di Dziga Cacace
Zitto! La smetta con quel mandolino, altrimenti ci cacciano!
630 – Il mio week end perduto con Lost di J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2004
Arriva Pasqua e io devo ovviamente lavorare. Rimango quindi solo a casa mentre Barbara va via con Sofia: tre giorni di silenzio e sonno assicurato per completare un copione impegnativo. Ce la farò. Però non ho considerato che non sono veramente solo: con me, a casa, è rimasto anche il cofanetto della prima serie di Lost. Sono 24 episodi. Ma devo lavorare. E il cofanetto è lì.
Venerdì arrivo presto dall’ufficio, faccio una spesa blietzkrieg comprando cibi strategici e mi metto subito sotto, senza indugi, sono uno serio, io. Cioè vedo le prime quattro puntate del serial, sbafando patatine all’aceto e un caprice des dieux scartocciato e addentato come una banana. Sabato mi sveglio ad orario congruo e faccio il mio dovere professionale fino a tarda mattinata, quando ci stanno un kebab leggerissimo con Coca Cola e altre due puntate. Le vedo ruttando cipolla cruda. Riprendo a scrivere e a merenda gradisco ancora due episodi accompagnati da un Twix ciascheduno. Arrivo a sera stanco e un po’ appesantito, chissà perché, e allora ci sta una diavola presa sotto casa con litrozzo di Menabrea ghiacciata e come niente mi scoppio altre quattro puntate. Ormai ho preso il ritmo, sono a metà dell’opera (del cofanetto, intendo) e ho un’efficienza produttiva sudcoreana con rigore (e prevedibili punizioni, in caso di fallimento) nordcoreano. È già domenica e per pranzo concludo il mio lavoro, che non è neanche male. Santifico la festa e la libertà con Cipster, un intero salame di Piacenza ben stagionato che non mi preoccupo neanche di tagliare – tanto va via a morsi che è una meraviglia – e innaffiando il tutto con Lemonsoda a 4 gradi, uno dei piaceri della vita. Una festa a sorpresa per il mio colesterolo, ma chi ne gode di più sono i miei lobi cerebrali perché il fiero pasto viene consumato pazientemente mentre assumo dodici episodi di Lost, uno via l’altro, concedendomi giusto una pisciatina ogni tanto. E arrivato alla fine della maratona gastroseriale dichiaro convinto che probabilmente, ad oggi, questa è l’esperienza televisiva più clamorosa di ogni tempo. Fate questa semplice addizione: Robinson Crusoe + Cast Away + L’isola del dottor Moureau + Il signore delle mosche + il telefilm Le isole perdute + il videogame Monkey Island + la saga di Airport + L’isola del tesoro + il reality Survivors + l’estetica primi seventies e tutto l’immaginario pop che vi possa venire in mente. Ganci narrativi a profusione, apparato tecnico e artistico a livelli sublimi, attori azzeccati, dialoghi (in originale) perfetti: è impossibile mollarlo, è una droga potentissima, che il crack al confronto smetti quando vuoi. La storia la sapete e non ve la ripeto e l’intreccio è clamoroso. Ma la formula prevede anche flashback che illustrano il passato dei 14 protagonisti, formula quasi banale orchestrata magistralmente: ognuno ha un passato che nasconde qualcosa, tutti sono inspiegabilmente legati, anche senza saperlo. Alla fine ne viene fuori una macchina narrativa perfetta: si può fare di meglio, ma 24 episodi in 52 ore – dovendo lavorare – sono un mio personale piccolo record. Gli extra del cofanetto sono interessanti: i creatori di questa macchina da guerra sono tre trentenni adrenalinici, cazzoni e affilati come rasoi, capaci di mettere in piedi lo show – come lo chiamano loro – in pochi giorni, assoldando il cast mentre lo script era ancora in embrione. Oppure diciamo che la mitologia agiografica vuole così, ma non importa: la prima serie di Lost è un capolavoro, comunque vada a finire. (Dvd; 6, 7, 8/4/07)
632 – Compiacimento archeologico con Douro faina fluvial di Manoel De Oliveira, Portogallo 1931
