di Carlo Trombino
Quando si pensa al rapporto tra sport e cultura afroamericana vengono in mente principalmente due immagini: il pugno chiuso di Carlos e Smith alle olimpiadi di Città del Messico 1968, e, naturalmente, la grazia e la furia di Cassius Clay, che nel 1964 divenne un fedele di Elijah Muhammad e cambiò il proprio nome in Mohammed Ali.
In realtà, come vedremo, già da molto prima, sia gli atleti che la comunità afroamericana avevano cominciato a usare lo sport come strumento di protesta e di rivendicazione politica, o quantomeno come strumento di identificazione collettiva.
Non dobbiamo sorprenderci, quindi, se tali questioni in Italia vennero affrontate prima sulle pagine sportive dei quotidiani e soltanto in seguito arrivarono le analisi socio-politico-culturali del Black Power.
Per trattare un argomento del genere non possiamo che partire dal 1935, dall’incontro di pugilato fra Joe Louis e Primo Carnera, eroe del fascismo.
L’incontro tra Primo Carnera e la nuovissima “stella nera del pugilato” ha avuto il pregio di suscitare grande interesse negli ambienti nordamericani sin dal suo annuncio; ma dopo il colpo di scena del Madison Square Garden, dopo la sconfitta di Max Baer e l’incoronazione a nuovo re del pugno di James Jimmy Braddock, l’urto tra l’ormai popolare Joe Louis ed il gigante italiano, che vanta ancora negli Stati Uniti una folta schiera di ammiratori, è assurto ad avvenimento di prim’ordine.
Così la Stampa di Torino raccontava l’attesa per il match fra Louis e Carnera, in un articolo apparso sulle pagine sportive che, fin dal titolo, metteva in chiaro l’approccio fascista alla questione: Carnera deve domare Joe Louis, la “pantera nera“.
Carnera, “creduto imbattibile“, aveva da poco perso la corona dei pesi massimi contro Max Baer, e l’incontro con Louis doveva segnare la sua rinascita.
Sappiamo che nei ghetti urbani e nella “Black Belt” l’incontro tra Primo Carnera e Joe Louis aveva un significato particolare: il 1935 fu l’anno in cui l’Italia fascista aggredì l’Etiopia, e in molti leggevano l’incontro geopoliticamente: sulla stampa americana apparve una vignetta in cui i due pugili proiettavano le ombre di Mussolini e Selassie. Qualcosa di più di un semplice incontro di pugilato, quindi. E l’autore del sopracitato articolo lo sapeva bene, ricordando ai lettori che “non vi dovrebbe essere dunque dubbio che, se Primo riuscirà a far abbassare bandiera al minaccioso pugile di colore, il posto di principe ereditario sarà riservato a lui e, aggiungiamo noi, con molta gioia dei buoni yankee che, ogni qualvolta vedono profilarsi all’orizzonte la minaccia nera, perdono la calma. La riconoscenza verso Carnera se riuscirà ad abbandonare l’incubo sarà sentita e il premio per il prezioso servizio non dovrebbe mancare“. Nessun riferimento alla guerra d’Etiopia, ma si sottolineava che i “buoni yankee” sarebbero stati più che contenti di una sconfitta del “negro”:
Come sappiamo, non ci sarebbe stato nessun alloro per Carnera che venne umiliato sul ring da Louis, scatenando la gioia degli afroamericani che poterono gioire per l’umiliazione, quantomeno simbolica, degli aggressori d’Etiopia.
Appare però chiaro che su entrambe le sponde dell’Atlantico questo evento sportivo assumeva tratti di elevata politicizzazione.
Ecco come, il 27 Giugno 1935 il quotidiano torinese raccontava la sconfitta del gigante friulano; in primo piano, l’incontenibile gioia di Harlem.
La vittoria del negro Joe Louis su Primo Carnera allo stadio Yankee di New York è stata festeggiata per l’intera notte nel quartiere negro di Harlem, i cui abitanti sembravano impazziti dalla gioia. Essi hanno invaso le strade armati di tutto ciò che poteva produrre rumore: tamburi, trombe, sirene, campane e campanelli, bidoni di benzina e altro, originando una musica infernale che non ha lasciato dormire nessuno per qualche chilometro all’ingiro.
