di Marco Cavinato
Sono arrivato alla comunità di San Marcos Avilés, situata in cima a un altopiano nel cuore della Selva Lacandona, grazie a un progetto del Fray Bartolomé de Las Casas, il centro per la difesa dei diritti umani che da 25 anni dalla città di San Cristobal de Las Casas sostiene in diversi modi le vittime della violenza e della repressione nello stato messicano del Chiapas, e quindi principalmente gli indios. Da qualche anno è operativo il progetto ‘‘Bricos”, che consiste nel documentare lo stato di alcune situazioni di conflitto attraverso l’invio di ‘‘brigate civili di osservazione’’. Le brigate sono destinate alle zone nelle quali il conflitto è vivo oppure dove è latente ma la tensione è comunque alta, quindi soprattutto in quelle comunità dove vive chi ha scelto la strada dell’autonomia e della resistenza. Nelle comunità autonome, zapatiste ma non solo, il conflitto è normalmente causato da militari o paramilitari che agiscono nella zona, ma in alcune realtà, come quella di San Marcos Avilés, le ragioni sono da ricercare all’interno della comunità stessa.
Nel 1994, anno dell’insurrezione dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, l’uomo che possedeva tutte le terre della comunità di San Marcos è stato cacciato da quegli indios che aveva sfruttato fino al giorno prima. Il possidente, poi, ha preteso una liquidazione per lasciare quei terreni ai contadini ribelli. “Abbiamo già pagato con il sangue dei nostri compagni”, è stata la risposta che ha ottenuto da loro. Da quel giorno le terre sono state dichiarate di proprietà dell’EZLN, per essere lavorate dalla gente di San Marcos che, dopo decenni di sfruttamenti e angherie, ha cominciato ad avere la possibilità di scegliere le condizioni del proprio lavoro e di beneficiare per intero dei suoi frutti. Così per un paio d’anni la comunità resta compatta e diventa una delle tante basi d’appoggio zapatiste, note anche con l’acronimo BAZ, ma nel 1996 arrivano i programmi d’appoggio del governo federale e dello stato del Chiapas, che rappresenteranno la prima causa di divisione nelle comunità autonome.
Gli indigeni che indossano il passamontagna per conquistare ‘‘terra e libertà’’, infatti, hanno conquistato un alto livello d’attenzione mediatica internazionale, troppo alto per essere repressi nel sangue secondo i “metodi” tradizionali dei governi messicani. Così, sia a livello statale che federale, il governo intraprende in Chiapas quella che viene definita ‘‘guerra sporca’’ o di bassa intensità: da una parte, paramilitari prezzolati che aggrediscono comunità e fanno sparire persone manovrati e finanziati dai partiti in un contesto di progressiva militarizzazione della regione. Dall’altra, appunto, i programmi di appoggio che prevedono aiuti economici per madri capofamiglia, per le famiglie con bambini e anziani a carico, oppure crediti e versamenti per ristrutturare casa. Insomma il governo messicano si ricorda improvvisamente dell’esistenza degli indios, in una regione che a livello nazionale ha la più alta percentuale di popolazione indigena, da sempre dimenticata, sfruttata ed emarginata, e che è anche quella meno alfabetizzata e con il più alto tasso di mortalità infantile. È quindi a colpi di puro assistenzialismo che i governi da allora cercano di fermare il dilagare degli zapatisti nelle comunità, senza presentare un solo progetto serio di sviluppo per queste.
Anche a San Marcos Avilés i programmi d’appoggio governativi hanno creato una netta divisione: dal 1996 molte persone hanno iniziato a togliersi il passamontagna e a uscire dall’organizzazione zapatista, della quale oggi fanno parte 34 famiglie: circa 140 sono invece le famiglie che si sono iscritte ai partiti politici nazionali per ricevere i loro soldi, i soldi degli stessi partiti che anche qui hanno sempre supportato i padroni delle terre e le multinazionali ai danni dei popoli che da sempre abitano queste zone. Tutto questo non rappresentava un problema di per sé per i compas (che è come i compagni zapatisti si chiamano tra loro), ma è chiaro che chi già si è venduto voglia sempre di più: quando nel 2010 hanno dichiarato che avrebbero costruito una scuola autonoma per i propri figli, come disposto dalla comandancia dell’EZLN, gli uomini passati dalla parte dei partiti (ricevere i programmi d’appoggio significa la sottoscrizione ufficiale al partito) definiti ‘‘partidistas’’ hanno utilizzato questo pretesto per presentarsi armati nelle case delle famiglie zapatiste e cacciarle nella notte.
