[Carmilla, è noto, non pubblica mai articoli tratti da altri siti e blog, salvo che per chiosarli o integrarli. Fa eccezione, e non è la prima volta, il sito del collettivo romano Militant. Riportiamo un pezzo iniziale, e un intervento nella discussione, apparsi in quella sede. Che invitiamo a visitare, assieme al sito della Rete Noi saremo tutto, di cui Militant fa parte. Vi troverete solo cose intelligenti.] (V.E.)
Intervento iniziale
Stiamo galoppando allegramente verso il decimo anno di “crisi”, come viene definita questa recessione generalizzata delle economie occidentali che però, a differenza degli altri cicli economici del passato, in questa fase non può avere una sua soluzione. Non è solo l’Italia il problema, come sanno bene gli economisti più avveduti. Cercando di evidenziare una differenza inesistente tra un -0,5% e un +0,5% dovuta, a sentire i vari organi d’informazione, alle improrogabili riforme che ci ostiniamo a non portare avanti, il dibattito pubblico ufficiale propina una percezione della realtà completamente avulsa da ogni fatto reale.
A differenza delle altre crisi economiche del passato, come dicevamo, la peculiarità di quest’ultima è che non può avere una soluzione, stante l’attuale panorama politico. Infatti, altra cosa ben chiara per ogni economista, l’unico modo per far ripartire i famigerati consumi sarebbe un aumento generalizzato del livello salariale, prodotto dal decisivo contributo dell’economia pubblica. Sintetizzando, una serie di politiche keynesiane, le uniche che nel corso del Novecento siano state in grado di risollevare il capitalismo dalle cicliche crisi che ha prodotto nel suo processo di accumulazione. Il problema è che le ricette economiche non sono variabili indipendenti, quanto sempre il risultato di determinate scelte politiche. Nello scorso secolo la presenza di un sistema economico-politico alternativo a quello capitalista rendeva necessario, per il capitalismo, salvaguardare se stesso attraverso misure redistributive, capaci di mediare il conflitto sociale e la conquista di strati sempre maggiori di popolazione alle ragioni dell’alternativa politica. Tagliando con l’accetta, la paura del socialismo imponeva al capitalismo il dovere di mediare tra la necessità di profitto dei singoli capitalisti e quella del consenso del sistema economico. Oggi quello scenario non esiste più, e la mancanza di una valida alternativa politica all’attuale sistema di sviluppo rende ininfluente per il capitalismo cementare consenso attorno ad esso. Il capitalismo oggi non ha il problema dell’egemonia, e senza la paura di perdere quest’ultima non produrrà mai spontaneamente quella mediazione capace di risollevare le sorti produttive delle economie occidentali. In buona sostanza, è divenuto ininfluente per il sistema di sviluppo produrre consenso. Non a caso, il fulcro del discorso politico si è spostato dal concetto di “rappresentanza”, tipicamente otto-novecentesco, a quello di “governo”. Il primo concetto rimanda infatti alla mediazione di interessi diversi, ed è un concetto classico anche all’interno delle dottrine politiche liberali. Il secondo è invece l’espressione di una visione del mondo in cui non è più decisivo mediare fra opposti interessi, ma governare il sistema economico secondo le scelte determinate da tale sistema. Il piano economico non è più definito dalla politica, e quest’ultima viene svalutata a livello di gestione degli interessi produttivi. “Gestione”, “amministrazione”, “governance”, divengono allora le parole chiave di questo cambiamento, che infatti risaltano per la loro assoluta a-politicità e la loro apparente neutralità. Una neutralità di facciata, che nasconde il senso ideologico dominante del capitalismo neoliberista.
Paradossalmente potremmo quindi concludere con questa provocazione, e cioè che saranno solamente le lotte di classe il motore attraverso cui far ripartire anche la produzione capitalista. Se infatti, sulla scorta di Marx, il capitalismo viene definito come un rapporto sociale, questo non può che essere dialettico, cioè basato sul confronto tra le due parti in gioco. Oggi tale confronto non esiste, perché una delle due parti, quella del lavoro salariato, non ha più una sua autonomia politica. E questo fattore inceppa i meccanismi anche dell’altra parte, che senza contraltare si trova impossibilitata a governare se stessa in maniera razionale.
Intervento di Militant nel dibattito
Allora, proviamo a ragionare, consapevoli che sono appunti appena abbozzati, tutti da definire, di un ragionamento aperto alla discussione e in via di definizione.