Notte di baraonda.
L’entusiasmo dei negri che erano in numero di almeno centomila è stato tale che una delle sue conseguenze è stata la rottura di tutti i vetri dei carrozzoni tranviari e di decine di automobili. Il traffico del quartiere è stato completamente bloccato per ore e ore.
Seguiva la fredda cronaca dell’incontro che segnò per sempre le fortune di Carnera. Il cronista si soffermava sulle “labbra carnose” e i “balzi felini” di Louis, che due giorni prima era stato dipinto come una “pantera da domare” e che ha scatenato “la musica infernale” dei suoi tifosi.
Quello dell’irrazionalità selvaggia di ogni espressione proveniente dai “negri” americani è un leitmotiv che continuò a imperversare sulla stampa italiana almeno fino alla metà degli anni sessanta, quando invece i movimenti a sinistra del PCI (e, in certa interessata misura, il PCI stesso) cominciarono a guardare con favore alle proposte politiche provenienti dai ghetti.
La Stampa continuò naturalmente a seguire le imprese di Joe Louis, malcelando la gioia per la sconfitta contro l’ariano (detto “l’ulano della morte”) Schmeling che “fece piangere i negri di Harlem“.
Ancora 5 anni dopo il match con Carnera, nel 1940, quando Louis sfidò Arturo Godoy a New York, la Stampa parlava dei “Battaglioni di negri che si dirigevano da Harlem verso il Madison Square Garden intonando canzoni inneggianti al campione del mondo“. Sappiamo (in Italia ne parlò diffusamente Fernanda Pivano in una serie di articoli su varie testate raccolte poi in un volume dal titolo Beat Hippie Yippie) che negli anni ’30-’40 le manifestazione di massa degli afroamericani non furono solo quelle dovute alle vittorie di atleti come Joe Louis, ma che in quei decenni attorno alla figura di Marcus Garvey si svilupparono i primi passi di quello che sarebbe poi diventato il Black Power; e la retorica Garveysta, il “farsi nazione” dei discendenti degli schiavi, prevedeva anche sfilate in uniforme per le vie di Chicago e New York.
Alle Olimpiadi di Berlino del 1936, in cui Jesse Owens trionfò dinanzi a Hitler, la stampa italiana si esaltò per le gesta impressionanti del corridore che polverizzò tutti i record del mondo. Ma nello stesso anno 1936 il quotidiano torinese coglieva l’occasione di una gara fra lo stesso Owens e un cavallo per sminuire la statura atletica di Owens:
Non siamo riusciti ad immaginare la gara di Pittsburgh ed a rievocare quella di Berlino, senza che una punta di ribrezzo ci salisse alla gola. Ci è parso impossibile che la meraviglia saettante sulla pista americana in lotta con la bestia, potesse identificarsi col fenomeno atletico che conobbe l’onore del trionfo tributatogli dai centomila spettatori dello Stadio Olimpico.
La propaganda fascista, in questa e in altre occasioni, dimostra di saper apprezzare le capacità atletiche degli afroamericani. Il biasimo infatti viene posto più sul capitalismo a stelle e strisce che non su Jesse Owens, che anzi veniva esaltato come “meraviglia saettante”, “macchina umana perfetta” o addirittura come “superuomo”, epiteti lontani dalla retorica razzista del regime che di lì a poco avrebbe partorito le infami leggi razziali.
Nel dopoguerra, politica, sport e rivendicazioni dei diritti civili andarono sempre più a intrecciarsi. In Italia non furono più i giornali borghesi a occuparsene ma fu soprattutto l’Unità.
Fu l’Unità l’unico giornale che dedicò ampio spazio all’assassinio di Malcolm X nel febbraio 1965, argomento che gli altri giornali confinarono nelle pagine della cronaca nera. Fu l’Unità a parlare dell’assassinio di Megdar Evers, ben prima che gli altri giornali si videro costretti a parlare del razzismo americano a causa degli omicidi di attivisti e uomini religiosi nel Sud della metà degli anni ’60.