Altra Vhs da estinguere, con una registrazione che mi aspetta da diversi anni: il primissimo film di De Oliveira, quando era appena ventitreenne. Il documentario è fortemente debitore del cinema sovietico ed è assimilabile alle tante “sinfonie urbane” di quegli anni. La vita sul fiume Douro, sotto il ponte Luiz I, dall’alba alla notte: grafismi, assonanze visive, dinamismi, nature morte, riflessi, ombre, particolari, montaggio analogico, primi piani, grandangolate. Ci rivedi dentro Ivens, Chomette, Ruttman, Clair (La Tour), Vertov, Vigo e molta avanguardia coeva: un film piccolo, bellissimo e montato da dio. Appagante il gusto per la bella immagine, pulita, pregnante. Non si è più abituati a questo nitore e la volgarità della tivù è nell’averci disabituato alla bellezza compositiva, all’inquadratura filmica come opera d’arte. Ecco. E De Oliveira l’anno prossimo compie cent’anni: ha cominciato col muto e il bianco e nero ed è ancora lì che gira e produce a tutto spiano. Magari chiava pure, non so. Pazzesco. (Vhs da RaiTre; 10/4/07)
639 – Oddio, Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, USA 1973
Nuova passione di Sofia duenne, che ne ha visto un pezzettino e non lo ha voluto mollare più. Ovviamente la visione è di pochi minuti per volta ed è rigidamente censurata quando le cose volgono al peggio per Nostro Signore Hippie. Il quesito che Sofia mi pone continuamente è perché litigano tutti (Gesù con Giuda, Giuda con gli apostoli, i farisei con Gesù etc.) e non s’immagina neanche lontanamente come finiscano malissimo tutte queste discussioni. Il film io lo ritrovo splendido e le ripetute visioni me ne fanno apprezzare ogni sfumatura. La musica, beh, è clamorosa, lo sappiamo già: prima di tutto, Jesus Christ Superstar è stato un disco strepitoso, realizzato perché in teatro nessuno si sentiva di produrre un’opera con protagonista Gesù. Se ti dicevano che l’ottica era quella di Giuda, poi… I due autori ventenni, Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, oggi baronetti, hanno poi fatto la storia del genere, ma all’epoca scommisero pesante. Girava una parola nuova, allora: “Superstar”. Decisero di fare i gggiovani e di usarla per un titolo che colpiva e per analogia costruirono un Gesù rockstar, con Giuda ideologo preoccupato dal troppo successo d’immagine che oscurava il messaggio. La storia acquisì anche sottotesti politici e, per me, una costante tensione omosessuale. Musicalmente siamo allo stato dell’arte del rock di quegli anni: influenzato dal pop, con reminiscenze di ragtime quando serve, perlopiù improntato da un rhythm and blues da infarto, non disdegnando tracce di psichedelia e hard (con la chitarra scatenata di Henry McCollough). Da contrapporre al Giuda discografico di Murray Head (quello di One Night In Bangkok!) serviva un Gesù potente e incazzoso, umano e non divino (stesse conclusioni di De André per il coevo La buona novella): l’ascolto delle urla barbariche di Child in Time sul non ancora pubblicato In Rock dei Deep Purple fece trovare l’uomo giusto, Ian Gillan. Maria Maddalena venne invece scovata per caso, mentre cantava in un club postribolare: era la Yvonne Elliman, che purtroppo dopo fu solo corista e amante di Clapton. Nell’ottobre 1970 uscì l’album doppio, da considerare assieme a Tommy capostipite di tutte le rock opera. Oggi siamo oltre le 20 milioni di copie vendute: avesse esordito come musical in un teatro di provincia non ne conosceremmo neppure l’esistenza. Invece il successo del disco fece fare due più due a qualche impresario che portò l’opera per 8 anni consecutivi nel West End londinese (record dell’epoca, oggi non so). Nel 1973 – sull’onda del successo ormai planetario – venne realizzato questo film meraviglioso che accentua gli anacronismi (e la stessa temperie hippie era già bella