Secondo quanto affermano i compas le intenzioni dei loro vicini partidistas sono chiare da anni: in nome della loro legittimità di fronte al “manipolo di testardi” che continua a far parte di un movimento clandestino di insorti, avrebbero come unico obbiettivo quello di appropriarsi di tutti i terreni appartenenti alle famiglie zapatiste. Per fare in modo che i propri figli potessero frequentare una scuola differente da quelle del “mal gobierno”, che impongono la storia coloniale e che tendono a negare le tradizioni e la cultura indigena, le 34 famiglie sfollate si sono trovate a soffrire la fame e il freddo nella notte della montagnane alcune donne hanno dovuto partorire in condizioni difficilmente immaginabili. Con il supporto delle comunità zapatiste vicine e di varie associazioni civili i compas sono potuti tornare dopo 33 giorni, trovando le loro case saccheggiate, alcune piantagioni distrutte e il raccolto del caffè completamente sparito.
Da allora la situazione continua a essere tesa, e attualmente la principale questione (o pretesto per alimentare il conflitto) è quella legata all’elettricità che i compas non pagano al mal gobierno. Questa disobbedienza non sembra piacere ai partidistas che in varie occasioni hanno minacciato di cacciare nuvamente le 34 famiglie delle BAZ e di tagliare i cavi della luce che utilizzano. La nostra brigata di osservatori del progetto Bricos si ritrova all’alba a San Cristobal per salire su un furgoncino, pronto a lasciare la città per inoltrarsi nella selva, ed è composta da me, un tedesco, una spagnola e una venezuelana. Ci vogliono sei ore per arrivare alla comunità di San Marcos. Un compa di cui conosciamo solo il nome ci attende al municipio di Chillòn per poi salire assieme a noi sull’ultimo mezzo che si arrampica per la montagna fino ad arrivare alla cima dell’altopiano. Lì ci troviamo davanti alla escuelita autonoma, centro delle discordie del 2010, con i suoi murales in cui spicca l’immancabile faccione di Zapata. Ci siamo.
L’accoglienza è calorosa e i primi giorni scorrono pacificamente. Addirittura, durante la festa di un santo per la quale gli zapatisti hanno invitato una banda a suonare, lo spazio dedicato alle danze viene circondato da giovani appartenenti alle famiglie di partidistas che un compa, preso il microfono, invita a unirsi a loro. Per qualche ora ballano tutti insieme. Nonostante l’apparente tranquillità iniziale sono tanti i piccoli segnali che ci fanno percepire il costante stato d’allerta: ogni volta che ci muoviamo veniamo scortati da un compa e ci viene raccomandato di non lasciare la zona dell’accampamento dopo le 8 di sera.
All’inizio della seconda settimana l’uomo che assieme alla sua famiglia condivide la casa con noi ‘‘osservatori’’ ci mette al corrente di alcune voci secondo cui i partidistas avrebbero l’intenzione di tagliare alcuni cavi che portano la luce alle case delle famiglie zapatiste. La sera stessa i compas si riuniscono nella zona del nostro accampamento e improvvisamente cominciano a dileguarsi. Qualcuno ci dice frettolosamente che, in effetti, sono sorti problemi legati ai cavi della corrente, mentre un uomo esce imbracciando un fucile. Per ore non sappiamo niente di ciò che sta succedendo, e l’unico zapatista che dopo qualche ora ci raggiunge non parla una parola di spagnolo, essendo la lingua locale il maya ‘‘tzeltal’’. La ragazza spagnola giura di aver sentito degli spari. Per tutta la sera donne agitate passano con i figli per la zona dell’accampamento. Con le orecchie sempre tese ci addormentiamo a fatica senza sapere niente.
La mattina successiva un compa ci sveglia alle 7 chiedendo a me e al tedesco di seguirlo, mentre le due ragazze restano nell’accampamento. Scattiamo su, ci infiliamo gli scarponi ai piedi, le macchine fotografiche in tasca e ci avviamo dietro di lui. Strada facendo ci spiega che, com’era stato previsto, i partidistas hanno tagliato alcuni cavi che portano luce ed energia a una decina di case di famiglie zapatiste. I compas arrivati sul posto sono stati ricevuti con un lancio di pietre, accompagnate da minacce: quando i partidistas si sono avvicinati a un secondo pilone per tagliare anche quei cavi, un gruppo di donne zapatiste li ha accerchiati per proteggerlo. Anche loro sono diventate il bersaglio di un fitto lancio di pietre e due di esse hanno riportato ferite alla testa e al corpo.
