossibile considerare il povero signor Jennings un mio paziente, visto che non avevo neppure cominciato a prendere in cura il suo caso e che lui dopotutto non aveva ancora riposta in me, ne sono sicuro, la sua piena, incondizionata fiducia. Ma quando il paziente non si fa partigiano della sua stessa malattia, la guarigione è indubitabile”. Insomma, un vero virtuoso dell’autogiustificazione.
Come nota Skey, “L’unico caso in cui [Hesselius] interviene direttamente e «in tempo reale» […] si rivela un vergognoso fallimento, che l’insigne scienziato poi liquida frettolosamente con alcuni riferimenti compiaciuti ai successi ottenuti in circostanze analoghe. / A più critici è venuto il sospetto che il medico tedesco sia infallibile soltanto per autodefinizione. In fondo, è un erudito, e basta. È innamorato delle classificazioni, della tassonomia dei fenomeni, e delle statistiche della propria discutibile bravura: i casi analoghi a quello descritto nel racconto L’inseguitore sono «circa duecentotrenta», quelli simili alla tragedia del reverendo Jennings, ben cinquantasette, e così via”. A Le Fanu insomma non basta aver sovvertito la dinamica dell’aggressione spettrale: da un lato per fronteggiarla inventa un esorcista “laico”, “moderno”, che tenta nuove sintesi a categorie messe alla prova dal travaglio di un’epoca; ma dall’altro ne mina impietosamente la credibilità. Certo attingendo ancora al modello-Apollonio (quello di Keats, che salva così bene il discepolo dalle insidie di Lamia che il giovane muore subito dopo), ma in realtà ricostruendolo in termini liberissimi, con una sorta di sberleffo in buona letteratura. Tutta l’impalcatura di serietà dottrinale affettata dal segretario/curatore (devoto quanto bovinamente acritico) si sperde insomma nel limbo dell’inaffidabilità.
In effetti, se non rivedremo Hesselius in azione, ci verranno forniti ulteriori particolari sulla sua attività e la strabordante produzione scritta. La forma è sempre quella di più livelli-cornice, con la voce del curatore che presenta i testi, alcune annotazioni del dottore e il racconto-testimonianza di personaggi che il curatore non ha conosciuto – una struttura, come detto, che da un lato accentua la verosimiglianza della narrazione e dall’altra evoca una progressiva deriva verso l’incontrollabilità. Mentre il contenuto riguarda in genere storie di doppelgänger, precipitati psichici inesorabili che faticheremmo a immaginare esorcizzati dall’Hesselius di turno “con la semplice applicazione di eau-de-cologne diacciata” (come avvenuto col paziente Van Loo).
Per esempio, Mr. Justice Harbottle (già apparso sulla rivista ‘Belgravia’ nel 1872 come The Haunted House in Westminster) è la fosca storia della nemesi piombata su tale cattivissimo magistrato: dove la condanna onirica da parte di un Giudice Capo Twofold (letteralmente “Doppione”, e in effetti “immagine ingigantita di lui stesso, l’immagine del giudice Harbottle grande almeno il doppio”), davanti a una corte sinistramente pneumatica, spurga spettri avvertibili – in apparenza – anche da testimoni esterni. Dunque nel prologo il curatore cita un ennesimo, “straordinario saggio” di Hesselius (Il senso interiore e le condizioni in cui si esplica, particolarmente il volume I, sezione 317, nota Z, con rimandi al II, sezioni 17-49); e deve destreggiarsi tra due diverse versioni della medesima vicenda, quasi a riecheggiare ironicamente (i doppi, ancora) il rapporto tra questo testo e una sua precedente novella, An Account of Some Strange Disturbances in Aungier Street, 1853, nell’ambito di una sofisticata dialettica di riscritture e varianti dei medesimi temi.
