Alberto Burgio, Gramsci. Il sistema in movimento, DeriveApprodi 2014, pp. 496, € 27,00
A quasi ottant’anni dalla sua scomparsa (27 aprile 1937), il pensiero e l’opera di Antonio Gramsci costituiscono ancora una eredità allo stesso tempo ingombrante e rassicurante per la sinistra e il movimento operaio italiano e continuano a rappresentare un problema di interpretazione per tutti coloro che si occupano di politica, filosofia, etica e storia d’Italia.
Che questo problema risieda nel ruolo effettivamente svolto dal comunista di lontane origini albanesi come militante, pubblicista, deputato e dirigente dell’allora Partito Comunista d’Italia oppure nella sua riflessione affidata alla trentina di Quaderni compilati durante la sua lunga detenzione carceraria dipende da molti fattori. Non ultimo l’artificiosità delle scelta che fecero pubblicare le sue lettere e i suoi quaderni in forme diverse e in tempi molto lunghi a partire dal secondo dopoguerra1 .
Certo è che Gramsci è stato sicuramente uno dei punti di riferimento del pensiero politico degli ultimi sessant’anni e, anche, uno degli uomini di cultura, “di sinistra”, più studiati in Italia e all’estero. Ciò è sicuramente indice della fecondità del suo pensiero, ma, anche, senza dubbio della sua contraddittorietà e complessità. Anche se in tutto questo, va qui subito chiarito, ha pesato non poco, fin dagli anni successivi alla caduta del fascismo, l’opera di recupero e canonizzazione messa in atto nei suoi confronti dallo stesso Palmiro Togliatti.
Alberto Burgio, docente di Storia della Filosofia presso l’Università di Bologna, si occupa di Gramsci ormai da molti anni. Gli ha dedicato opere e articoli che da soli basterebbero già a riempire una biblioteca sull’argomento e, forse proprio per questo, con quest’ultima opera ha voluto realizzare una corposa ed importante sintesi del pensiero politico di quell’uomo dagli occhi chiari “da sognatore” che sempre avevano colpito quello che è stato considerato, spesso a torto, uno dei suoi grandi avversari all’interno del Partito Comunista delle origini: Amadeo Bordiga.
Diviso in diciotto capitoli, di cui circa la metà costituiti da rielaborazioni di articoli precedenti, il libro affronta tutte le maggiori questioni politiche e filosofiche poste dal pensiero gramsciano, sia durante il periodo di militanza “libera”, prima nel Partito Socialista e poi nel Partito Comunista di cui fu uno dei fondatori, sia nel periodo della detenzione, attraverso i Quaderni dal carcere e, in misura minore, le lettere.
La teoria o le teorie di Gramsci sono qui ordinatamente suddivise in due tempi, prima e durante il carcere, e per temi.
Così, nella prima parte i temi principali finiscono con l’essere quelli della coscienza di classe e del suo manifestarsi nel soggetto, della sua rappresentanza politica attraverso la democrazia e/o la rivoluzione e, in fine, quello della anticipazione e previsione dei tempi . Temi che è impossibile vedere separati da quella che fu la riflessione sulla crisi e sui compiti del Partito Socialista, portata avanti sulle pagine, soprattutto, de L’Ordine Nuovo (fondato nel 1919) e attraverso l’esperienza delle lotte operaie che accompagnarono la prima Guerra Mondiale e poi, successivamente alla stessa, l’occupazione delle fabbriche e il Biennio Rosso.
Temi che, però, accompagneranno ancora la sua riflessione all’interno del Partito Comunista e durante la sua brevissima permanenza effettiva ai vertici dello stesso dopo il congresso di Lione, tra il gennaio del 1926 e il novembre dello stesso anno quando fu arrestato e condannato a vent’anni di galera dai tribunali del regime.
Argomenti, comunque presenti, in maniera nemmeno troppo sotterranea, anche in tutta la sua elaborazione successiva, che costituisce non solo la “seconda parte” del libro, ma quella decisamente più cospicua (12 capitoli su 18) del testo.
Qui entrano in gioco le categorie “gramsciane” più note: la società civile, la “quistione dell’egemonia”, le rivoluzioni passive, il cesarismo, la transizione, l’americanismo e il fordismo oltre che l’analisi del fascismo come “razionalizzazione regressiva”, quella del Risorgimento e del pensiero di Machiavelli applicato alla storia d’Italia e della sua lotta tra le classi. Dove si rivela, come afferma fin dalla prima riga Burgio, tutta l‘inattualità di Gramsci.
Inattuale perché lontano dai discorsi politici, mediatici e filosofici odierni. Tutti così superficiali e privi di rigore. Improntati al facile consumo parolaio, a differenza del discorso gramsciano spesso intricato nella ricerca di un rigore oggi non più di moda. Discorso spesso sviluppato in solitudine quasi assoluta. Lontano dal Partito e, spesso, dalle sue scelte, sempre più indirizzate dal formalismo e dall’autoritarismo dell’Internazionale stalinizzata. Un discorso che spesso, soprattutto nella prima parte, è lontano da Marx e più vicino alla tradizione idealistica del Croce.
