di Simone Scaffidi Lallaro
Argentina-Germania, 13 luglio 2014
Copacabana è un quartiere decaduto da almeno quarantanni ma l’Europa non lo sa, per questo i due olandesi hanno prenotato al lussuosissimo Hotel Palace una suite completa di due letti matrimoniali, svariati divani e una piscina interna. Passeggiano l’uno dietro l’altro calpestando il sinuoso mosaico bianco e nero che li divide dalla sabbia gialla e dall’oceano atlantico, il primo tiene per mano Juliana, il secondo cinge il fianco di Carla. In un ristorante sull’Avenida Atlantica consumano un pranzo a base del noioso riassunto di Olanda-Costa Rica: monosillabi inglesi, mani sudate e sorrisi forzati. Quando l’uomo che indossa la numero 9 di Van Persie chiede il conto Carla fa scivolare il tovagliolo per terra e con la caviglia ne attutisce la caduta, lo raccoglie con un gesto rapido e lo risistema sul tavolo. All’uscita del ristorante i due gringos si distraggono ammirando le sculture di sabbia sul lungomare: la collina del Corcovado con il Cristo Redentor, il faccione di Neymar e la riproduzione dello stadio Maracana semi-abbattuta. Carla approfitta della distrazione dei due uomini per scaricare su Juliana una raffica di parole rapidissime, la sua lingua fino a quel momento sinuosa e cantata assume di colpo le caratteristiche dure e serrate del portoghese che si parla dall’altra parte dell’oceano. Juliana la guarda contrariata, mentre il viso di Carla s’indurisce per poi sciogliersi – al ridestarsi degli olandesi – in un sorriso depistatore.
Le mani pallide e arrossate dei due uomini sulla spalla destra di Juliana e su quella sinistra di Carla, la ragazza alla reception che consegna la chiave elettronica della stanza, i pori che si chiudono sotto i colpi d’aria condizionata e gli occhi di Carla che fissano quelli riflessi di Juliana nello specchio dell’ascensore. Poi le porte si aprono precedute da un segnale sonoro che anticipa la venuta di due energumeni vestiti di nero, fra le loro spalle s’insinua un divo che assomiglia in tutto e per tutto a Cristiano Ronaldo. I tre indossano occhiali da sole scuri.
– Ma tu sei Cristiano Ronaldo? – domanda Juliana.
– Sì, sono io – risponde lui abbassandosi gli occhiali sul naso e regalando un sorriso ai suoi fan. A quel gesto i due olandesi reagiscono sbavando come cani e pronunciano una sommessa richiesta: «autograph please, autograph». Carla è impassibile, pensa ad altro. Juliana rimane a bocca aperta. Al segnale sonoro dell’ascensore Cristiano saluta e promette di tener fede alla richiesta del suo pubblico: – vi lascerò l’autografo di sotto, alla reception.
I due gringos non stanno nella pelle, appena entrano in camera si lanciano sul frigobar e tracannano due birre gelate commentando l’incontro straordinario. Nell’altra stanza Carla è decisa a continuare il discorso interrotto davanti alle sculture di sabbia ma viene anticipata dalla voce di Juliana:
– Sarà qui per la finale, magari ce lo ritroviamo seduto vicino allo stadio… ma tu avresti mai pensato di poter assistere alla finale del Mondiale? Pensa che delirio se ci fosse stato anche il Brasile?
– Senti Juliana io non ci sarei mai voluta essere.. tanto meno a queste condizioni.. ti sei dimenticata cosa ti ho detto là fuori? Stai con me o vuoi rimanere sola con questi due schifosi?
– Una volta in più o una volta in meno che cambia Carla?
– Questi non mi piacciono.. mi fanno più ribrezzo degli altri.. e poi sta maglietta del cazzo che vogliono che indossiamo.. li hai visti giocare Bruno Martins e Wijnaldum a Salvador? Erano gli unici due negri in campo per l’Olanda!
– Ma come tornerai a Salvador Carla?
– Un modo lo troveremo, sappiamo arrangiarci..
– Un modo lo troverai, io non ti seguo. Cosa racconterai ad Adriana?
– Adriana capirà, siamo sempre state corrette con lei.. stiamo qualche giorno a Rio e poi puntiamo verso nord.. un piccolo viaggio ci farà bene.. Rio non è peggio di Salvador.. la strada qui non è peggio che là..
– Questi per i nostri standard ci coprono d’oro Carla.. d’oro! Andiamo avanti per mesi con i soldi di ‘sti pervertiti!
– Ripuliamoli e filiamocela Juliana..
