di Roberto Sturm
Monica Pareschi è una delle più importanti traduttrici italiane e ha tradotto, tra gli altri, autori del calibro di James G. Ballard, Doris Lessing e Bernard Malamud. Lavora nel campo dell’editoria anche come editor freelance e cura una collana di classici femminili per Neri Pozza. Recentemente ha esordito nel campo della narrativa con un’antologia di racconti, edita da Italic Pequod, di qualità sorprendente dal titolo È di vetro quest’aria.
Monica, cosa ti ha spinto al debutto come scrittrice?
Credo che per alcuni traduttori tradurre sia come aggirare il problema, come prendere voce senza essere autorevoli. Conosco anche persone che hanno fatto il percorso inverso, per esempio Tommaso Pincio con cui parlavo pochi giorni fa. I traduttori sono i lettori per eccellenza e credo che spesso siano scrittori mancati o timidi che scrivono con parole altrui: una traduzione letteraria di alto livello s’inscrive nella cifra della scrittura, quindi scambiare le parti ritengo sia una cosa abbastanza naturale. Forse l’aver fatto del tradurre il mio mestiere ha a che fare con il desiderio di scrivere: una cosa un po’ vicaria. Di fatto ho sempre pensato di avere i tic e le idiosincrasie dello scrittore. Un modo esagerato e per certi versi perverso di vedere le cose.
Devo dire che ho cominciato a scrivere con una certa cautela, io sono anche editor, e penso e spero di avere un editor interno che funziona un po’ da super io: mi ritengo una scrittrice molto trattenuta e ciò credo derivi dal fatto che lavoro con le parole. In questi casi forse ci si accosta alla scrittura con una consapevolezza diversa. Con meno libertà, anche.
Quanto conta all’interno della tua attività di scrittrice il lavoro di traduttrice ed editor?
Non vorrei continuare a tradurre a tempo pieno, adesso avrei voglia di scrivere e dedicarmi all’editing, nonostante sia stato difficile pubblicare l’antologia. Gli editori vedono sempre con diffidenza i racconti. Sono belli, mi hanno detto in diversi, ma torna con un romanzo. A me però interessa esplorare questa misura narrativa forse anche perché non troppo pubblicata in Italia. Personalmente sono dubbiosa riguardo alle operazioni editoriali che confezionano un romanzo partendo da una raccolta di racconti. Spesso vedo che certi prodotti editoriali, nati per essere qualcos’altro, vengono trasformati in romanzi ma io non ho voglia di sperimentare questa strada.
Avrei voglia di scrivere, ti dicevo, e staccarmi dalle traduzioni perché noto che occuparmi della lingua altrui disturba la mia scrittura autoriale: oltre alla stanchezza alla fine di una giornata dedicata alla traduzione, ho bisogno di fare silenzio – anche letterario, far tacere la scrittura altrui – per scrivere. Anche perché, per forza di cose, credo, la mia scrittura è comunque molto legata alla mia attività di traduttrice: un’influenza digerita e metabolizzata che proviene dagli autori su cui ho lavorato c’è senz’altro, e io mi sono misurata principalmente con scrittori che hanno una voce molto potente avendo fatto poca gavetta in questo campo. E una voce letterariamente potente occupa molto spazio mentale, creativo, psicologico. Occorre metabolizzarla e, in qualche modo, liberarsene, prima di scrivere qualcosa di originale.
Hai un punto di vista privilegiato per illustrarci lo stato attuale dell’editoria italiana. Crisi persistente, ristagno o parvenza di ripresa?
Sono molto pessimista, mi dispiace. Negli ultimi due anni ho vissuto le cose un po’ più dall’interno rispetto a quando facevo soltanto la traduttrice e vedo un’editoria molto incerta e disordinata nelle proprie scelte, non riesco a individuare delle linee editoriali precise oltre alla corsa al si salvi chi può. Vedo come le cose non funzionano, le case editrici riducono il personale e sono sempre più frettolose, più oberate e quindi più disattente: questo fa male ai libri e a chi ci lavora. Anche il versante economico è sempre più difficile. Dirò una banalità, ma si pubblica tantissimo e gli editori con cui lavoro mi dicono che se non pubblicassero così tanto non potrebbero sopravvivere. Sono felice di occuparmi di una collana di classici perché mi sembra che sia il momento di rallentare e oltre che leggere occorrerebbe rileggere per tornare ai tempi naturali della fruizione del libro. Questa riproposizione dei classici spero che abbia, oltre a una motivazione economica, dato che sui classici non si pagano i diritti che scadono dopo settanta anni dalla morte dell’autore, l’idea del testo che rimane sullo scaffale della libreria per più di due mesi, al contrario della vita dei libri che escono oggi.