Ma inattuale, forse, anche per la canonizzazione imposta, come si è già detto prima, a partire da Togliatti che volle, in qualche maniera, potersi presentare al suo ritorno in Italia, a capo del Partito Comunista (diventato) Italiano, come legittimo erede del suo pensiero e che ha fatto sì che si sviluppasse, a partire dal 1950, uno dei più importanti istituti di ricerca politica legati alla sinistra istituzionale: la Fondazione Antonio Gramsci, divenuta poi Istituto Gramsci nel 1954. Istituto che dal 1994 conserva l’intero Archivio storico del Partito Comunista Italiano, dall’anno della sua costituzione (1921) all’anno del suo scioglimento (1991).
Insomma una autentica rifondazione delle stesse origini del Partito Comunista Italiano che, rimuovendo le scomode figure di Amadeo Bordiga e Brunio Fortichiari ( solo per citare due nomi desaparecidos per un lungo periodo dalla storiografia piccista), faceva del comunista sardo il “vero” fondatore del partito stesso, trasformandolo in una sorta di santo protettore della sua linea e delle sue scelte . Ciò, naturalmente, poco toglie alla figura di Gramsci, ma molto è servita ad alimentare una lettura del suo pensiero che è andata dalla convenienza politica più sfacciata, per giustificare ad esempio la “svolta” del compromesso storico fino a recenti, e ancor più forzate letture, in chiave liberale. Complicando quindi, e di molto, la questione dell’effettiva valenza del suo pensiero.
Eppure come si fa a non cogliere, oggi, tutta l’attualità di una riflessione su una borghesia pavida: “Prodotta secoli addietro «dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale»” (pag. 374) oppure sul fatto che “Sul piano politico-storico, l’alto prezzo pagato dal paese all’attitudine antipopolare di gran parte della sua borghesia ( i Quaderni parlano di un «egoismo gretto, angusto, antinazionale») è nientemeno che la mancata formazione di quella volontà collettiva senza la quale è impossibile, secondo Gramsci, dare vita ad uno Stato moderno forte e dotato di adeguate potenzialità di sviluppo” (pag. 375).
Per Gramsci “ogni rivoluzione passiva risulta da un rapporto di forze che permette al dominante di dirigere (volgendole a proprio vantaggio) trasformazioni divenute inevitabili” così che “la rivoluzione passiva è il «documento storico reale» della debolezza dei subalterni. Dell’insufficiente forza d’urto delle classi sociali subordinate e, in primo luogo, dell’inadeguatezza delle loro élites politico-intellettuali, incapaci di ordinare, potenziare e finalizzare quella forza, dando alle domande di mutamento uno sbocco pienamente rivoluzionario” (pp. 370 – 371). E anche se l’analisi riguarda soprattutto le élites risorgimentali è chiaro che la riflessione di Gramsci , qui sintetizzata da Burgio, non poteva non riferirsi ai compiti posti all’organizzazione di classe nell’ora del dominio fascista.
“I Quaderni inquadrano il fascismo nel contesto analitico relativo alla rivoluzione passiva. Al pari del «nuovo industrialismo» americano – ma con un sovrappiù di brutalità e violenza militare tipico del bonapartismo – il fascismo rappresenta un paradigma della forma novecentesca di rivoluzione passiva, cioè un intervento restaurativo privo di valore progressivo. Concepito e realizzato al solo scopo di arginare gli effetti distruttivi della crisi e di prolungare le sopravvivenza della forma sociale capitalistica (la sua «durata»)” (pag. 393).
Il fascismo, come il fordismo e l’americanismo, doveva rispondere ad impellenti esigenze di programmazione e pianificazione della produzione, ma esattamente come le altre due forme ancora doveva svolgere la sua funzione di mantenimento dell’ordine economico-sociale borghese e dello sfruttamento di una classe su un’altra. In questo contesto, all’interno della produzione industriale moderna, taylorizzata, Gramsci individuava però le condizioni di quella che potrebbe essere la moderna autonomia operaia ovvero la capacità dei lavoratori di esercitare la loro egemonia sulla società attraverso forme di controllo della produzione e di autogoverno dei produttori.
Una posizione parzialmente proto-consigliarista, che già in passato si era scontrata, questa sì davvero, con le posizioni bordighiane. Nel febbraio del 1920, “commentando le manifestazioni di massa («movimenti spontanei e incoercibili») e le lotte del lavoro in corso nel paese, Gramsci scrive che esse «hanno, per i comunisti, valore reale in quanto rivelano che il processo di sviluppo della grande produzione industriale ha creato le condizioni in cui la classe operaia acquista coscienza della propria autonomia storica, acquista coscienza della possibilità di costruire, con l’ordinato e disciplinato lavoro, un nuovo sistema di rapporti economici e giuridici che sia basato sulla specifica funzione che la classe operaia svolge nella vita del mondo». Non si tratta di concessioni alla retorica rivoluzionaria, ma di un ragionamento da prendersi alla lettera. Nel senso che l’idea di un sovvertimento generale della gerarchia dei poteri a partire dalle trasformazioni dei processi industriali è sottesa all’intera analisi di quello che i Quaderni chiameranno «nuovo industrialismo»” (pp. 332 – 333).