Non ci stupiamo dunque che il profeta Elijah Muhammad, fondatore della Nation of Islam, fece la sua comparsa sulle pagine dei quotidiani italiani proprio sulle colonne dell’organo del PCI, e, nel 1964, faceva capolino in un articolo pubblicato sulle pagine sportive.
Ma già prima di quella data, nel 1961, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci aveva dimostrato grande attenzione per le rivendicazioni politico-sportive degli atleti afroamericani.
Lo dimostra un articolo del 1961 su un fatto poco noto e che non venne trattato dagli organi di stampa più filo-americani: In USA per protesta contro la segregazione I negri disertano una gara d’atletica.
Tutti gli atleti negri invitati alle riunioni finali di atletica di Houston nel Texas si sono rifiutati ieri sera di partecipare alle gare in segno di protesta contro le disposizioni razziali tra gli spettatori in base alle leggi razziste dello stato. Gli spettatori negri avrebbero dovuto infatti sedere in recinti speciali separati da qeulli riservati ai bianchi. Tra gli atleti negri che avrebbero dovuto prendere parte alle gare finali figuravano Ralph Boston e John Thomas. LA decisione degli sportivi negri, che è stata seguita dalla diserzione in massa degli spettatori di colore, ha praticamente fatto fallire la riunione di atletica.
Erano gli anni della protesta non violenta, dei freedom riders, di Rosa Parks e della diffusione di pratiche di disobbedienza civile antirazzista. Gli anni in cui il fulcro della protesta era negli stati segregazionisti del Sud. L’articolo dell’Unità proseguiva citando proprio i freedom riders:
D’altra parte la lotta dei pellegrini della libertà continua e si va rafforzando. Altri viaggiatori sono partiti da Washington per forzare le leggi razziste. I nuovi “viaggiatori” prendono il posto dei loro compagni arrestati in vari stati segregazionisti.
Pochi anni dopo, con la rivolta di Harlem del 1964 e soprattutto con quella, particolarmente sanguinosa, di Watts del 1965 la lotta antirazzista degli afroamericani si sarebbe spostata dalle campagne del sud alle metropoli del Nord e dell’Ovest, costringendo anche la stampa borghese italiana a trattare l’argomento.
E fu proprio in quegli anni che il campione di boxe Cassius Clay decise di convertirsi alla Nation of Islam. Ancora l’Unità fu la prima ad accorgersi della svolta, e nel 1964 citava il Molto Onorabile profeta Elijah Mohammed all’interno di un articolo di pugilato sulle pagine sportive. La citazione proviene da una raccolta di brevissime intitolato “Mazzinghi contro Mott” in cui di sfuggita si raccontava della conversione di Clay.
Da Los Angeles si è poi appreso che il campione dei pesi massimi Cassius Clay ha presentato a un giornalista di Los Angeles una bella ragazza come sua moglie. Clay, che ha 22 anni ed è membro della setta dei musulmani neri, ha concesso una intervista a Brad Pye, del Los Angeles Sentinel, nel suo albergo mentre si trovava in quella città. Durante l’intervista, il pugile ha presentato al giornalista una avvenente modella di 24 anni, Sonji Roi, che pure appartiene alla stessa organizzazione razziale. Nella stanza d’albergo di Clay, a quanto riferisce Brad Pye, si sarebbe svolto il seguente colloquio:
“Cara, dì al signore che sei mia moglie “, ha detto CLay.
“Sì, siamo sposati”, ha risposto la ragazza.
“Cara, dì al signore chi è il tuo capo”.
“L’onorevole Elijah Muhammad”.
“Cara, dì al signore per chi moriresti”.
“Per l’onorevole Elijah Muhammad”.
Come è noto, Elijah Muhammad è il capo della setta dei musulmani neri, a una riunione della quale, avvenuta a Los Angeles domenica scorsa, lo stesso Clay ha partecipato prendendo anche la parola.