che passata) e leviga lo score musicale con l’orchestra, ma senza esagerare: infatti la chitarra continua a improvvisare a latere. Gillan, interpellato, non partecipò per impegni che dovete conoscere e nel cast subentrarono l’ottimo e strabico Ted Neeley e soprattutto il Giuda marxista che non dimenticheremo mai, Carl Anderson, morto tre anni fa, pace all’anima sua. In questo Jesus Christ Superstar sono eccezionali anche il montaggio, i costumi, la recitazione generale o le incredibili location on site, con il sole sempre basso (doveva fare un caldo dell’accidente, eh). Siccome sono prodotti del loro tempo – album doppio e film –, i critici li hanno sempre un po’ snobbati e li dimenticano ogni volta che bisogna fare una di quelle stupide classifiche che servono a riempire le riviste durante i mesi estivi. Ma sbagliano e le due opere meritano ancora oggi lo status di capolavoro assoluto. Oh, stiamo ben parlando di Dio, eh? (Dvd; maggio ’07)
640 – Io, l’altro di uno inadeguato, Italia 2007
Devo confessare l’antefatto: nell’ultima puntata del programma tivù cui lavoro è stato ospite gradito Raoul Bova, un educatissimo gnoccolone – lo confermo per le lettrici femminili con la Bova alla bocca –, molto carino. E che a registrazione ultimata ci ha invitato tutti alla prima di un film che ha prodotto e interpretato, credendoci molto. Promettono tutti di venire ma al cinema mi presento solo io (redazione di paccari snob!) e siccome non ho faccia tosta abbastanza mi siedo in mezzo al pubblico plebeo e scoprirò solo dopo che avevo un posto riservato di fianco a Giorgio Armani. Pensa cosa s’è perso: un Cacace in camicia da boscaiolo e pantaloni cargo lerci, roba che ci tirava fuori due collezioni estate-inverno per l’uomo casual. Vabbeh: il film. Due pescatori, uno italiano, uno arabo, con lo stesso nome (Giuseppe e Youssef) lavorano assieme su un peschereccio, sinché non emergono dubbi e differenze e accuse. Va prevedibilmente a schifìo: il film ha sicuramente un intento meritorio ma il veleno del terrorismo raccontato da un regista con poche letture (il tunisino Mohsen Melliti) fa crollare le aspirazioni di un apologo teatrale molto scarno. I due attori (Bova e Giovanni Martorana) tengono in piedi il film nonostante lo script schematico, con passaggi di sceneggiatura che sfiorano il ridicolo e dialoghi maldestri a dir tanto. E qui la colpa è di sceneggiatori che per conto mio meriterebbero la radiazione dall’albo, se mai esiste, perché i buoni propositi non bastano. A fine proiezione esco dalla sala perplesso, pensando ai fatti miei, dimentico dell’atmosfera celebrativa e in cima alla scalinata che dà sull’esterno mi ritrovo all’improvviso abbracciato dal coraggioso Raoul Bova, accecato da un crepitare di flash che mi avranno sicuramente guadagnato una partecipazione involontaria a Sipario su Retequattro. Succede. A me. (Multisala Odeon, Milano; 14/5/07)
641 – Lo stupefacente 24 – Season 1 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2001
Di questo seriale controverso e altamente addictive, che è il non plus ultra dell’adrenalina televisiva e che porta a un consumo compulsivo simile a quanto avviene con Lost, parlo più avanti. Qui rilevo solo l’incredibile finale del thriller spionistico, una cosa che mai potreste immaginare. Abbiate fede, procuratevelo, deliziatevene e andate all’incredibile, ricchissimo, innovativo e geniale parere d’autore (cioè il mio) che troverete alla rec. #655. (Dvd; maggio e giugno ’07)
642 – Lo spaventoso Uccidete la democrazia! di Ruben H. Oliva, Italia 2006