I partidistas hanno sparato alcuni colpi in aria e, nonostante la scelta degli zapatisti di non reagire alle provocazioni, per tutta la notte la tensione è rimasta alta. Ci riferiscono anche che quella stessa mattina c’è stato un altro tentativo di tagliare i cavi, non appena i compas si sono allontanati un attimo, alla fine della nottata di veglia. infine un nuovo lancio di pietre ha ferito due zapatisti. Arrivati sul posto, Luis, l’uomo che ci fa strada, ci mostra alcune pietre che sono state lanciate. C’è un tetto di lamiera sfondato da altri pietroni. Dopo aver scattato alcune foto, saliamo fino ai piloni. I cavi sono stati tagliati. Fotografiamo, documentiamo, guardiamo in alto.
Dal nulla compaiono, scendono dalla montagna una trentina di uomini, puntano decisi verso di noi, hanno in mano pietre, bastoni, fionde e qualche machete. Il compa Luis non indietreggia di un passo, e noi di certo non lo lasciamo solo. Le grida e le minacce sono soprattutto contro di me e il tedesco: ‘‘Non vogliamo gringos, tornatevene a casa vostra”. Sono istanti lunghi, densi, quelli in cui ci fronteggiano a pochi metri di distanza, puntandoci contro le fionde. A un tratto sentiamo delle grida dal basso: un gruppo compatto di compas, saranno una ventina, sta salendo verso di noi. Ci affiancano. Le due fazioni iniziano a discutere più che animatamente, e le uniche parole che possiamo cogliere in mezzo a tante frasi incomprensibili, gridate nella loro lingua, sono gli insulti. Dopo circa cinque minuti di tensione tra i partidistas compare qualcuno con una scala e un gruppo di loro si avvia verso un altro pilone. I compas ancora una volta decidono di non raccogliere la provocazione. Tra l’altro il goffo tentativo, “scala in mano”, stavolta non riesce perché l’attrezzo non è abbastanza alto. Lentamente il gruppo di partidistas si disperde e da questo momento la situazione pare sotto controllo, le cose si “normalizzano” per il resto della giornata e nei giorni successivi. Certo, continuano le minacce e le voci circa un possibile nuovo attacco ai danni dei compas, ma da queste parti ci sono abituati, sono problematiche “ordinarie”.
L’esperienza di poter condividere due settimane con queste famiglie della basi di appoggio zapatiste è stata incredibile. E incredibili sono anche la determinazione e la dignità di questi uomini e queste donne. La partenza da San Marcos è stata come un abbandono amaro, un adiós a tutte le famiglie con cui abbiamo condiviso luoghi, resistenze, speranze ma anche incertezze e inquietudini. Soprattutto per chi nel 2010 ha vissuto l’esperienza del desplazamiento, cioè la cacciata dalle proprie terre, e per i bambini ancora di più, le minacce si trasformano in paura, ma, ascoltando le loro parole, sembra che tutti, anche i più piccoli, abbiano compreso la portata della loro sfida. L’esperienza zapatista di costruzione dell’autonomia è qualcosa di straordinario anche per il livello di coscienza che questa gente ha acquisito. Nel mezzo della selva, in comunità tanto piccole quanto isolate e divise internamente come quella di San Marcos, si possono trovare esempi di resistenza quotidiana praticata con la massima naturalezza e consapevolezza.
I compas di San Marcos mi hanno impressionato per la lucidità con cui affrontano le situazioni di tensione e conflitto, e non si puà che ammirare la loro forza nel seguire ostinatamente il percorso dell’autodeterminazione, che per loro non è più un sogno. A chi è consapevole di questo non importa quale sia il prezzo. Tutto questo separa in modo netto i compas dai loro vicini che si sono venduti agli stessi partiti che hanno sempre favorito lo sfruttamento, l’emarginazione e l’eliminazione degli uomini e delle donne che abitano la selva. A San Marcos Aviles 34 famiglie, come migliaia di altre nel Sudest messicano, stanno combattendo quella che gli stessi zapatisti hanno definito “guerra contra el olvido” (“guerra contro l’oblio”). Non vogliono più essere dimenticati, messi da parte, in balia del proprio destino. “Mai più un Messico senza di noi” recitava uno striscione della carovana zapatista che nel 2006 percorse tutto il paese e realizzò la Otra Campaña. Chi, come i compas di San Marcos, non ha dimenticatole proprie origini, non abbassa la testa, non si lascia comprare e non si stanca di resistere, sta vincendo ogni giorno che passa. E allora ¡que siga la lucha!