A proposito della collana di Neri Pozza?
I primi tre titoli della collana, quelli già usciti, sono stati scelti in modo molto idiosincratico e, diciamo, affettivo. Jane Eyre è un libro che ho letto in diverse età della vita, e ogni volta mi ha parlato in modo diverso. La piccola Fadette di George Sand l’avevo letta da bambina, e me lo ricordavo in modo nitido, in un qualche modo quella fiaba un po’ edificante mi aveva turbata – e infatti di motivi perturbanti ne contiene a iosa. La casa della gioia, di Edith Wharton, meno famoso dell’Età dell’innocenza, è un romanzo per certi versi più moderno, e aveva indubbiamente bisogno di una nuova traduzione che mettesse in luce questa grande attualità. Per quanto riguarda il futuro, insisterò con le Brontë, tutte e tre, e ci sarà una nuova Princesse de Cléves di Madame de La Fayette – un libro lontanissimo dalla mia sensibilità un po’ tempestosa (nel senso delle Cime!) – ma che mi affascina per l’esattezza geometrica con cui tratta i sentimenti, in particolare quello amoroso. E se me lo lasceranno fare, cercherò di espandermi geograficamente a nord, e temporalmente avanti, nel Novecento, e indietro, nel Medioevo.
Parliamo di editing: mi capita spesso di leggere romanzi – di esordienti ma anche di autori più affermati – che hanno delle ottime potenzialità che, se rese esplicite, avrebbero dato una qualità maggiore al testo. Nelle altre lingue come va?
Occupandomi di traduzioni, quando lavoro su autori contemporanei un editing, bene o male, è già stato fatto. Anche fuori dall’Italia credo che ci sia questa malattia della fretta perché mi capita di trovare veri e propri errori o magari delle piccole cose che se non danneggiano la qualità letteraria del testo danno fastidio.
Ho anche storie divertenti in merito, di cui una riguarda Ballard: ho tradotto Super Cannes e nell’originale a un certo punto c’è un rapporto sessuale tra i due protagonisti, Paul Sinclair e la giovane moglie Jane, e lei va in bagno a mettersi la spirale. Ho fatto un salto nella sedia perché la spirale in genere si mette dal ginecologo e non è una cosa piacevole. Ballard aveva già una certa età e sicuramente l’editor era un uomo e non ha pensato al diaframma, ha scritto proprio coil… Chiaramente i lettori italiani non hanno trovato alcuna spirale nel testo.
È anche vero che a volte si vedono vere e proprie lacune sull’impianto del testo: ho tradotto La casa rossa di Mark Haddon, dopo il successo de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, ed è stato molto faticoso perché il romanzo non comincia mai, ci vogliono cento pagine… Qui c’è stata una mancanza sulla struttura e questo libro, che pure secondo me aveva grandi potenzialità, non è andato per niente bene, infatti.
Le ambientazioni dei racconti di È di vetro quest’aria mi hanno colpito molto: rarefatte ed evanescenti, immobili come i protagonisti che sembrano in eterna attesa. Il tuo stile è molto essenziale e rigoroso. Giochi con le parole in maniera precisa, cercando di usarne il meno possibile. Non ci sono quasi mai riferimenti spazio–temporali che definiscano con precisione un luogo o un’epoca. Queste caratteristiche danno un taglio particolare ai racconti e secondo me rendono i testi più universali e, credo, più fruibili nel tempo, nel senso che manterranno più a lungo una loro attualità.
Cominciamo da quando dici che le vicende non sono situate in una situazione spazio–temporale precisa. È vero, non so quanto l’abbia fatto consciamente o quanto per un’idiosincrasia mia rispetto a certe narrative italiane… spesso sono infastidita dal regionalismo, dall’eccessiva attenzione di alcuni autori a una realtà molto locale, molto provinciale. Certo, m’interessa leggere ciò che accade in provincia però mi piacerebbe leggerlo come leggo Balzac, che sia applicabile alla provincia del mondo. Certe narrative italiane sono molto calate nel “territorio”… c’è tutta una linea di scrittura di giovani autori romani, per esempio, che ambientano le loro vicende nelle borgate, in una Roma di un certo tipo e io non riesco più a distinguere questi autori l’uno dall’altro. Trovo piccole marche di regionalizzazione che non mi piacciono. Per questo ho cercato altro, ma forse c’entra anche la mia storia personale di apolide, di sradicata.
