di Sandro Moiso
Vicenza libera dalle servitù militari (a cura di), Wars On Demand. Guerre nel terzo millennio e lotte per la libertà, Agenzia X, Milano 2014, pp. 184, € 13,00
“Gentlemen, non sono venuto in questo paese per perdere la Terza Guerra Mondiale, ho già perso la Seconda” (Walter Dornberger, capo del programma di sviluppo spaziale segreto di Hitler, davanti al Congresso americano)
Non sono esattamente ottanta le situazioni di guerra potenziale esaminate dal libro in questione ma, sicuramente, ciò che consegue ad una sua lettura è, di fatto, l’inevitabilità strutturale della guerra, anche su scala allargata e mondiale, insita nella logica stessa del capitalismo e della sua tendenza a sottomettere ai suoi principi di riproduzione ed accumulazione ogni aspetto della vita economica e sociale oltre che l’ambiente e lo spazio nel loro insieme.
Spazio che non va inteso soltanto come geografico, territoriale, terrestre, ma anche come spazio circostante la Terra e che può spingersi all’intero sistema solare, se non oltre, nel sempre meno inconfessato desiderio di dominare le comunicazioni mondiali e le risorse minerarie disponibili al di fuori della nostra atmosfera. Fantascienza di serie B? Fantasie di uno sceneggiatore transfuga di Avatar? No, semplice progetto di espansione dell’imperialismo, non solo americano, a dar retta ad uno dei saggi contenuti nel testo1
Controllo di uno spazio che comprende, anche, sempre più spesso il cyberspazio, sia per il controllo dei dati di milioni o miliardi di cittadini, sia per una guerra elettronica sempre più feroce sul piano finanziario e dello spionaggio tecnologico e militare. In cui l’arruolamento di hacker ingegnosi, tecnici, ingegneri, abili smanettoni e nerd console-dipendenti è diventato ormai per le strutture di difesa e attacco importante quanto l’arruolamento di soldati e killer ben addestrati.
Ma il testo, frutto di una collaborazione, nata in occasione della Global Conference tenutasi nel settembre 2013 durante il “Festival No Dal Molin” a Vicenza, tra giornalisti, ambientalisti e militanti anti-militaristi e a difesa dei diritti delle popolazioni locali di quasi ogni parte del mondo, si spinge fino a darci un panorama globale del rischio di una guerra reale sottesa all’attuale modo di produzione dominante e alla sua attuale crisi storica, economica e politica e, allo stesso tempo, delle forme di resistenza che le si oppongono
Tracciando una linea ideale che dalla pianura padana e dalle nostre valli alpine, corra attraverso i Balcani, l’Ucraina e l’Asia Centrale, quasi parallelamente ad un’altra che vada dalle coste meridionali del Mediterraneo verso il Medio Oriente ed Estremo Oriente, ci si può accorgere, leggendo gli interventi contenuti nel testo, di come le due linee finiscano con il convergere in un punto ideale situato nell’Oceano Pacifico, là dove la potenza declinante americana sta cercando di costruire un limite, insieme a Giappone e Corea, all’espansione economica, diplomatica e militare della Cina.
Una linea di faglia enorme, lunghissima e i cui effetti sismici possono ormai essere avvertiti in ogni parte del mondo, anche qui in Europa. Linea di faglia che, però, non ha solo rilevanza geopolitica e militare ma, soprattutto, sociale e ambientale, poiché, lungo il suo fin troppo prevedibile e catastrofico percorso, è destinata a sconvolgere sempre più l’ambiente e la vita della maggioranza dei cittadini del globo e delle società in cui vivono.
Qui sta l’interesse principale degli interventi. Spesso basati su esperienze di resistenza costruite dal basso: sia che si tratti di bloccare la costruzione e l’espansione della base aerea americana di Vicenza, sia che si tratti di bloccare l’ampliamento o la realizzazione di nuove gigantesche basi nelle isole di Guam e Jeju o nella baia di Subic, nelle Filippine, oppure di cacciare quelle già esistenti e devastanti di Okinawa, delle Hawaii o di Diego Garcia.
Salta subito agli occhi di chi legge che non soltanto i problemi sono gli stessi, ma anche che le pratiche e le esigenze socio-politiche ed ambientali che ne derivano tendono ad assomigliarsi in ogni angolo del globo2 e a far sì che gli attori delle proteste (associazioni, villaggi, territori, classi sociali) abbiano sempre più modo di intendersi e raccordarsi per azioni comuni, almeno per fini ed intenti.
