di Luca Casarotti
Fortemente eccentrico, lontano dalle (anche se non estraneo alle) sonorità pop di metà anni Ottanta, i testi scritti in una lingua ostica persino ai genovesi: questo è stato Crêuza de mä. Uno degli esperimenti più rischiosi nella discografia di Fabrizio De André. Uno dei suoi maggiori successi. Come mai? Com’è accaduto che un pugno di canzoni incomprensibili – a meno di non avere la traduzione sotto gli occhi – è risuonato con una tale potenza nella testa e nel cuore di molti?
Esiste una risposta emotiva, che ognuno può dare per sé: l’evocazione di un altrove, il riconoscersi in un’appartenenza, o tutte e due le cose. Risposta vera, ma individuale, valida una tantum. Non esaustiva.
Se Crêuza de mä è stato così influente, se a trent’anni dall’uscita lo si continua a comprare, ristampare, rimasterizzare, reinterpretare, se non si contano le tribute band che lo suonano in giro per i locali, ci dev’essere dell’altro: motivi più profondi e collettivi, meccanismi in grado di attivare quella risonanza a distanza nel tempo e nello spazio.
I mantra vogliono che sia il quarto miglior disco italiano di sempre secondo Rolling Stone, uno dei più influenti degli anni Ottanta secondo il Talking Heads David Byrne, vogliono che abbia fondato un genere nuovo, la world music, e altre cose ancora che mi sto dimenticando. Sono dati che riducono in pillole l’impatto del disco su pubblico e critica, ma non ne spiegano le ragioni: non penetrano la carne viva di testi e musica, ché le suddette ragioni vanno cercate tra versi e pentagrammi, non altrove.
A voler riassumere quel che io ho capito di Creuza de mä, non saprei far di meglio che citare Michel Foucault:
“Occorre fare a pezzi ciò che permetteva il gioco consolante dei riconoscimenti, giacché sapere non significa «ritrovare», e ancor meno ritrovarsi: anzi, la storia non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità, ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, ma al contrario si occupa di far apparire tutte le discontinuità che ci attraversano”. (M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Microfisica del potere, Einaudi 1977)
Non so se De André conoscesse e apprezzasse Foucault. Di sicuro apprezzava Pasolini, che negli stessi anni del filosofo francese andava sviluppando un pensiero a tratti non dissimile (cfr. qui): prova ne sia che Foucault presenziò a una retrospettiva parigina del ’75 sul Pasolini-regista e la recensì per Le monde.
Durante i concerti del 1998, il cantautore era solito citare Pasolini:
“Pasolini diceva che il dialetto è il popolo e il popolo è l’autenticità”.
E continuava, alludendo a Crêuza de mä:
“Ho fatto questo disco (…) per riconoscere questa nostra etnia in un universo più vasto, quello del mar Mediterraneo”.
Nel compiere la loro ricognizione sulle musiche del “nostro” mare, De André e Mauro Pagani non sono andati alla ricerca delle radici di una cultura per affermarne la superiorità: al contrario, la loro è una dimostrazione, poetica ma non per questo meno impietosa, che non esiste nessuna superiorità identitaria, che la presunta “tradizione” può avere un senso solo nel momento in cui viene ibridata, sfidata, riutilizzata, messa in discussione. Ho usato di proposito il verbo “ibridare” e non “contaminare”. Il concetto di “contaminazione”, pur ribadito ad nauseam anche in ambienti che si vorrebbero tutt’altro che razzisti, è un altro di quelli di cui faremmo meglio a sbarazzarci il più in fretta possibile. La “contaminazione”, per esser tale, presupporrebbe una iniziale o mitica “purezza” (di sangue, di stirpe, di nascita, di costumi…). Ma niente nasce “puro”: nessun popolo, nessuna lingua o musica. Tutto è già in partenza “contaminato”.
Potrebbe essere questo il senso, uno dei sensi, di Crêuza de mä, anzi la sua allegoria profonda, per usare la terminologia di Benjamin: non c’è nessuna purezza; ci sono, semmai, millenni di culture (rigorosamente al plurale) da interrogare. L’ipotesi non è implausibile, se teniamo conto che De André aveva inizialmente l’idea di scrivere i testi in una lingua inventata, sorta di grammelot del marinaio, misto di tutte le lingue “impure” parlate nei porti e nelle città che attorno ad essi vivono.
Ma la scelta del genovese non è stata meno radicale. Se è vero che la base sintattica e lessicale è la lingua post-rinascimentale della repubblica marinara, è vero anche che Fabrizio non esita a mandarla gambe all’aria, a rovesciarla dall’interno, infilandoci una serie di voluti anacronismi, come quando menziona una “foto da ragazza” (fotu da fantinn-a) in D’ä mê riva; oppure, e ancor più scopertamente in Sidún , ricorrendo all’adynaton, cioè facendo parlare in genovese un abitante di Sidone, a cui la guerra ha strappato il figlio. Qui il cantautore usa la lingua del Seicento, ma sta raccontando un evento contemporaneo alla stesura del disco: la strage del 1982 perpetrata nella città libanese dalle truppe di Ariel Sharon, la cui voce si ascolta prima dell’inizio del brano, in montaggio sovrapposto con quella di Ronald Reagan che esalta “il crescente ruolo dell’Italia sul palcoscenico internazionale”.
