di Alessandro Morera
“…e nondimeno, andate leggermente a pigliarvelo nel culo”
(Woody Allen/Howard Prince ne Il prestanome)
Il maccartismo affonda le sue radici nella reazione della destra americana a quel Work Project Administration (WPA) che rientrava nella più vasta rete d’interventi sociali grazie ai quali gli Stati Uniti uscirono dal periodo della grande depressione, il new deal roosveltiano degli anni Trenta. Nello specifico il WPA nasce nel 1934 erogando finanziamenti statali a favore della produzione artistica, ed è proprio grazie a questo progetto che nascono i due grandi teatri nazionali americani, il Federal Theatre e il Group Theatre: ad una branchia del primo (il Negro’s Theatre Project) fu affidata la direzione economica a John Houseman, il quale a sua volta nominò direttore artistico l’allora giovanissimo Orson Welles, che aveva compiuto da poco 22 anni, mentre nel secondo si affermarono una nuova generazione di registi e drammaturghi trentenni quali Clifford Odets, Irwin Shaw, Lee Strasberg, Elia Kazan e Joseph Losey.
L’offensiva dei censori politici, sia democratici che repubblicani, segnò la fine di queste esperienze artistiche dopo pochi anni, quando riuscirono a imporre il divieto governativo di allestire nuovi spettacoli fino al 1° luglio del 1937, causa imminenti tagli e ristrutturazioni, mettendo i sigilli al teatro Maxine Elliott dove sarebbe dovuto andare in scena The Cradle Will Rock, un dramma in musica scritto da Marc Blitzstein in favore del movimento operaio, con la regia dello stesso Orson Welles.
Welles sfidò comunque il decreto governativo mettendo in programma lo spettacolo per il 16 di giugno, ma le guardie federali occuparono e sigillarono la sala il giorno prima, cosicché decise di affittare un altro teatro, il Venice, scavalcando in maniera creativa i regolamenti sindacali che vietavano l’ingresso in scena del cast: Blizstein salì sul palco suonando le musiche e declamando i movimenti di scena, mentre gli attori recitavano le battute e cantavano le loro canzoni dalla platea. Il successo fu egualmente enorme, tanto che lo spettacolo venne replicato nella stessa forma improvvisata fino al cadere del divieto.
Probabilmente The Cradle Will Rock fu l’unico dramma proletario che andò in scena negli Stati Uniti, nonostante la censura tentò di impedirne la rappresentazione: Tim Robbins, con il suo fervore politico, nel 2001 ha tratto dall’episodio un debole film, con l’omonimo titolo della pièce, che però non rende giustizia della complessità degli eventi e delle tensioni in campo in quel determinato periodo.
The Cradle Will Rock venne recitato anche durante il viaggio degli attori dal Maxine Elliott al Venice Theatre, come una sorta di happening di strada, aprendo così di fatto la scena alle future esperienze del Living Theatre e di tutto il teatro americano degli anni Sessanta, dove l’elemento di protesta sociale era contiguo a quello delle rappresentazioni che invadevano gli spazi urbani della società. Come si leggeva in un manifesto del Group Theatre, pubblicato sul Federal Theatre Magazine: “Noi siamo il teatro viaggiante nei parchi, Shakespeare sulle colline, Gilbert e Sullivan in uno stagno, Toller su un camion […] recitiamo nelle scuole, nelle arene, nelle carceri, nei riformatori e negli ospedali. Siamo i Living Newspapers, il teatro negro e il teatro yiddish…”. A tal proposito anche André Bazin, nel suo libro dedicato a Welles, ricordò come “quando il governo vietò di rappresentare al Federal Theatre The Cradle Will Rock, e la compagnia trovò le porte del teatro sbarrate, Orson Welles improvvisò per strada su due piedi, per gli spettatori in abito da sera, uno spettacolo che consentì di attendere che si trovasse una soluzione… non so cosa i critici lodarono di più il giorno dopo, sui giornali, se la messa in scena di The Cradle Will Rock o quell’altra, la fantastica improvvisazione su scala cittadina, che la inglobava come un dettaglio con Orson Welles, appollaiato su di un camion, che ipnotizzava la folla come Marc’Aurelio sul cadavere di Cesare”.
Non a caso la House Committee on Un-American Activites (HUAC ovvero Commissione per le Attività Antiamericane) venne istituita proprio nel 1937 e il primo presidente fu il senatore democratico del Texas Martin Dies Jr., che si prefisse di smascherare le infiltrazioni comuniste, termine riferito poi a qualsiasi associazione a favore dei diritti civili e umani, dei lavoratori o che avessero come scopo il miglioramento della società, in poche parole la maggior parte delle associazioni popolari operanti nei diversi settori della società, dall’amministrazione pubblica all’esercito, dalle scuole ai sindacati, dalla finanza allo spettacolo, bollate come sovversive e antiamericane. La HUAC, violando palesemente la costituzione, condannò le persone anche solo sulla base di semplici sospetti e/o indizi senza che essi dovessero essere supportati da prove concrete, agendo così in maniera autoritaria e palesemente antidemocratica.