Documentario maldestro e, purtroppo, senza uno straccio di prova esibita, sulle elezioni politiche dell’anno scorso, quando nel corso di una giornata si passò da una vittoria schiacciante dell’armata Brancaleone di Prodi a una risicatissima maggioranza a notte fonda, pelo pelo, tanto che oggi ‘sto governo vivacchia sperando che la Levi Montalcini arrivi oltre i cento anni. A urne chiuse il nano gridò subito al broglio, e siccome “l’ho detto prima io” nessuno fece notare granché che il sospetto, al limite, era per chi aveva gestito informaticamente il voto, cioè il governo uscente. Vabbeh. Sennonché sulla vicenda è tornato quel drittone di D’Alema, parlandone en passant da Fabio Fazio, dicendo cose gravissime senza però andare fino in fondo alla faccenda (lui, Fazio, i giornalisti, tutti, CAZZO!), perché tanto siamo superiori o più semplicemente complici. Il documentario in questione affronta la vicenda ed è sgrammaticato, sceneggiato male, con escursioni narrative che confondono (Portella delle Ginestre, il cospiratore americano) e con parti ricostruite in fiction semplicemente agghiaccianti, da non poterci credere, al di là del bene e del male come recitazione e testo. Mi stupisce che nessuno si sia preso la briga di prendere una videocamera e un microfono per andare da D’Alema a fare la domanda che Fazio non ha fatto: “A Massimo bello, spiegami un po’ BENE cos’è successo… perché quando si stava mettendo veramente male hai mandato Minnitti al Viminale? Cos’ha fatto là?”. E poi, facendo la fatica di cambiare interlocutore: “Caro Minnitti, spiegaci perché arrivi tu e s’inverte la tendenza dei voti…”. E magari una domandina anche a Pisanu, via!, ministro responsabile dell’epoca. Perché il flusso anomalo di voti e l’anomalia statistica della scomparsa delle schede bianche (in tutte le regioni, con le stesse percentuali, mai successo in 50 anni di Repubblica), non sono una prova, però un bell’argomento sì. E invece rimane tutto lì, adombrato, guadagnando al film la facile accusa di complottismo. Peccato, ma proprio “no buono”, come diceva Andy Luotto. (Dvd; 21/5/07)
645 – Corri! Arriva Apocalypto di Mel Gibson, USA 2006
Seratina genovese, con papà che sonnecchia mentre su Sky passa Ogni cosa è illuminata, film rischiosissimo, tratto da uno dei romanzi più belli letti di recente. A film finito (e direi riuscito) e papà a letto ito, rimango solo con un dvd che mi attira terribilmente. Qui ne hanno parlato tutti malissimo – lo so – perché Mel Gibson sta prepotentemente sulle palle ai nostri critici. Del resto è un fascistone. Ma oltremare il film è stato ben accolto. Io non ho visto Braveheart né la Passione di Cristo per cui non ho preconcetti e se puttanata dev’essere, che puttanata sia: me lo vedo anche se è tardi perché di sonno non ne ho per niente, domani non lavoro e ho diritto ogni tanto anch’io, eccheccazzo, al diavolo l’ideologia. E poi per me Gibson rimane l’amabile tamarro con la testa gonfia di Arma letale, l’eroe post-atomico di Mad Max e il soldatino eroico de Gli anni spezzati, mio personale stracult. Gli perdono tante cose, insomma. E vengo premiato in toto perché Apocalypto è una sesquipedale e clamorosamente divertente stronzata, un videogioco indiavolato dove un povero maya della foresta dello Yucatan deve fuggire da rapitori carogne e sacerdoti amabili che ti estraggono il cuore senza anestesia. Non ho verificato l’attendibilità storica del prodottino, ma non m’importa per niente: il thriller azteco è ritmato, colorato ed efferato e va via che è una meraviglia. E poi – per fortuna, verrebbe da dire – arrivano i conquistadores che sbarcano a sinistra dello schermo, cioè percettivamente a ovest (come se arrivassero dall’oceano Pacifico, insomma): il ribaltamento di campo geografico mi manda in sbattimento psicomotorio, tipo pilota di jet che perde l’orizzonte, e mi consegna a un sonno inquieto. Apocalypto è come una parmigiana di melanzane bisunta: sai che non devi mangiarla, lo fai, ti strafoghi, ne godi. E poi hai gli incubi. (Dvd; 26/5/07)
Cacace a Mosca (con filmino ad hoc!)