E come i testi, così le musiche. Gli arrangiamenti sono addirittura più ibridi e stratificati delle liriche. Vi si trovano strumenti che spaziano – parole di De André – “dal Bosforo allo stretto di Gibilterra”: ci sono fiati tipici della Turchia come lo shanai, cordofoni greci come il bouzouki o nordafricani come l’oud, accanto a mandolini e chitarre. Nelle note di copertina si legge di uno strumento dallo strano nome, l’undulele… che non esiste. Era una beffa di Pagani, che probabilmente voleva mettere alla prova i presunti studi di etnomusicologia vantati da parecchi recensori nostrani. Infatti, puntuali, uscirono gli articoli che si sperticavano in lodi per “il sapiente uso dell’undulele”… A riprova che Crêuza de mä è un’opera meticcia, i suoni di tutti questi strumenti acustici, undulele a parte, si sommano a quelli di sintetizzatori e macchine elettroniche come il Synclavier. Anche l’interpretazione vocale di De André si fa più articolata che in passato. Forse lo agevola il genovese, zeppo com’è di gruppi consonantici gutturali, di parole tronche e sdrucciole, metricamente duttili. Pure le potenzialità microfoniche sono sfruttate con maggior consapevolezza. In studio più che dal vivo, l’artista genovese comincia ad aggiungere nuove sfumature alla sua vocalità: arrochisce il timbro, alterna il suo solito canto scandito a una pronuncia più “zoppicante” e sussurrata, in linea con la metrica.
Il risultato è un amalgama originale, un impasto musicale in cui, anche volendo, le singole identità etniche, di cui dovrebbero essere portatori gli strumenti tradizionali, non si riescono più a distinguere: un inno potente alla mescolanza.
Si diceva che Crêuza de mä ha gettato le basi per una strada, quella della world music, molto battuta negli anni successivi. Non si contano gli artisti, non soltanto musicisti, che hanno eletto De André a loro padre nobile e questo album a primaria fonte d’ispirazione. Ciò che difetta in più d’un epigono è però proprio questa complicata stratificazione di significati. C’è chi si concentra solo sulla ricerca etnomusicale e tralascia gli elementi di innovazione, così riproponendo una “tradizione” che, a forza d’esser ripetuta identica a se stessa, diventa sterile. In questo senso è interessante l’operazione sperimentata da Pagani con l’ultima riedizione del disco, uscita a febbraio in occasione del trentennale dalla prima pubblicazione. Il polistrumentista bresciano, che oltre ad essere coautore era stato anche coproduttore di Crêuza de mä, ha remixato alcune tracce dell’album, ma nel farlo ha usato soltanto le parti vocali e strumentali originali, senza aggiungere o risuonare niente: mostrando che il missaggio del 1984 non era che uno dei risultati possibili, una delle plurime possibili ricombinazioni del materiale registrato allora. Purtroppo questa nuova edizione include anche un secondo cd con una raccolta di esecuzioni live che non brillano per qualità, esito del classico svuotamento di cassetti ormai consueto in iniziative editoriali del genere. Fortuna che De André aveva l’abitudine di far distruggere i nastri di cui non era soddisfatto, dunque di roba simile dovrebbe essercene in giro ancora poca.
Tornando agli epigoni, a volte è l’accuratezza filologica a mancare, laddove De André e Pagani erano stati invece scrupolosissimi.
Con la conseguenza che al posto di essere riproposta, qui la tradizione viene inventata di sana pianta: il mitologo Furio Jesi non si stancava di ribadire che l’invenzione di una inesistente tradizione è tipica del pensiero e della “Cultura di destra”, espressione che dà il titolo al suo libro del 1979.
C’è chi si accontenta dell’uso del proprio dialetto d’origine, come bastasse quello a dar dignità letteraria a un testo, mentre in De André la scelta linguistica era in rapporto di dipendenza reciproca con il tipo di messaggio che il brano voleva significare.
Naturalmente non mancano esempi di segno contrario, artisti che si sono dedicati alla cultura popolare con attenzione meticolosa. Per restare nella cerchia di quelli che hanno collaborato con il cantautore genovese, viene in mente il nome di Andrea Parodi, che pure si muoveva in un universo estetico assai diverso. Senza dimenticare i lavori dello stesso Mauro Pagani successivi a Crêuza de mä, magari quelli meno commerciali, ma non meno saldamente pop.
Bisognerebbe sempre evitare di scrivere l’agiografia di un autore. Con De André il rischio esiste, se lo si celebra di continuo, almeno a parole, ma lo si fa smussandone gli spigoli e le contraddizioni, rendendo evanescente il lato contestatario della sua poetica, a beneficio d’una sorta di “memoria condivisa” che permette a chiunque di citarlo a sproposito, anche ai figuri più biechi e distanti dalla sua storia.
A chi si dice fan, o estimatore, o studioso di Faber, è richiesto, credo, di lavorare per mantenere attuale, radicale e tagliente il messaggio della sua opera, ritorcendolo contro chi pretende di appropriarsene, mentre farebbe bene a lasciar perdere: vedi recenti e disastrosi tentativi di celebrazione sanremesi, profluvi di serate in memoriam nel più puro spirito veltroniano e quant’altro ci offrano a cadenza periodica i palinsesti televisivi.