Lo sguardo rivolto a chi taglia le reti delle basi americane in Estremo Oriente oppure verso chi cerca di impedire l’accesso di enormi gru e trivelle sui territori destinati ai nuovi impianti militari, oppure verso il sempre più stretto rapporto istituitosi, in ogni angolo del pianeta, tra taglio della spesa pubblica, peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro ed aumento della spesa militare e per le grandi opere, non può non spingersi a vedere, in tutto ciò, la possibilità di un nuovo internazionalismo.
Non più soltanto ideale, imposto da una scelta partitica o basato sull’autorevolezza di una singola classe, ma concreto nel suo svolgersi al servizio di esigenze reali, sentite e vissute dalla maggioranza delle popolazioni coinvolte. Toccate da una militarizzazione della società e dei territori che è destinata a far peggiorare sempre di più le condizioni di democrazia ancora esistenti e destinate, proprio per quello che accade, a risvegliarsi dal torpore prodotto dalle menzogne politico-mediatiche e ad aggregarsi in nuove forme di lotta ed organizzazione.
Raccontare o descrivere qui tutte le esperienze di lotta, le vittorie e le delusioni riportate, sarebbe troppo lungo e priverebbe il lettore del piacere della loro scoperta attraverso le pagine del libro; così come sarebbe inutile dilungarsi sull’aumentato pericolo insito in “un braccio di ferro dai toni animosi e irremovibili che paiono avere, come intento strategico, l’evocazione della guerra, sia pure solo a scopo di deterrenza. Un gioco pericoloso che accresce il rischio di un conflitto accidentale dagli effetti incontrollabili”.3
Certo è solo che, come afferma ancora l’intervento appena citato, si va affermando così “una fase in cui più mercato e più autoritarismo saranno le due facce di un’unica moneta”, non solo in Cina, cui è riferito, ma ovunque il nazionalismo tenderà a giustificare le spese militari e a compensare la miseria dell’esistenza quotidiana. Ma questo, come si è già detto, darà vita anche ad un antimilitarismo di tipo nuovo, che al contrario di quanto predicato anche dal nostro presidente della repubblica, potrebbe non essere soltanto il prodotto pernicioso di un generico e amorfo pacifismo, ma quello spontaneo e necessario delle contraddizioni indotte su scala globale dal capitalismo nell’ora della sua crisi più grave.
In un mondo in cui l’arruolamento potrebbe diventare sempre più spesso “il lavoro della povertà”: “Non c’è un manuale dettagliato che indichi i passi da compiere per sviluppare una consapevolezza che porti a vedere le lotte degli altri come proprie. Quando saremo capaci di vedere che le lotte altrui sono intimamente legate, e non in competizione, con le nostre? Può essere molto frustrante, per un attivista, aver a che fare con l’immaginario. Ma è assai stimolante pensare di poter contribuire a forgiarlo [… ] un immaginario comune, una proiezione mentale che contenga politica, strategia e speranza. Non semplicemente una mappa astratta ma qualcosa in cui credere, che viva e respiri da solo, che le persone possano sentire”.4
Un compito ed una necessità sempre più urgenti per chi voglia opporsi all’apertura delle porte di quell’inferno in terra che gli avvenimenti delle ultime ore, dalla striscia di Gaza all’Iraq, sembrano rendere, purtroppo, sempre più probabile e vicino.
Bruce Gagnon, Guerre e colonie nello spazio, pp. 51 – 61 ↩
Basti pensare, per esempio, al problema rappresentato dall’asbestosi diffusa sia tra i lavoratori che hanno partecipato alle costruzioni delle basi americane del Pacifico come tra quelli di Casale Monferrato o tra coloro che sono dediti alla cernita degli stracci a Prato oppure, ancora, a Taranto e, forse, domani tra gli abitanti della Valle di Susa se i lavori di scavo per il TAV procederanno ancora a lungo ↩
Angela Pascucci, Il triangolo fatale delle Diaoyu/Senkaku, pp.91 – 119 ↩
Michael Lujan Bevacqua, Isola di Guam. La punta di lancia dell’impero, pp.124 – 136 ↩