Per la consueta settimana di festeggiamento annuale dei 138 Hard Rock Cafe sparsi nel mondo, me ne vò con Riccardo a Mosca, a riprendere il concerto del nostro amico Vic Vergeat.
L’arrivo nella capitale è incredibile: smog come a Mexico City e traffico come a Mumbay, con SUV giganteschi e Lada arrugginite fianco a fianco. I semafori sono a gusto della Polizia che può cambiare segnale all’improvviso, rendendo l’attraversamento pedonale divertente come una roulette russa. Il mio albergo è davanti al Ministero dell’Interno, un imponente palazzo staliniano che negli anni Cinquanta, se eri un Giovane Pioniere, doveva sembrarti un missile puntato verso il cosmo. O verso le tue terga se eri un dissidente. Dicono che l’albergo – molto frequentato da politici stranieri – sia controllato dai servizi segreti che l’hanno tutto cablato. Mah: non ci credo, non voglio intaccare il mio sincero fervore sovietico.
L’Hard Rock invece è davanti alla casa di Puskin, sul vecchio Arbat, il corso dove la gente fa le vasche come in tutto il mondo e dove puoi vedere splendide ragazze, militari sfaccendati, facce piatte di buriati e calmucchi, artisti fasulli che disegnano caricature invendibili e turisti che ci cascano. Aperto nel 2003, il locale presenta reliquie decisamente cafone come gli abiti di scena di Ozzy Osbourne e Paul Stanley dei Kiss, gli stivalazzi di quella gran signora di Lita Ford e anche la clamorosa chitarra dei Blue Öyster Cult, sagomata come il simbolo di Cronos. Il tocco indigeno è dato da qualche balalaika elettrica di artisti francamente ignoti a noi occidentali. E a tavola altro che bortsch e blinis: panini molto yankee e per i fanatici degli Aerosmith pure la “Quesadilla alla Joe Perry”, polletto con una salsina urticante con cui faccio merenda. E poi si può fumare che è un vantaggio niente male.
Dopo le prime prove acustiche e di regia torniamo in albergo a prepararci per la serata. Vic è inquieto e accusa curiosi fastidi alla schiena, sinché non scopre che è venuto in Russia con due scarpe diverse (!) che lo fanno zoppicare. Ci prepariamo ad uscire, vagamente storditi dalla conturbante frequentazione dell’albergo di donne single eleganti ed altere che intuisco potrebbero incenerirti la carta di credito. Ma io ho una faccia da deficit e non vengo considerato come possibile cliente. Ci succede di peggio: siamo nella hall con la band e, momento surreale come pochi, da una rumorosa delegazione di politici italiani si stacca l’ineffabile Giulio Tremonti – lui, giuro – che ci piomba addosso curioso. Vuol sapere chi siamo e che facciamo a Mosca e nella vita. Non a caso non si offre come commercialista a nessuno di noi. È lì con Bertinotti per non so quale incarico comunitario (Tremonti: “Una gvuan vottua di balle”) e quando sa del nostro concerto dell’indomani e dell’abilità di Vic esclama “Magavui mi imbuco!”. Fausto non ci degna che di un cenno e devo dire che tra il rotacismo dei due risulta più simpatico quello di destra, mannaggia.
