di Pietro Nenni (da Sei anni di guerra civile in Italia, 1929)
Assistei a Fiume, nel settembre 1920, alle feste dell’anniversario della marcia. Si aveva l’impressione di vivere alla corte di un principe del Rinascimento, colto e magnifico. D’Annunzio si alzava all’alba. Era il primo a giungere all’appuntamento fissato ogni mattina ai suoi soldati ed era, più che una passeggiata, una corsa folle lungo la riva del mare o sulle colline circostanti. Alla tappa, il «comandante» parlava a quegli uomini il solito linguaggio immaginifico e violento. E la riunione terminava ogni volta con lo stesso cerimoniale:
– A chi l’Italia?
– A noi!
– Che fanno i nostri nemici?
– Schifo!
Subito dopo D’Annunzio si dedicava agli affari «di Stato». Riceveva molta gente, moltiplicava messaggi e ambascerie, teneva rapporti con i Croati, gli Ungheresi, persino con i bolscevichi che sembra lo tenessero in grande considerazione. Collaborava a numerosi giornali.
Ma il progetto che, in quel momento, occupava il suo spirito avventuroso, era una marcia su Roma. A questo scopo non aveva esitato a sollecitare l’appoggio o quanto meno la neutralità dei socialisti, senza peraltro ottenerla. Quale pegno del suo interesse per la classe operaia, aveva pubblicato una Carta del Lavoro, vero codice di uno Stato corporativo. Sognava di sbarcare a Rimini o a Ravenna, di rifare la strada di Cesare, di giungere a Roma, sciogliere il parlamento e proclamare la dittatura dei patrioti.
– Che cosa faremo dei deputati?, gridava ai suoi soldati.
– Salsicce.
– No, ci avvelenerebbero.
– Allora li sculacceremo, in piazza Colonna!
– Così, va bene…
Ma dove le sue qualità di attore di alto stile raggiungevano la perfezione era nei «comizi dialogati». Quasi ogni sera, convocava i suoi legionari ad una specie di grande rapporto. Esponeva e commentava i fatti del giorno. Che eloquenza! Che tagliente ironia! E quale veemenza contro i negoziatori di Versailles, da Clemenceau a Wilson. Erano quelli certamente i brani più belli dell’oratoria dannunziana che, d’altra parte, manca, com’è noto, di vera emozione. Quando l’esposizione del comandante era finita, cominciava un pittoresco dialogo. Gli si ponevano delle domande. Si sollecitava la sua opinione su questo o su quell’argomento. Alla fine lasciava l’arengo dopo aver scambiato il saluto alla voce che più tardi il fascismo doveva riprendere:
– Per Gabriele D’Annunzio
– Eia, eia, alalà!
– Per il popolo di Fiume!
– Eia, eia, alalà!
– Qual è il nostro motto?
– Me ne frego!, rispondevano gli arditi alzando il pugnale, mentre il profilo mefistofelico di D’Annunzio si illuminava di un malizioso sorriso.