di Franco Ricciardiello
Roberto Bolaño, I detective selvaggi, Adelphi, Milano, 2014, pp. 688, € 25,00.
Il primo pensiero dopo la lettura delle 690 pagine della nuova traduzione Adelphi di “I detective selvaggi”, romanzo-fiume di Roberto Bolaño già apparso qualche anno fa per Sellerio, è che l’illustrazione di Trygve Skogrand scelta per la copertina rappresenta perfettamente le atmosfere dello scrittore cileno prematuramente deceduto: infatti “I detective selvaggi” è un universo di segni e simboli costruiti intorno a un mito classicheggiante, oltre che uno straziante omaggio alla purezza della Poesia e alla sua supremazia rispetto alla Vita.
Nel Messico anni Settanta in piena crisi morale, politica e sociale (un paese che l’autore conosce in prima persona a dalla dolorosa vicinanza dell’esilio), i giovani protagonisti di Bolaño sembrano muoversi sotto la superficie di un mondo acquatico, incomprensibile, pieno di epifanie che non rivelano nulla, che non hanno esito narrativo ma un valore puramente estetico. Nella copertina dell’artista norvegese si ritrova la medesima atmosfera di sogno, o d’incubo; il volto della statua classica sembra visto attraverso un vetro d’acqua, e da una prospettiva inferiore, come una gigantesca presenza minerale che incombe nella notte o forse nell’abisso. Tra l’altro, questa è una delle poche opere di Skogrand a argomento mitologico classico anziché cristiano sacro.
“I detective selvaggi” è un’opera senza genere, al contrario di quanto il titolo potrebbe fare immaginare: non è nella maniera più assoluta un’indagine, non c’è nessun mistero da svelare. Tutto ruota intorno alla ricostruzione della vita di Arturo Belano e Ulises Lima, giovani poeti di Città del Messico che si sono inventati una corrente poetica, il “realismo viscerale” o realvisceralismo, definizione presa in prestito da Cesárea Tinajero, una poetessa (anzi, “una poeta”, come dicono i personaggi nel testo) degli anni Venti. Cesárea sembra scomparsa nel nulla nel deserto di Sonora, destino comune agli scrittori di Bolaño, considerato quanto accadrà al misterioso e schivo Benno von Arcimboldi nel successivo, apocalittico “2666”.
“I detective selvaggi” ha la forma narrativa di un diario lasciato da un giovane realvisceralista; copre un limitato periodo di tempo a cavallo tra 1975 e 1976, ma è spaccato a metà da un inserto molto più lungo delle parti che precedono e seguono. Questa sezione, che dà il titolo a tutto il romanzo, è una collezione di testimonianze apocrife che iniziano cronologicamente dove termina il diario, e raccontano il seguito della vita di Lima e Belano fino al 1996: esistenze nel segno della precarietà sociale, ininfluenti dal punto di vista culturale e caratterizzate da un’astenia che si spiega solo al termine della lettura, con gli eventi drammatici che concludono l’odissea nel deserto messicano. In questa pletora di punti di vista che si esprimono in prima persona, come per un’intervista (alcuni dei quali diventano racconti autonomi di rara bellezza), mancano solo tre voci: non solo i detective selvaggi Arturo Belano e Ulises Lima, ma anche l’oggetto della loro ricerca, Cesárea Tinajero, “la poeta” che essi stessi hanno mitizzato estraendola quasi a caso dal magmatico mondo della poesia messicana di inizio secolo. Una preferenza totalmente casuale, dal momento che di lei non conoscono se non una singola poesia, che in realtà è un componimento visuale.
In realtà la casualità stessa non è casuale nel romanzo, come sceglie di evidenziare la casa editrice nel risvolto di copertina: “Il nocciolo della questione è sapere se il male […] è casuale o causale. Se è causale possiamo lottare contro di lui, è difficile da sconfiggere ma c’è una possibilità […]. Se è casuale, al contrario, siamo fregati. Che Dio, se esiste, abbia pietà di noi.”
È per questa ragione che la ricerca di Cesárea Tinajero, la poetessa ignara di essere considerata poeta da qualcuno, ha l’aspetto di un apologo postmoderno, un riflesso letterario del principio di indeterminazione di Heisenberg che potrebbe recitare così: è impossibile conoscere contemporaneamente la posizione esatta di una poetessa nel deserto del Sonora e la velocità in cui si sposta da una polverosa cittadina all’altra; l’unico modo sarebbe colpirla con un fotone, come se fosse una particella elementare, ma Bolaño ci avverte del pericolo: individuare Cesárea nel nulla dell’oblio potrebbe significare fermarla per sempre.