– Ma come pensi di scappare? Questo hotel è un bunker per ricchi..
Urla e risa concitate sopraggiungono dalla stanza accanto, la numero 11 di Robben si sporge dallo stipite e pronuncia quella che all’apparenza può sembrare una domanda ma ha le insindacabili sembianze di un ordine:
– Garotas de Ipanema.. shower?
Presto il dessert acquistato a Bahia avrebbe eretto i peni flaccidi di puttanieri transcontinentali. Nude e bellissime nelle loro imperfezioni le due ragazze uscivano dalla doccia, asciutte ma senza asciugamano, come era stato loro ordinato.
– T-shirt please – disse Robben, mentre con una gamba su una sedia e una sul divano terminava di sistemare la seconda delle due telecamere che avevano deciso di installare nella stanza.
– Nederland campeão do mundo – gridò eccitato Van Persie.
Carla esitò, poi raggiunse il divano e indossò la maglietta, il contatto dei capezzoli con il tessuto sintetico le procurò più fastidio del solito. La lingua sulla bocca, le mani in mezzo alle gambe, la spalla di Carla che si torce e s’insinua sotto il cuscino, un gesto rapido e il coltello rubato al ristorante penetra nell’avambraccio di Robben. Un urlo imprecante inonda la stanza, Carla estrae il coltello dalla carne mentre il sangue le sporca la maglietta. Correre senza pensare ma prima infilarsi i pantaloncini lasciati sul tavolo, gridare a Juliana di seguirla ma vederla costretta tra le braccia di Van Persie. Nerissima e brillante la pelle di lei, bianca e lentigginosa quella di lui. Juliana prova a divincolarsi, Van Persie non la molla, Carla si avvicina e grida a squarciagola contro di lui – che non capisce una parola del suo sfogo – poi alza il coltello come per scagliarsi sull’intreccio di corpi, lui lascia immediatamente la presa e accenna una fuga verso il bagno. Il lamento del compagno di scopate – che accasciato sul divano non accenna reazioni e si stringe il braccio ferito – fa da colonna sonora a un’altra fuga, quella delle baiane.
– Veloce infilati i pantaloni! – grida a Juliana Carla mentre minaccia con il coltello i due gringos.
– Ora prendi i marsupi rapida! I marsupi!
– Seguimi! giù per le scale! niente ascensore!
Al piano terra Carla e Juliana rallentano la corsa e superano il bancone dove Cristiano sta scarabocchiando qualcosa – forse l’autografo promesso – a passo sostenuto. Gli olandesi, travolti dagli eventi e sconvolti dall’inaspettato agguato, rimangono a leccarsi le ferite, quando si decidono a chiamare per ordinare di bloccare le due ragazze ormai è troppo tardi. Le porte scorrevoli si aprono e l’afa le assale, ancora qualche passo oltre la siepe e la corsa può continuare più forte di prima. Correre in spiaggia, confondersi tra la gente, raggiungere Ipanema.
Olavo Cuadros e il suo reparto di Eliminatori presidiano il Maracanã 24 ore su 24, al termine di Brasile-Germania 7-1 hanno avuto la conferma definitiva di essere inviati a Rio per la finale. Olavo ripensa a quei sei gol di scarto, lo stesso numero che ha permesso all’Argentina di battere il Perù ed eliminare il Brasile dal Mondiale del 1978. Si giocava in Argentina allora e quei militari – da sempre ammirati da Olavo – sapevano il fatto loro. Non lo potevano vincere e se l’erano comprato il Mondiale, altro che Mondiale della Vergogna, si sarebbero risolti molti problemi anche in Brasile comprandoselo, ma ora per colpa di Dilma l’intera nazione rischiava di cadere nel caos tra teste di idre che riemergevano dalla Baia di Guanabara e autobus incendiati a San Paolo. Senza contare che questo, dopo la disfatta contro la Germania, sarebbe stato ricordato come il Mondiale della Vergogna delle Vergogne.
– Comandante, lei pensa che sabato e domenica ci saranno degli scontri?
– Gli scontri ci saranno Roberto, ma non sarà necessario il nostro intervento, non riusciranno a riorganizzarsi in una sola settimana, sono ancora narcotizzati da Fred e compagni. I problemi verranno più avanti.