Nel frattempo l’affermarsi dei vari fascismi in Europa e l’invasione hitleriana dell’Europa centrale fecero prendere coscienza agli Stati Uniti quale fosse il vero pericolo totalitario, fino ad allora abbastanza ignorato, con il conseguente impegno nella Seconda Guerra Mondiale (avvenuto in effetti con un certo ritardo se si pensa agli avvenimenti dell’epoca). Subito dopo l’affermazione delle forze alleate, il pericolo rosso e liberal divenne nuovamente la principale preoccupazione della politica nazionale americana, tanto che la HUAC raggiunse l’apice della sua (nefasta) gloria negli anni che vanno dal 1947 al 1954, soprattutto grazie alla paranoia del suo più fervido politico, un signore di mezza età semi alcolizzato, il senatore repubblicano del Wisconsin, Joseph McCarthy.
Guidata dal senatore McCarthy, la commissione si scagliò soprattutto contro le due maggiori industrie americane: quella hollywoodiana e quella militare. Proprio agli inizi del 1947 l’associazione dei produttori Motion Picture Association of America (MPPA) decise di denunciare dieci loro associati tra sceneggiatori e registi, diventati tristemente famosi come “i dieci di Hollywood”, anche se uno di essi in seguito rinnegò la propria partecipazione ai movimenti liberali di quegli anni, dieci nomi che vale la pena ricordare: Edward Dmytryk, Dalton Trumbo, Samuel Ornitz, Herbert Biberman, Lester Cole, Alvah Bestie, Ring Lardner, Adrian Scott, Albert Maltz, John Howard Lawson. Quest’ultimo fu il primo ad appellarsi al primo emendamento della costituzione americana, la quale garantisce a ogni cittadino americano la libertà delle proprie opinioni politiche, religiose e filosofiche, evitando di rispondere.
Nonostante gli altri nove lo seguissero nel rifiutarsi di rispondere alla domanda inquisitoria della commissione “è o è mai stato un membro del partito comunista?”, l’MPPA e l’affermarsi di un clima sempre più previdente da parte dei capitani della maggiore industria cinematografica del mondo fu inevitabile: la stessa MPPA istituì una blacklist sulla quale segnare (e segnalare) i sospetti comunisti, soprattutto dopo le condanne penali riportate dai dieci, alcuni dei quali scapparono proprio per non subirne gli effetti (tranne Dmytryk che, in seguito alla latitanza londinese tra il ’49 e il ’51, decise di abiurare le proprie idee pur di tornare a Hollywood).
Dmytryk non fu di certo l’unico né tanto meno il più eclatante personaggio dello spettacolo a rinnegare le proprie idee pur di tornare a lavorare in una realtà economico-finanziaria di alto livello, ma di certo fu il primo a fare il mea culpa di fronte alla HUAC. Lo fece nel momento peggiore della democrazia degli Stati Uniti d’America, quando i coniugi Rosenberg vennero condannati a morte per attività spionistiche e antiamericane, sospettati di aver consegnato 7 anni prima dei piani riguardanti la bomba atomica all’URSS, molto prima che l’Enola Gay sganciasse la bomba atomica sul suolo giapponese, tralasciando il fatto che nel 1944 gli USA e l’URSS erano alleati.
Nello stesso anno un altro giovane senatore repubblicano della California, Richard Nixon, venne alla ribalta come fautore della HUAC. Nel frattempo alcuni registi, seppur non direttamente collegati ai processi svolti dall’HUAC, proprio per evitare di rispondere democraticamente appellandosi al primo emendamento della costituzione degli Stati Uniti d’America, preferirono emigrare: Charlie Chaplin in Svizzera, Joseph Losey in Inghilterra, Orson Welles gironzolando per il mondo, mentre Joris Ivens fu costretto ad allontanarsi dagli Stati Uniti ai primi del 1945, poiché aveva girato nel 1937 un documentario a favore dell’intervento delle brigate internazionali nella Guerra civile spagnola, Earth of Spain, su sceneggiatura di Ernest Hemingway e John Dos Passos, con sottofondo musicale di Marc Blitzstein.
Altri non ebbero questa fortuna e subirono processi che sfiancarono le loro famiglie, i figli, le amicizie e soprattutto le loro identità. Molte delle personalità inquisite furono costrette a lavorare sottopagate, sceneggiando film o dirigendoli sotto altri nomi; ovviamente coloro che pagarono più di tutti tale situazione furono gli attori: Zero Mostel, pur essendo un eccellente attore, probabilmente deve la sua fama soprattutto al fatto di essere stato iscritto nelle blacklist negli anni Cinquanta, prima di venir resuscitato da Mel Brooks alla metà degli anni Settanta come vecchio attore di secondo piano. Mostel non era l’affermato John Garfield o il giovane promettente Lionel Stander, eppure anche la sua vita fu rovinata così all’improvviso, come a un signore di 35 anni al quale tolgono improvvisamente la sua famiglia, il suo lavoro, le sue libertà, nonché la dignità, neanche l’avessero trovato a camminare a piedi nudi nel parco, in un periodo nel quale portare un cappello a cilindro significava essere tacciati come comunisti.
