E’ stato commemorato nei giorni scorsi ciò che dal punto di vista del pensiero antagonista non può sembrare altro che l’inizio del trionfo su scala europea del controllo indiretto del capitale finanziario sulla forza lavoro e sul territorio e della, momentanea, sconfitta del controllo diretto da parte dal capitale industriale sulla manodopera e qualsiasi tipo di risorsa economica.
Niente di più e niente di meno. Stati Uniti e Gran Bretagna contro Germania, in una sorta di campionato mondiale che aveva come unico obiettivo finale quello delle forme che il comando sul lavoro avrebbe dovuto assumere dopo la fine delle ostilità. Che, però, non sono mai finite.
Come ben dimostrano i conflitti scoppiati ancora una volta qui in Europa, con buona pace di coloro che insistono col dire che l’attuale unità europea abbia saputo garantire un periodo di stabilità durato più di sessant’anni.
Le guerre balcaniche che hanno viste coinvolte nei primi anni novanta, subito dopo la riunificazione tedesca, la Serbia, la Slovenia, la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. Poi il Kosovo e oggi, sempre più allargando l’area dei conflitti europei, l’Ucraina.
Guerre in cui i paesi europei non possono dirsi estranei e nemmeno gli Stati Uniti.
Guerre, la cui responsabilità, è stata scaricata interamente sui conflitti inter-etnici e sugli odi politici e religiosi antichi e locali. Soltanto per tener nascosti agli occhi dei cittadini europei, ammaliati dal discorso democratico e da un benessere ormai scomparso, la reale portata imperiale della competizione militare ed economica in corso allora come oggi.
Giulio Tremonti, vent’anni fa circa, grosso modo ai tempi delle rivolte in Albania contro il sistema delle piramidi finanziarie che avevano segnato il trapasso da un socialismo disumano al capitalismo delle migrazioni e della miseria, aveva affermato su una prestigiosa rivista politica americana, la Aspen Review, che occorreva riportare la povertà dell’Est nelle buste paga dell’Ovest.
Ebbene, ci sono riusciti! Ma lo scontro per chi deve comandare in Europa la forza lavoro, per le forme di sfruttamento che questa deve subire e per i vantaggi derivanti dal suo basso costo prosegue, nonostante le fasulle celebrazioni e le farsesche cerimonie svoltesi nei giorni scorsi.
Non saranno, però, i beceri nazionalismi a risolvere tale problema, mentre il loro progressivo diffondersi non è altro segno che dell’espandersi di quello scontro anche nel cuore dei paesi un tempo più ricchi. Esattamente come successe a partire dai Balcani tra la fine del 1990 e i primi mesi del 1991.
Il nostro D-Day non c’è ancora stato. Nonostante i tredicimila morti tra i militari degli eserciti contrapposti e i ventimila morti tra i civili della Normandia nessuna liberazione è giunta davvero fino a noi.
Ci resta in compenso la memoria dei bunker tedeschi del Vallo Atlantico, oggi sfruttati dal punto di vista di un turismo che sa di necrofilia e che all’epoca rappresentarono, al momento della loro costruzione, una notevole fonte di arricchimento per le ditte coinvolte nella loro realizzazione.
Realizzazione che, guarda caso, vide l’impiego di grandi quantità di calcestruzzo e di manodopera sottopagata o non pagata del tutto, costituita in massima parte da volontari, lavoratori forzati o prigionieri.
Vi ricorda qualcosa? Magari l’Expo? Oppure il Mose o il TAV? Non sbagliate.
I nostri bunker ci sono ancora tutti. Come le centinaia di militanti No TAV imputati nei processi intentati contro di loro dalla Procura di Torino sanno bene ancora oggi.
Il lavoro coatto esiste ancora e chi si oppone alle sue logiche e definito ancora terrorista e banditen.
La devastazione militare dei territori c’è ancora tutta. Così come ci sono ancora tutti i campi circondati da filo spinato e controllati da mezzi blindati e truppe in assetto di guerra. Sia che si tratti di presidiare un inutile e costosissimo buco scavato nelle montagne, sia che si tratti di tener rinchiusi come animali gli immigrati sbarcati sulle nostre coste.
No, il nostro D-Day non è ancora venuto.
Perché il nostro D-Day vedrà la fine di ogni bunker, di ogni menzogna, di ogni dittatura sul lavoro e di ogni devastazione dell’ambiente. Solo quello, allora, celebreremo.
E sarà una grande, grandissima festa!
N. B.
Il presente intervento è stato letto domenica 8 giugno davanti al cantiere TAV in Val Clarea nell’ambito delle iniziative promosse in occasione della manifestazione “Una montagna di libri contro il TAV” giunta ormai alla sua terza edizione grazie alla creatività, alla volontà, al coraggio e alla determinazione dei militanti del Movimento No TAV, della Libreria Città del Sole di Bussoleno, della Tabor Edizioni e dell’Associazione ArTeMuDa. A loro rivolgo ancora il più sincero ringraziamento per avermi permesso, per qualche giorno, di far parte di una delle comunità umane migliori tra tutte quelle che ho conosciuto nel corso della mia vita.