Andiamo nel ristorante più quotato della capitale in questo momento, italiano. È tutto offerto dal fantastico organizzatore della trasferta Luca e siamo trattati come superstar, con cibi nostrani pregiati e freschissimi, come certe burratine che vengono fatte arrivare dalla Puglia con voli giornalieri. Fuori dal locale una teoria di Hummer corazzati tutti col motore acceso. Chiedo distrattamente il perché a chi sa di cose moscovite e la risposta mi lascia la burratina a metà gargarozzo: “Per scappare subito in caso di attentato”. Comincio a osservare allarmato la clientela e ai miei occhi diventano tutti mafiosi ceceni, trafficanti georgiani, industriali del gas e generici tagliagole. Si finisce con classici brindisi e abbracci lacrimosi con sconosciuti e seppur barcollanti guadagniamo di nuovo l’albergo. Ric dorme 9 ore consecutive, senza pipì; io sono svegliato dagli SMS di sua moglie e tormentato da un’aria condizionata siberiana inarrestabile.
Il giovedì mattina è dedicato a un ovvio pellegrinaggio alla piazza Rossa. Vic compra delle scarpe nuove ai magazzini GUM, io mi faccio turlupinare acquistando alcune memorabilia sovietiche palesemente false, Ric riprende tutto, anche quando una guardia ci invita ad abbassare le telecamere, non capiamo se volendo una mancetta o cosa. La piazza è grossa ma non come credevo e San Basilio è proprio piccina, un labirinto espressionista. Pranziamo all’Hard Rock Cafe e poi dedichiamo il pomeriggio a prove estenuanti, fino all’ennesimo frugale spuntino e al concerto vero e proprio, davanti a una cinquantina di persone.
Dopo l’esibizione ceniamo per l’ennesima volta nel locale, un po’ appesantiti, francamente, e nell’euforia post partum Vic ci racconta convinto della storia dell’uomo bicazzo, cui Ric e io non crediamo assolutamente. Complice la birra prima e le vodke dopo chiedo curioso di come siano posizionati i peni e ipotizzo rapporti a “presa elettrica” con la famosa donna con due buchi del culo. Ric ha un attacco di risa isterico e in albergo deve prendere il Ventolin perché ha ancora l’affanno asmatico un’ora dopo. Però poi scopriamo che la difallia esiste eccome (sui due buchi del culo non ho investigato).
Il venerdì siamo ancora storditi da alcolici, fumo e rivelazioni morfologiche, ma ci concediamo una visita più accurata del centro di Mosca, ritornando infine sulla piazza Rossa e visitando l’emozionante monumento dei caduti della seconda guerra mondiale. Ci sono segni dell’impero sovietico un po’ ovunque, non nascosti, neanche esaltati, ma presenti. Come il paragone quasi orgoglioso tra Putin e Lenin. Poi è già ora di ritorno a casa e dopo due ore in coda fino all’aeroporto Sheremetyevo, con un tempismo da film thrilling saliamo a bordo. Mosca addio. Come diceva Abatantuono nell’immortale Eccezzziunale veramente: “Che popolo, lo slafo!”. Ah: poi al concerto Tremonti ha dato buca. (Live 13, 14, 15/6/07)
655 – 24 – Season 2 di Joel Surnow e Robert Cochran, USA 2002
Se arrivate dalla recensione #641 vi ho fregati: per i miei pensierini su questa serie magistrale vi tocca aspettare la #688 perché, lo confesso, ciurlo nel manico anche nella #672. (Dvd; agosto ‘07)
660 – Non ho capito benissimo A History Of Violence di David Cronenberg, USA 2005
Mah! Adesso: non è che se un film lo firma Cronenberg, debba per forza essere un colpo di genio… io son rimasto freddo, confesso, mentre tutto il mondo ha gridato al miracolo. L’unica cosa che mi ha colpito è quando a metà pellicola c’è l’idea clamorosa della lite che finisce in trombata: Viggo Mortensen e Maria Bello litigano furiosamente, si menano di brutto e poi – dopo un’occhiata elettrica – scopano come cani per le scale di casa. Detto questo, mi pare un film algido, in qualche maniera irrisolto, che parte bene per poi andare totalmente sopra le righe nella seconda parte. Ma non sembra averlo notato nessuno. Boh, sbaglierò io! Ed ero pure di buon umore: l’oracolo immerso nella pipì ha confermato, l’anno prossimo ripartono le notti magiche perché arriva un altro figlio, oh yeah! (Dvd; 25/9/07)
(Continua – 61)