Per quanto riguarda la lingua, è un po’ il discorso che facevo prima: auspicabilmente ho un editor interno, una specie di super io letterario molto cattivo che non mi permette di scrivere quanto vorrei. Il mio agente- editor, infatti, non è intervenuto sulla lingua: abbiamo discusso sulla successione dei racconti ma mi ha sempre detto che la lingua funziona, forse anche per il duro e umile lavoro quotidiano del tradurre, sicuramente una gran palestra per ogni scrittore.
Dopo aver letto Il progetto, il racconto dell’antologia che mi è piaciuto di più, sono andato a prendere nella mia libreria Super Cannes di Ballard, convinto che lo avessi tradotto tu e trovando conferma. Questo tuo racconto è molto ballardiano, sia come ambientazione (un’enclave supertecnologica) che come trama, ma sei riuscita a rielaborare il grande scrittore britannico rispetto alle tue esigenze letterarie con assoluta autonomia, con un taglio davvero particolare.
Spero sia così. Questo è stato il racconto più difficile e tormentato essendo il più lungo e il più complesso. Un’ambientazione simile è anche nel racconto Corpo a corpo, in entrambi è in atto una guerra, al proprio corpo in Corpo a corpo e al corpo altrui (o in difesa del proprio) nel Progetto. Spero di essere davvero riuscita a fare qualcosa di originale anche perché conosco questa ambientazione: ho vissuto in un luogo del genere per due anni, poi è chiaro che sia il vissuto sia l’esperienza letteraria siano confluite nel testo. Personalmente ho trovato queste zone terribili, ho sofferto molto e mi sono sentita totalmente estraniata. Questa la genesi autobiografica e letteraria del testo. Però non si è trattato di un fatto programmatico, non ho mai pensato di scrivere “come Ballard”. Però a posteriori ho visto anche io che Ballard c’era, in questi racconti.
Ci sono diversi fili conduttori tra i tuoi racconti. In quelli che mi hanno colpito di più uno è l’amore, direi diversi tipi di amore (copri quasi tutto l’arco di una vita nella raccolta), e il senso di estraniamento dal mondo circostante dei personaggi. L’amore non è mai visto come strumento di redenzione e i protagonisti non vivono vite felici.
Sì, ho messo anche dei versi in testa a un racconto, Come in autunno sul boulevard, di Mariangela Gualtieri, una poetessa che amo molto. Sono personaggi che cercano amore, soprattutto passione, come la protagonista del primo racconto, ma spesso non sanno a chi darlo. Ho pensato molto alla successione dei testi, con la mia agente volevamo fare una cosa organica. Lei era molto preoccupata dalla parola “racconti” e l’ha voluta definire opera. Si parte da un grado zero, dalla protagonista del primo racconto che è completamente separata dalla propria emotività. Ha paura, come molti, della passione ma allo stesso tempo la ricerca e non sa come procurarsela. In questo tema entra anche Come in autunno sul boulevard, in cui la protagonista ha voglia di farsi una storia d’amore. Un desiderio che sento molto nella vita reale, persone che vorrebbero innamorarsi e che non ci riescono e a volte “si fanno un film mentale”, come la protagonista del racconto. Per i miei personaggi spesso l’amore è una velleità e questo credo faccia parte del nostro tempo.
Per chiudere, cosa legge Monica Pareschi nel tempo libero?
Allora, questa traduttrice nel tempo libero legge tanta poesia, perché appunto il tempo libero è poco e la poesia è scrittura altamente concentrata e distillata, quindi dal punto di vista dell’economia del tempo conviene. Benn e Celan tra i tedeschi (con testo a fronte perché il tedesco lo sapevo ma me lo sono un po’ dimenticato, e poi entrambi hanno traduttori bravissimi). Tra gli anglosassoni, che fanno come sempre la parte del leone: Eliot, soprattutto i Quartetti, Dylan Thomas, Plath, Sexton, Bishop, Christina Rossetti, Emily Dickinson. Tra gli italiani contemporanei soprattutto Mariangela Gualtieri e un poeta dialettale secondo me grandissimo, Paolo Bertolani. Poi Sereni e Pagliarani. Cristina Campo, sempre. Ho letto molto Flannery O’Connor e Carver, scrittori che sento affini per il senso di misteriosa religiosità che li pervade. Alice Munro, per gli stessi motivi. Uno scrittore che mi ha colpita tantissimo, anche se frequento di rado quelle latitudini, è Lindgren Torgny, svedese, che ha scritto un romanzo incredibilmente bello, Miele, edito da Giano anni fa. Ultimamente ho letto un bel libro di Alessandra Sarchi, L’amore normale, edito da Einaudi.