Il testo di Burgio solleva quindi tante questioni quante effettivamente ne deve sollevare una attenta lettura dell’opera di Gramsci, di cui rappresenta un ottimo compendio, ma per non tediare oltre il lettore occorre fermarsi a questo primo, superficiale approccio propositivo.
Uno degli appunti che si possono fare al lavoro sul “sistema gramsciano” è forse quello di una accettazione un po’ troppo passiva della vulgata togliattiana della distanza tra Gramsci e Bordiga (tra i quali rimase sempre una grande e reciproca stima ed amicizia a differenza di quanto avvenne tra il primo e Togliatti con cui i rapporti si erano chiusi molto presto) che servì, prima, durante e dopo il fascismo a giustificare le giravolta del Partito Comunista e del Comintern e del Cominform, pubblicando sia la corrispondenza che gli stessi Quaderni dal carcere in modo da far corrispondere una continuità di intenti tra il pensiero gramsciano e le scelte politiche del Migliore2.
Qualche nota di carattere storico in più e qualche ulteriore riferimento a qualche opera recente sui reali rapporti tra Gramsci e Togliatti3 non avrebbero guastato e avrebbero contribuito a liberare una volta di più Gramsci dalle catene interpretative che gli sono state imposte, non solo dal fascismo, a partire dal 19264 .
Catene che ne hanno spesso fatto una sorta di monolito, appianandone le contraddizioni (ad esempio il suo prolungato idealismo di stampo crociano così evidente, anche se negato, nella prima parte del libro di Burgio) e banalizzandone anche gli aspetti più contraddittori ma gravidi di spunti di riflessione.
Però negli ultimi due capitoli del testo in questione l’autore apre due significative parentesi sui legami tra il pensiero di Gramsci e quello di Antonio Labriola e di Benedetto Croce fornendoci ulteriori dati per comprendere una figura in eterno bilico tra determinismo e idealismo che, più che attraverso Marx, era giunto ad una più definita dialettica materialistica non solo attraverso gli spunti forniti da Lenin e dalla Rivoluzione d’Ottobre, ma anche attraverso il confronto, talvolta anche duro ma mai scorretto, con un rivoluzionario più vicino al determinismo marxista come Bordiga. Citato, purtroppo, nel testo solo e sempre in chiave negativa così come la tradizione del PCI togliattiano ci voluto tramandare fin dagli anni del Comintern.
Il testo di Alberto Burgio ha sicuramente il pregio di riordinare sistematicamente un pensiero magmatico, a tratti onnivoro e difficile da seguire attraverso la ragnatela di rimandi filosofici, economici, storici e culturali che derivavano spesso, soprattutto nei Quaderni, dalla solitaria lettura impostagli dalla condizione di carcerato; ma, talvolta, lo fa con una eccessiva determinazione nel volerne garantire l’intima coerenza, perdendo così l’occasione, ed è questo l’altro appunto che gli si può fare, di renderlo più vitale e attuale sottolineandone le contraddizioni e tutte le differenti influenze a cui fu sottoposto nella sua evoluzione storica reale, liberandolo dalle incrostazioni dovute ad una lettura, troppo spesso, a senso unico e di carattere quasi agiografico.
Basti pensare che solo a partire dal 1975 furono pubblicati, a cura di Valentino Gerratana, i Quaderni nel loro effettivo ordine cronologico. Mentre per un’edizione quasi integrale delle Lettere dal carcere è occorso ancora più tempo. Infatti la prima edizione del 1947 ne conteneva 218, mentre altre 77 inedite furono pubblicate nel 1964 e ancora 119 l’anno successivo. L’ultima edizione, uscita nel 1995 ne comprende 494 in tutto. ↩
Ad esempio, nella prima edizione delle Lettere dal carcere qualsiasi riferimento a Bordiga era stato espunto sistematicamente ↩
si veda ad esempio: Chiara Daniele, a cura di, Gramsci a Roma, Togliatti a Mosca. Il carteggio del 1926, Einaudi1999 ↩
In quell’anno Bordiga, il 22 febbraio, aveva presenziato al VI Plenum allargato dell’Internazionale Comunista e aveva chiesto conto della situazione venutasi a creare all’interno del partito russo ai danni dell’opposizione e della società nel suo insieme. Il 14 ottobre di quello stesso anno l’Ufficio Politico del PC d’I, capeggiato da Gramsci, aveva scritto al Comitato centrale del partito comunista russo più o meno sugli stessi temi. Ventiquattro giorni dopo Gramsci veniva arrestato in Italia e nel 1929 Bordiga veniva definitivamente espulso come deviazionista trotzkista dal partito di cui era stato uno dei fondatori e il primo segretario. Il nome di Togliatti non compare né tra quelli che si riunirono nel 1920 come frazione astensionista e comunista, né tanto meno tra i fondatori del partito Comunista a Livorno nel 1921 ↩