Nel già citato The Familiar (a sua volta riscrittura di un testo precedente, The Watcher, 1851), il povero capitano Barton è vittima del precipitato spettrale di un defunto marinaio – una sorta di grottesca versione stavolta ridotta dell’originale, ma dall’apparenza concreta come altri spettri della stessa raccolta. A tentare di proteggerlo interviene anche un doppione del generale Spielsdorf di Carmilla, il generale Montague padre della promessa sposa di Barton – ancora una volta un anziano e pragmatico militare, e ancora una volta con scarsa efficacia. D’altra parte, nel Prologo a questa vicenda, il curatore parla di “circa duecentotrenta casi più o meno simili a quello che ho narrato in Tè verde”, cita una nota di Hesselius che rimanda ai propri saggi manoscritti “A. 17” e “A. 19”, e accredita il racconto di un reverendo amico dei protagonisti – scrupolosissimo ma “incompleto dal punto di vista medico”, donde per il Dottore l’impossibilità di pronunciarsi “con sicurezza”.
Carattere spettrale e di doppelgänger hanno, com’è noto, i vampiri di Carmilla, cioè l’ultimo testo della raccolta; mentre un’interessante e inattesa variazione di registro giunge col romanzo breve che immediatamente lo precede, The Room in the Dragon Volant – che, radicalmente reinventando certe fantasie paleogotiche sul sovrannaturale fasullo, si svela come detto una storia poliziesca. Ancora una volta il richiamo a Hesselius è nel Prologo, in cui scopriamo che ha composto anche un saggio Mortis Imago, “un eccellente trattato dedicato alle droghe che erano in uso nel Medio Evo […] una dissertazione singolare, ricca di citazioni da versi e prose del Medio Evo, alcune delle quali, tra le più preziose, provengono stranamente dal lontano Egitto” – e opera destinata a occupare, secondo il devoto curatore, “il nono e il decimo volume” dell’intera raccolta degli scritti di Hesselius. Dove il continuo richiamo alla profondità della dottrina del dottore e alla sua (indubbia) versatilità non riesce ormai a dissipare una certa diffidenza da parte nostra.
È vero d’altronde che i dottori psichici successivi a Hesselius – Van Helsing compreso – muoveranno da un fronte diverso, cioè dal successo della letteratura poliziesca in “casi”, finendo col costituirne semplicemente l’espansione verso lidi ulteriori e più imbarazzanti: in altre parole, il loro stile deriva più direttamente da Sherlock Holmes che non da Hesselius. Forse non casualmente, e nonostante il fiorire di film su Carmilla, il metafisico tedesco di Le Fanu non troverà risonanza cinematografica; e anche in narrativa ben pochi avranno la fantasia (o l’ardire) di richiamarlo in scena.Tra le eccezioni, il curioso romanzo francese Le Cauchemar mandchou: Tribulations infernales du Docteur Martin Hesselius di Gérard Dôle, 2005 – dove le lettere di Hesselius al dotto compatriota Justinus Kerner spunterebbero nientemeno che dagli archivi di Vidocq, il famoso capo della Sûreté di Parigi; e l’allegro The Darker Passions: Carmilla di Amarantha Knight alias Nancy Kilpatrick, 1997, in cui il ritrovamento delle memorie della narratrice di Carmilla da parte di Hesselius spalanca una pirotecnia hardcore coinvolgente l’intera pattuglia del capolavoro lefanuiano.
Ma, a citare ancora Skey, “È davvero un caso che il primo psychic doctor, con la sua immensa erudizione, sia un bluff? È un caso che l’unica vicenda in cui interviene sia un clamoroso fallimento, e che la vittima sia un sacerdote? […] No, Le Fanu non vuole che il lettore gli sfugga. Non vuole che le sue «vittime» trovino conforto in comode sicurezze, che si tratti della scienza, dell’occultismo, o della fede religiosa. Vuole che ci rimanga sempre un dubbio. Anche a costo di creare, nella penombra della sua clausura swedenborghiana, un «mago» che non funziona. Dopo tutto, non era una vittima anche lui?”.
Di più: quella partita tra un autore malizioso e il suo lettore finisce con l’aprire a un gioco più ampio. Fantasmi che spiazzano nel paradosso ogni categoria tra naturale e sovrannaturale, esperti all’indecidibile confine tra vertigini di dottrina e bluff: la cifra è quell’ambiguità che connota – già è emerso in altre puntate di questo itinerario – il fantastico nella sua accezione più propria, laica e moderna. Un imbarazzo che schiude alle domande riaprendole di continuo, a livelli diversi: una provocatoria macchina per pensare che dalla letteratura ci conduce con Hesselius, in modo più diretto di quanto i denigratori del fantastico potranno mai capire, sui viottoli della nostra vita.