Cristiano Ronaldo finisce di mettersi il gel nei capelli, si infila lo smoking ed esce dall’Hotel Copacabana Palace scortato da due paia di occhiali a specchio. I tre salgono su un furgoncino nero dai vetri oscurati e si lasciano alle spalle l’Avenida Atlantica, poi imboccano Vieira Souto e rimangono colpiti dal tramonto mozzafiato che si distende lungo il profilo della costa. Le sagome dei surfisti si stagliano sullo sfondo argenteo del mare mentre le onde s’infrangono contro un promontorio gremito di gente: l’arpoador. Mentre Cristiano pensa che l’unico modo che ha per assistere da quella posizione privilegiata a quello spettacolo unico è travestirsi o affittare il promontorio, Juliana – accucciata sulla pietra dell’arpoador – infila una mano negli slip e tira fuori il pezzo di carta stagnola che Adriana, a Mujica do Pelò, le ha donato a Salvador prima di partire. Intanto Carla avvicina un gruppetto di ragazzi e domanda una cartina.
– Lunga o corta? – chiede una ragazza dalla s sibilante.
– Lunga, grazie – risponde Carla, saluta e torna dall’amica.
– Dovremmo liberarci di queste maglie Carla.. per il sangue ti è andata bene che sono arancioni.. ma quali altre ragazze brasiliane potrebbero girare per Rio de Janeiro con la maglietta dell’Olanda – e per di più di Martins Indi e Wijnaldum – proprio il giorno della partita tra Olanda e Brasile? Pensi che ci stiano cercando?
– Chissà.. forse sì.. forse no.. hai finito?
– Sì, guarda che capolavoro..
– Bel capolavoro ma non abbiamo da accendere..
Juliana si gode il primo tiro, poi il secondo, poi il terzo viene frenato da un pensiero non ancora definito e sbuffa il quarto in una nube di bestemmie:
– Le telecamere porra! Le telecamere! Puta que pariu le telecamere!
– Calma Juliana calma.. quali telecamere?
– Le telecamere di quei due stronzi pervertiti caralho, volevano riprendersi mentre ci fottevano fodes!
– Se per questo di telecamere è pieno pure l’albergo Juliana.. stai tranquilla..
Un’accento straniero si insinuò tra l’ansia crescente di Juliana e la calma di Carla:
– Scusate ragazze sapete dove possiamo trovare dell’erba da queste parti? – erano i ragazzi a cui Carla aveva chiesto la cartina.
– Eccola qui.. – rispose lei alzando la canna tra pollice e indice – voi avete da accendere?
– Certo, ecco – disse la ragazza dall’accento sibilante porgendo un accendino.
– Sedetevi con noi amici.. argentini giusto?
– No, spagnoli, o meglio io catalana e lui basco. Piacere, Maria.
– Mikel – si presentò il ragazzo con un sorriso.
– Io sono Carla e lei è la mia amica Juliana, siamo di Salvador.
Il furgoncino nero intanto aveva proseguito la sua corsa fino al lussuoso ristorante di Leblon nel quale Blatter e Platini aspettavano il Pallone d’oro portoghese. Al di fuori dell’inglese, meglio masticato, la cena tra Cristiano e le massime autorità Fifa si svolse suppergiù come il pranzo delle baiane e degli olandesi: sorrisi di circostanza, ironia imbarazzante, contatti fisici insperati. Il trio si sarebbe rispolverato qualche giorno dopo, allineato militarmente in tribuna d’onore, per assistere alla finalissima tra Argentina e Germania.
Olavo e i suoi compagni dormono in un albergo non lontano dallo stadio, la notte prima della finale il comandante degli Eliminatori si sveglia di soprassalto. Ancora quella visione, questa volta in sogno: Olavo e i suoi sono asserragliati dentro lo stadio, nonostante il caldo afoso li sorprende un’intensa nevicata, lui e altri Eliminatori salgono i gradoni per vedere cosa accade fuori dallo stadio: l’immagine di morte e desolazione incornicia una Rio de Janeiro inedita, ovattata da uno strato soffice di neve. Gli Eliminatori scorgono in lontananza l’incedere lento ma deciso di una moltitudine di teste, più l’esercito si avvicina e più si fa chiara la mostruosità delle sue unità, corpi dalle molte teste avanzano senza sosta, calpestando cadaveri e devastando vetrine.