Dopo l’intervista, il pugile e la ragazza sono partiti alla volta di Chicago, dove Sonji Roi risiede.
La madre del campione, intervistata a Louisville, ha affermato di non sapere se la storia fosse vera o meno, ed ha aggiunto che il figlio non le ha detto di essersi sposato.
La signora Clay ha però spiegato che pochi giorni fa ha saputo dall’altro figlio, Rudy, che Cassius aveva effettivamente sposato la ragazza.
Vediamo qui che l’appartenenza di Clay/Ali ai “musulmani neri” diventa poco più che un pettegolezzo riguardante il campione del mondo. Interessante anche che l’estensore dell’articolo dice che “è noto” che Muhammad è il capo dei musulmani neri, a dimostrazione che i lettori de l’Unità avevano già avuto modo di conoscere “l’organizzazione razziale”.
Ma non erano solo i quotidiani a occuparsi dell’argomento. Anche un settimanale come il Guerin Sportivo se ne interessò e, cosa ancora più significativa, furono i lettori a rivolgersi al Guerino con domande sulla situazione dei “negri d’America”.
In passato sul Guerin Sportivo scrivevano firme prestigiose come Antonio Ghirelli, Gianni Brera, Giovanni Arpino e soprattutto Luciano Bianciardi, che tenne una rubrica in cui rispondeva alle domande dei lettori. Erano gli ultimi dolenti anni di vita dello scrittore maremmano, e la rubrica fu interrotta nel 1971 proprio a a causa della morte di Bianciardi. Le sue pagine sul Guerino sono state raccolte nel libro “Il fuorigioco mi sta antipatico”, edito nel 2011 da Stampa Alternativa. Le risposte di Bianciardi sono fenomenali, ma è da notare come il pubblico di un giornale sportivo come il Guerino si mostrasse attento a tutto ciò che succedeva nel mondo, chiedendo lumi al sempre caustico Bianciardi.
Ecco quindi domande su Mohamed Ali ma anche su Angela Davis e sul razzismo istituzionale bianco. Bianciardi, che anni prima aveva tradotto il famoso saggio sugli hipster di Norman Mailer The White Negro, conosceva bene la situazione degli afroamericani. Nel suo romanzo risorgimentale del 1964, La Battaglia Soda, un personaggio americano intonava le canzoni dei “raccoglitori di cotone negri dell’Alabama”.
Vediamo nel dettaglio le domande e le risposte apparse sul Guerino riguardanti gli afroamericani.
Carissimo Bianciardi, come giudica il furore razzistico che si è scatenato contro il negro Cassius Clay alla vigilia del suo incontro con il bianco Jerry Quarry? E’ civile un popolo che alimenta, nell’anno 1970, queste odiose discriminazioni?
Espressioni come “furore razzistico” e “odiose discriminazioni” usate dai lettori di un giornale come il Guerin Sportivo, certamente non un foglio militante, spiegano bene la misura in cui molti italiani percepivano la condizione di subalternità delle masse nere americane.
La risposta di Bianciardi è come al solito sorprendente, dimostrazione del suo animo da polemista ma anche dell’approccio anarchico e contrario a qualsiasi rivendicazione di superiorità razziale, quand’anche proveniente da un popolo che lo stesso Bianciardi riconosce come vittima del razzismo bianco.
Carissima signorina Terzi, io giudico ignobile il razzismo, in qualunque forma esso si manifesti. Anche il razzismo, per ipotesi, negro. Lo so che i negri americani hanno molte cose da digerire e da scordare, e che noi dobbiamo aiutarli in questo. Ma sono contro. Sono contro le intemperanze svizzere e anche italiane contro i terroni, sono contro gli svedesi di complemento, sono contro ogni sopraffazione dei più bianchi, dei più belli, dei più ricchi, dei più puliti contro i più neri, I più brutti, i più poveri, i più sporchi. Sono contro la pubblicità che ci spiega che Calimero, in fondo, è soltanto sporco. E contro i detersivi che lavano più bianco. Ci hai mai pensato? Una camicia rossa, lavata a dovere, diventa bianca oppure resta rossa? Un popolo che discrimina non è civile. Ma Lei davvero crede che gli Stati Uniti, questo paese così progredito, ma nato qualche secolo fa colla pistola in pugno, possa chiamarsi civile? No, guardi, viva la faccia di questa povera Italia sfottuta e invasa da tutti (cominciò Odoacre e finì, per il momento, Eisenhower) che bene o male i suoi negri se li tiene.