Ci sembra che il dato politico significativo di questi anni sia la scomparsa della mediazione politica, intesa come luogo in cui interessi divergenti si confrontano e, in base al rapporto di forze di volta in volta espresso, trovano una mediazione. La scomparsa di questa mediazione non ha fatto venir meno la “politica” in quanto tale, ma il fatto che questa rappresenti appunto il terreno dello scontro tra interessi divergenti. Oggi il campo della politica è espressione di un solo interesse sociale, cioè è il luogo di un’unica classe, e in cui gli scontri che avvengono sono interni alle elites che questa classe esprime. Per fare un esempio, nonostante tutte le critiche doverose alle posizioni politiche del PCI, difficilmente potremmo individuare quella formazione politica come “partito dei padroni”, o della “classe dominante”, mentre è stato, fino alla fine dei suoi giorni (e sempre peggio) il partito del lavoro salariato, che dunque portava avanti (male) gli interessi di quella composizione sociale lì.
Il PCI, e nel resto d’Europa i partiti espressione del lavoro salariato, garantivano una certa autonomia politica ai lavoratori, nel senso che erano espressioni dirette, cioè non mediate dalla classe dominante, di quelle posizioni. Ribadiamo che queste riflessioni non riguardano il merito delle scelte politiche che questi partiti hanno fatto nel corso della loro storia.
Bene, per sintetizzare, oggi il mondo della politica non vede più lo scontro tra forze politiche espressione di composizioni sociali contrapposte. Lo scontro sociale sopravvive unicamente sul piano, appunto, sociale, delegato al sindacalismo, in un piano cioè dove i rapporti di forza politici (cioè gli unici rapporti di forza possibili, sia detto per inciso) non vengono minimamente intaccati. Un sindacato (qualsiasi sindacato, anche quelli di movimento, anche quelli della casa o dei territori), può vincere singole battaglie sociali ma mai invertire il rapporto di forza, cioè portare la forza accumulata sul piano del discorso politico, cioè sul piano generale e generalizzabile.
Questo discorso si intreccia – o sembra a noi intrecciarsi – con la necessità per l’economia di mercato di avere un mercato di sbocco per la sua produzione. Nonostante palliativi, elementi di controtendenza o ritardanti, hanno potuto procrastinare di qualche anno (o decennio) la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori, cioè il restringimento dei mercati di sbocco, alla fine i nodi, per l’economia di mercato, sono venuti al pettine. Il capitalismo vive cioè questa contraddizione: da una parte i singoli capitalisti tendono inevitabilmente a spostare il proprio capitale sul lato del profitto e non su quello degli investimenti e del salario; dall’altra, per garantire quei profitti, il sistema economico generale ha bisogno di mercati di consumatori capaci di assorbire almeno in parte l’enorme massa di produzione costantemente in aumento, cioè ha necessità di mantenere i salari ad un livello adeguato alla riproduzione del sistema. Solo che questo andamento è possibile se il sistema capitalista in generale (o lo Stato, cioè il luogo dove si confrontano le due tendenza) media tra la tendenza dei singoli capitalisti ad aumentare i propri profitti e la tendenza del mondo del lavoro ad aumentare i propri livelli di vita. Se manca quest’ultima tendenza, i salari inevitabilmente si deprimono, e con questi i mercati di sbocco, e quindi i profitti dei capitalisti, sebbene, è bene evidenziarlo, con tempi di reazione differenti.
Detto in soldoni, se il sistema capitalista mantiene una sua innegabile razionalità e capacità d’adattamento (altrimenti sarebbe crollato sotto il peso delle sue stesse contraddizioni, che invece è sempre capace di affrontare e di risolvere temporaneamente), i singoli capitalisti non hanno questa razionalità.
In conclusione, dunque, un certo livello di lotta di classe, quello riformista, è necessario anche per il sistema stesso. Il riformismo operaio è cioè una delle componenti imprescindibili del sistema capitalista, e oggi è proprio questo a mancare: un normale – e fisiologico – riformismo operaio. Da non confondersi con le lotte di classe in senso rivoluzionario, che a differenza del riformismo non si limitano a puntellare il sistema produttivo ma a portare all’estrema conseguenza le contraddizioni che questo produce. Quello che invece si sta intuendo in questi anni è che l’assenza di un concreto riformismo operaio (diciamo alla PCI) impedisce anche ai movimenti rivoluzionari di avere un proprio ruolo, perchè manca l’acqua nella quale questi movimenti hanno sempre nuotato: il soggetto sociale organizzato dal riformismo.
Concludiamo dicendo che queste sono solo ipotesi, non suffragate da dati quantitativamente accettabili, e che dovrebbero essere studiate più in profondità. Questi anni di crisi, e soprattutto l’arretramento storico delle forze politiche del lavoro salariato, stanno però suffragando questa serie di ipotesi, quantomeno l’intuizione generale.