Facce glabre coperte di piume si alternano a barbe corvine su guance nere, corpi femminili seminudi avanzano con neonati quadricefali tra le braccia. Striscioni e cartelli – con su scritto: Moradia, Fifa te fodes, Nao negociamos nossa terra, Nao vai ter copa, bonde jà – galleggiano sulla folla che non accenna a rallentare la marcia. All’improvviso un cordone si stacca dalla moltitudine e confluisce in un gigantesco torrente umano che assume le sembianze del serpente di carne ed ectoplasma che assilla l’esistenza di Olavo. Il volto di suo fratello gli si para davanti agli occhi tra le macerie di Sepultura, i suoni e gli odori del rituale ancestrale che segnò quella notte ritornano ad invadere l’atmosfera come un incubo. Olavo si volta ad osservare le bandiere di Argentina e Germania che sventolano indifferenti alla nevicata, in un attimo il serpente su lancia a tutta velocità contro lo stadio. Tutto sembra finire, rimane un’unica via d’uscita: svegliarsi di soprassalto per evitare lo scontro.
Il ricordo di una giornata complicata svanisce sotto i colpi del pandeiro e dell’effetto dirompente della cachaça misturata con lo zucchero. Alla caipirinha classica con il lime – Maria, Mikel e le due baiane – alternano la versione apocrifa alla fragola. Non c’è posto migliore della Pedra do sal, il tempio a cielo aperto della roda de samba, per dimenticare e lasciarsi andare. In questo luogo, situato ai piedi del Morro da Coincecão – dove ora Carla e Juliana si stringono in un abbraccio commosso intonando il Canto de Ossanha – quattrocento anni fa si instaurò la prima comunità afrodiscendente proveniente proprio da Bahia. In questa piazza, a pochi decine di metri dal porto, si vendevano i negri insieme al sale, nel mercato giornaliero degli schiavi e delle merci. Nei secoli a venire la Pedra do sal e il quartiere che la circonda sono diventati il punto di riferimento per la comunità afrodiscendente carioca. Il sincretismo derivante dalle credenze yoruba, ewe, fon e bantu ibridate al cristianesimo – e riassunto per comodità nel lemma “candomblé” – ha finito per dominare incontrastato la scena religiosa della comunità che in questo quartiere vive, così come le danze e i canti legati al samba, al choro e alla capoeira hanno monopolizzato la vita artistica del bairro.
Olavo si è auto-assegnato una pausa di tre ore in cui ha deciso di prendere un taxi e recarsi nel luogo del ricordo dei suoi avi. Quel luogo che ritornava sempre, nei racconti dei parenti e durante le cene di famiglia, e di cui i suoi genitori prima e suo fratello poi gli avevano narrato la storia. Mentre il taxi sfreccia sulla direttrice Presidente Vargas chiede al conducente di portarlo alla Pedra do sal, è venuto tante volte a Rio, ma questa è la prima volta che decide di andarci.È in Largo João da Baiana quando il gruppo Samba da Lei intona É isso aíe la gente si scatena. Una ragazza con un bicchiere di plastica in mano da cui spunta una cannuccia color giallo fosforescente lo guarda e sorride, è Juliana. Lui scosta lo sguardo: l’alcol, il sudore, l’odore di carne alla brace e la visione di quei corpi neri lo disgustano. Sono tutti compressi sulla grande pietra che risale il morro, cantano a squarciagola e ballano senza catene dimenando braccia e gambe.
– Cosa sono venuto a fare in questo posto? – si chiede Olavo a voce alta, per poi incamminarsi verso la strada dove un taxi lo aspetta per riportarlo a casa.
Cristiano Ronaldo è in piedi accanto a Joseph Blatter e Michel Platini quando l’inno argentino risuona in tutto lo stadio, al termine salirà su un volo privato e raggiungerà la sua compagna e fotomodella Irina Shayk. Olavo osserva il sole in mezzo alla bandiera albi-celeste, è vigile ma tranquillo, sicuro che la sua giornata si svolgerà senza imprevisti. Maria è accanto a Carla e Juliana, schiacciata tra i corpi dei manifestanti, paura e determinazione nei loro occhi che s’intravedono dalla fessura. Il sapore acre dei lacrimogeni lo hanno già assaggiato a Brasilia e Salvador, quello di Rio farà meno male. Con loro qualche centinaio di ragazzi e ragazze non hanno idea di dove e in che condizioni saranno al termine della finalissima. I lacrimogeni sono la certezza, i manganelli un’ordinaria previsione. La maggior parte di loro non sa dove sta andando ma sa che la direzione di quelli che stanno dentro è quella sbagliata. Nel Maracanã si nasconde un gigante che divora ed esclude, Argentina e Germania non lo espugneranno mai. Qualcuno lo difende ogni giorno, altri lo combattono ogni ora. Tre paia di occhi spuntano dal passamontagna, tre ragazze stanno rosicchiando le caviglie del gigante. Qui ed ora a Rio de Janeiro.
Puntate precedenti di Maracanaço LINK