C’è molto in questa risposta: il rifiuto della società americana “così civile e così progredita eppure nata con la pistola in pugno” e il rifiuto di ogni razzismo, anche quello implicito e apparentemente innocente di Calimero.
Ma c’è anche un passaggio, all’inizio, che denota una profonda conoscenza dell’argomento non ché un atteggiamento diffuso tra gli intellettuali italiani (Fernanda Pivano su tutti) dell’epoca: il rifiuto di un “ipotetico razzismo negro” è sicuramente dovuto alla conoscenza diretta delle derive più estreme dei movimenti afrocentrici tra gli anni ’60 e ’70. Un argomento sul quale Bianciardi ebbe modo di tornare, sollecitato ancora dai lettori del Guerino. Questa volta si chiedeva un’opinione sulla figura di Angela Davis:
Signor Bianciardi, Lei afferma di non sapere chi sia Angela Davis: si vergogni! La invito a documentarsi e ad esprimere su questo meraviglioso personaggio della storia d’oggi un giudizio (possibilmente) onesto.
Signor Pozzi, io so benissimo chi è Angela Davis, ma non ne voglio parlare perché il discorso mi fa male alle budella, mi creda. Abbia pazienza, dia tempo al tempo, e quando avrò digerito il gran magone per l’arresto della filosofa negra (magone che mi impedisce di dare un giudizio sereno) ne parlerò.
Bianciardi ha ben chiara l’importanza della figura di Angela Davis, e probabilmente l’epiteto di “filosofa negra” fu dovuto all’effettiva conoscenza dei suoi scritti. Ricordiamo che tra il 1967 e il 1971 ci fu un vero e proprio boom editoriale di pubblicazioni riguardanti la lotta degli afroamericani: biografie, scritti politici e romanzi invasero le librerie e vendettero migliaia di copie nel periodo che fu sicuramente quello di maggiore influsso della cultura dei ghetti americani sul pubblico italiano.
Se Bianciardi aveva grande rispetto per Angela Davis, non si può dire lo stesso per quanto riguarda “Cassio/Maometto” Ali.
A proposito di Clay ti dirò che il personaggio non mi è simpatico. Vedi, io non sono razzista e quindi ho il diritto di dire, chiaro e tondo, se e quando un negro mi è antipatico. E poi non sono sicuro che abbia sempre vinto in modo ‘pulito’. L’incontro col povero Sonny Liston non fu per niente chiaro.
Bianciardi era profondamente antirazzista, e sentiva il bisogno di rivendicarlo per poter parlare male del simbolo degli afroamericani. Una visione del mondo molto avanzata per l’epoca, propria di uno straordinario intellettuale che, non a caso, venne emargianto in vita dall’industria culturale.
Un antirazzismo, quello di Bianciardi, che anche al giorno d’oggi ci appare avanzato, in un’Italia che, a differenza degli anni ’70, vive sulla propria pelle le contraddizioni dell’identità razziale degli “italiani dalla pelle scura”.
Nell’Italia del 2014 assistiamo al penoso spettacolo di un campione dello sport come Mario Balotelli che, cominciando a interrogarsi sulla propria identità di afroitaliano in modo molto meno audace rispetto agli atleti americani del secolo scorso, viene quotidianamente insultato in maniera razzista proprio da quei lettori di rotocalchi sportivi che, a differenza del pubblico del Guerin Sportivo degli anni Settanta, non hanno nessuna remora a mostrare pubblicamente il volto orribile della discriminazione.