Nel 1953, un testo teatrale, The Crucible (Il Crogiuolo), di uno dei più grandi drammaturghi dell’epoca, Arthur Miller, anch’esso sfiorato dall’HUAC, definiva quegli avvenimenti come il periodo moderno della caccia alle streghe, istituendo un parallelismo tra il processo alle streghe di Salem nel 1692 e la contemporaneità. Il testo teatrale di Arthur Miller ebbe uno strepitoso successo, ma, nonostante ciò, l’industria cinematografica risultò come paralizzata nell’affrontare se stessa e quel periodo, seppur risulta oggi facile, e inevitabile, leggere in maniera metaforica tanti dei film hollywoodiani dagli anni Sessanta in poi come reazione al maccartismo, soprattutto da parte degli autori più significativi che subirono le conseguenze della caccia alle streghe. Un esempio su tutti Spartacus diretto da Stanley Kubrick e sceneggiato da Dalton Trumbo, nel quale la lotta degli schiavi contro l’esercito di Roma venne riletta a posteriori come la lotta per la libertà di espressione contro la ferocia del maccartismo.
Emblematico risulta proprio il caso di Trumbo, arrestato nel 1947: appena scarcerato fuggì in Messico dove continuò a scrivere sotto pseudonimo molti film, tra i quali il soggetto di Vacanze Romane e la sceneggiatura di La più grande corrida per i quali vinse, all’insaputa dell’Academy, due Oscar. Nonostante la piena riabilitazione nei primi anni Sessanta, fino al 1971 Trumbo non riuscì a portare sullo schermo il suo bel libro antimilitarista del 1939 E Johnny prese il fucile. E non è un caso che fino al 1976 il tema del maccartismo non fosse mai al centro di un film, non solo hollywoodiano: in quell’anno, l’allora ottuagenario ed ex blacklisted Martin Ritt, già regista dopo la fine della persecuzione nel 1956 di Quella lunga estate calda, con il ritorno di Welles a Hollywood in veste di attore, realizzò The Frontman (Il Prestanome), un film con protagonista l’allora famosissimo comico Woody Allen, un film che di comico non ha nulla, riprendendo gli stilemi di denuncia sociale, sotto forma spettacolare, dei film americani del primo dopoguerra.
La pellicola affronta la vicenda focalizzandola dal punto di vista dei tanti che furono costretti a lavorare sotto falso nome, sfruttati e sottopagati da colleghi tolleranti nei confronti del loro status di pericolosi sovversivi, autori come Dashiell Hammett, Lilian Hellman, Abraham Polonsky, Jules Dassin, Robert Rossen e Walter Bernstein che fu anche lo sceneggiatore del film di Ritt. Nel 1988 invece Irwin Winkler in Indiziato di reato affronta la vicenda dal punto di vista della perdita della propria vita quotidiana, degli affetti più cari, del degradarsi delle amicizie, concentrando la vicenda sul protagonista, interpretato da Robert De Niro: un regista accusato di essere comunista in un film che, nonostante l’assunto poderoso, si sviluppa in maniera abbastanza convenzionale e scontata. A differenza del più recente film di George Clooney Good Night and Good Luck, che invece concentra abilmente l’attenzione sul giornalista televisivo che più di ogni altro mise in luce la palese violazione dei diritti democratici e le storture inquisitorie prodotte da Joseph McCarthy, Edward R. Murrow.
Murrow fu un vero e proprio paladino della libertà democratica e combatté in prima persona con il suo programma televisivo See It Now la battaglia contro la potente HUAC, decretandone la fine e permettendo agli USA di uscire da uno dei periodi più bui della propria Storia.
Di certo l’esempio scelto da Clooney è un esempio alto e perfettamente adatto a rappresentare gli elementi in gioco, grazie a una forma cinematografica sobria e asciutta, la stessa del volto del protagonista, David Strathairn, che proprio per questo risulta adatta ed efficace a illustrare l’atmosfera dell’epoca. Nella realtà infatti, nel successivo programma condotto da Murrow alla CBS-TV Person to Person, il 25 novembre 1955 venne intervistato l’ormai esule Orson Welles, favorendo il suo reinserimento in ambito lavorativo ad Hollywood dopo un’assenza durata 9 anni. Quell’Orson Welles che a suo modo si ritenne in parte responsabile, anche se in maniera ironica, dell’elezione al Senato di Joseph McCarthy: “…penso che sarebbe stato molto più interessante usare il cinema e i media in generale a scopi diversi, non solo di intrattenimento. E una volta per un pelo non mi sono candidato per il Senato, in Winsconsin. Il mio avversario sarebbe stato Joe McCarthy – dunque ce l’ho sulla coscienza – ma questa è un’altra storia”. Ecco, per l’appunto, questa è un’altra storia che forse qualcuno un giorno avrà la forza e il coraggio di raccontare attraverso il mezzo cinematografico, anche se alcune storie sembrano essere troppo grandi persino per il cinema.