di Luigi Franchi
21 settembre 1862
Combattere apertamente il nemico per non morire oggi, trattare in segreto con lo stesso nemico per garantirsi un domani.
Il presidente Lincoln sapeva bene come la politica fosse abituata ai giochi di potere, a queste manovre occulte tra rivali che si accordavano di nascosto sulla pelle delle migliaia di soldati gettati gli uni contro gli altri nella carneficina della guerra.
Lincoln sapeva anche che tutelarsi nella vita non fa mai male: una volta riappacificati il Nord e il Sud, come sarebbe stato possibile mantenere a lungo il potere senza il pericolo di un’insurrezione da parte degli schiavi, dei nuovi arrivati dall’Europa o, ma questo era improbabile, degli indiani abbandonati a se stessi nelle riserve?
Tutti si aspettavano dal presidente un colpo di scena, quella “mossa del cavallo” in grado di spiazzare chiunque e di assicurare a sé e ai suoi sostenitori un futuro da protagonisti.
«Presidente, è davvero convinto che sia la cosa giusta da fare?» chiese il suo consigliere Phoenix.
Lincoln era seduto alla scrivania del suo ufficio dove stava terminando di scrivere il proclama che avrebbe cambiato in maniera radicale la storia della nazione.
«Caro il mio Phoenix», rispose il presidente, «i razzisti disprezzeranno quanto sto facendo e mi odieranno ancora di più, mentre i liberali faranno i salti di gioia. La cosa divertente della faccenda è che i loro sentimenti non avranno nulla a che vedere con le ragioni profonde che mi hanno spinto a ideare questo provvedimento».
Phoenix continuava a passeggiare avanti e indietro per lo studio, facendo scorrere la mano sul lungo tavolo posto al centro della stanza.
«Presidente, lei a volte parla proprio per enigmi. Cerchi di essere più chiaro e permetta anche a me di capire», chiese il consigliere.
Lincoln si alzò dalla sedia, si versò un bicchiere di whiskey e con calma disse: «Phoenix, dimmi cosa vedi fuori dalla finestra?».
La risposta non tardò ad arrivare: «Vedo il nostro esercito, presidente».
«Sei una persona sveglia, Phoenix, però in certe occasioni preferirei tu fossi un po’ più accorto e prestassi maggiore attenzione ai dettagli», aggiunse Lincoln.
«Va bene, presidente. Diciamo che vedo il nostro esercito e noto come questo sia formato in gran parte da schiavi che abbiamo arruolato per fronteggiare quei maledetti sudisti», specificò Phoenix.
«Bravissimo, sapevo di avere scelto un ottimo consigliere», disse ridacchiando il presidente, che poi aggiunse: «Proviamo a volare un po’ con la fantasia adesso, ti va?».
Phoenix rimase leggermente frastornato da questa strana proposta, ma fece di sì a Lincoln che proseguì: «Come ti sentiresti se tu fossi un nero?».
Il consigliere non aspettò nemmeno la fine della domanda e disse: «Presidente, mi fa piacere che lei voglia lavorare con la fantasia, però non le permetto di offendermi. Io sono americano da generazioni, i miei prozii furono tra i primi a posare il piede sulla nostra amata terra».
«Non scaldarti troppo, Phoenix», lo rassicurò Lincoln, «e rispondi semplicemente alla mia domanda».
Il consigliere ci pensò un po’ su e poi disse: «Beh, presidente, trattato come un oggetto fino a poco tempo fa, arruolato come carne da cannone ora e destinato a ritornare tra la merda dopo. Direi che mi sentirei da schifo se fossi un nero».
«Bene, Phoenix, hai capito dove volevo arrivare», disse Lincoln, «ma il problema che si presenta ora che la guerra sta per terminare è nuovo: quando abbiamo arruolato gli schiavi abbiamo commesso una leggerezza. Non avevamo pensato che avrebbero potuto tenersi le armi e rivoltarsi contro di noi».
Il consigliere rimase scioccato da quest’ultima riflessione del presidente, non avendo mai pensato a un’eventualità del genere. Dopo essersi ripreso, Phoenix chiese: «Presidente, lei si merita davvero il ruolo che migliaia di americani le hanno chiesto di ricoprire, ma non ci sarebbe un modo meno radicale dell’abolizione della schiavitù per mettere sotto controllo tutti i neri che vivono negli Stati Uniti?».
Lincoln si era già posto un migliaio di volte la stessa domanda, ma la risposta era stata sempre la stessa: «Caro Phoenix, condivido in pieno i tuoi dubbi, però vorrei invitarti a seguire le mie riflessioni: quando gli schiavi diverranno cittadini americani non avranno più la causa comune del razzismo attorno alla quale organizzare la loro resistenza. Ovviamente il razzismo non scomparirà, ma diventerà un problema del singolo ex schiavo il quale, nel caso volesse appellarsi alla giustizia, sarà costretto a confrontarsi con le istituzioni di noi bianchi…».
«…e in quel caso, non potrà mai averla vinta di fronte alla legge», concluse Phoenix, che ammirava sempre di più l’astuzia del presidente.
Il consigliere, però, non era ancora convinto dell’efficacia del piano e per questo domandò a Lincoln se l’imponente numero di schiavi affrancati non rimanesse comunque una minaccia per gli Stati Uniti.
Un’altra volta ancora Lincoln rivolse uno sguardo accondiscendente verso il collaboratore e rispose: «Phoenix, domandandomi ciò dimostri di non essere un gran conoscitore dell’animo umano. Una volta che i neri otterranno la cittadinanza, in cambio di qualche misero aiuto governativo da parte nostra, molti di loro finiranno per credersi veri americani, criticando i loro fratelli che, invece, capito l’imbroglio, continueranno ad opporsi alla nostra politica».
Phoenix aveva sentito qualche volta parlare del divide et impera, ma non aveva mai creduto che un pensiero tanto astratto potesse essere applicato alla realtà di tutti i giorni con effetti così devastanti. Il consigliere, dopo aver battuto le mani al presidente, in un clima di euforia che gli fece dimenticare per un attimo il suo ruolo di subalterno disse a Lincoln con fare beffardo: «Presidente, provi a pensare se i finti aiuti che vuole dare agli schiavi si spingessero fino all’elezione di un presidente nero, non sarebbe divertentissimo?».
Lincoln rimase allibito, ma, una volta ripresosi, rispose: «L’avevo detto prima che sei sveglio. Noi non vivremo mai fino a quel giorno, ma quella è proprio la parte finale del mio piano».