di Franco Avicolli
[Questo testo, che traduco dallo spagnolo, è stato letto il 4 aprile scorso alla presentazione, presso il Palacio legislativo de San Lázaro di Città del Messico, dell’enorme dipinto, ispirato al muralismo messicano, di Luciano Valentinotti, artista di cui abbiamo parlato su Carmilla nell’articolo “Luciano Valentinotti, partigiano italiano in Messico”. L’opera racconta La lunga notte di Ciudad Juárez, ma riassume benissimo molte altre realtà del Messico degli ultimi anni. Presento alcune foto del murale in una galleria in fondo al post, basta cliccare su un’immagine per ingrandirla, F. L.]
Cos’è la pittura? E’ un’attività che si realizza con pennelli e altri strumenti con il fine di distribuire su una superficie piana o curva alcuni colori o tracciare linee che disegnino una forma o nessuna. Di fronte ai nostri occhi c’è La lunga notte di Ciudad Juárez del pittore italiano, da oltre quarant’anni in Messico, Luciano Valentinotti. Per come si presenta sugli enormi pannelli che la compongono, è un’opera di pittura, vale a dire un modo di distribuire linee e colori su una tela per raccontare qualcosa, per dirci qualcos’altro, andando oltre il significato ordinario delle cose. Con i suoi strumenti, le sue tinte e i suoi pennelli Luciano cattura l’attenzione del pubblico, disegnando gruppi di figure, forme e colori che sono viva e cruda testimonianza. Se avviciniamo lo sguardo un po’, possiamo apprezzare che i tratti e le forme si definiscono: sono uomini, donne, bambini, fiori, alberi, ma sono anche armi, soldati in uniforme o uomini “mascherati”, incappucciati, con il viso coperto. Ci sono bare, case, soli, palloncini. I colori sono molti, come nei mercati e nelle essenze del Messico, e sono organizzati in modo che ciascuno di essi, e poi tutti insieme, riescano a creare un certo ordine nello spazio, affinché le forme esatte di cui si parlava interpretino un ruolo adeguato.
Se approfondiamo il dipinto e gli diamo tempo, l’attenzione necessaria, possiamo osservare in ogni scena una dura realtà, il tentativo di descrivere l’orrore ma anche la speranza. Alcune donne sono senza vestiti. La loro nudità non è capricciosa, non è casuale, ma rappresenta l’abuso, la volontà di coloro che le obbligano, le sottomettono perché si trasformino in oggetti. E rimandano alla strage irrisolta del Campo Algodonero (Campo di cotone), alle violazioni sistematiche dei diritti umani. Nell’immagine di questa città, sita alla frontiera con El Paso, appaiono persone che hanno indosso le scarpe, mentre alcuni, molti, camminano scalzi. Il rosso, il verde, l’azzurro, il nero e gli altri colori si distribuiscono e si abbinano in modo tale che la loro stessa consistenza passa a raffigurare un ente formale, un significato. Il sole compare quattro volte e si tinge di quattro colori diversi. Perché? Ci si chiede legittimamente. Altrove, dopo una sequenza che finisce con un funerale e un uomo con il volto coperto che punta un fucile contro un uomo inginocchiato, appare una scena in cui prevale l’impatto cromatico del verde, come se stessimo in un campo di mais, e di nuovo ci si può chiedere perché? Sono tante le questioni aperte, le domande legate al dipinto e ai perché della notte di Ciudad Juárez, e questo significa che viene suscitata la curiosità, che si aprono le porte verso dimensioni che non sono evidenti ma esistono.
Questa lunga notte, che in spagnolo si chiama La larga noche de Ciudad Juárez, comincia a diventare qualcos’altro, va oltre il dipinto e la vista immediata. Contiene storie. Ho chiesto all’autore Luciano Valentinotti di dirmi qualcosa di più sulla sua opera e mi ha risposto che il mondo che è raffigurato nel dipinto è fatto di bambini che giocano o desiderano giocare, cosa che succede a tutti i bambini: portano in giro aquiloni e palloncini ma passeggiano scalzi perché i loro genitori, contadini, non hanno modo di comprare loro sandali o scarpe. “Guarda”, mi dice, “ce ne sono alcuni che sì hanno le scarpe e in genere sono i ricchi, i potenti, i militari e i preti”. Tra di loro si notano uomini incappucciati e armati che arrestano, violentano e uccidono. E poi cercano di mettere paura ai genitori, agli amici delle vittime, affinché non celebrino un funerale.
“Il verde che appare poco più avanti è come un invito che faccio a chi guarda”, spiega Luciano che chiama “visitante” chi osserva il suo dipinto, “un invito a riposare per i visitanti, magari per pensare un po’ prima di fare ingresso in una città in cui li attende un’altra, l’ennesima, prova, il dolore di un altro fatto violento”. E’ notte, c’è una festa di compleanno in corso e, nel frattempo, altri uomini, anche loro mascherati, anche loro armati, irrompono per distruggere vite, per assassinare giovani che hanno meno di diciotto anni, forse bambini che nemmeno ne hanno dieci. Sequestrano alcune ragazzine per violentarle e dopo le uccidono, le interrano. Il femminicidio.
Un giovane appare crocifisso e dietro di lui un sole di colore arancione è puntellato da macchie di oscurità. E poi ci sono altre persone, gente minacciata. Un po’ appartati dalla scena, un gruppo di contadini a piedi nudi e un nugolo di bambini che tengono tra le dita i fili di alcuni palloncini, colorati con i toni della pace e della sua bandiera. Un po’ più avanti alcune chiome femminili, le teste di alcune donne, compaiono tra i palloncini. Sullo sfondo, dietro, è appeso al cielo un sole giallo, il sole vero che conosciamo, e domina la scena. Si susseguono decine di teste di donne senza i rispettivi corpi e ancora oltre ci sono braccia di ragazzini e bambini che spuntano dalla terra come se fossero fiori e permettono ai palloncini un libero volo nell’aria.
In seguito il dolore della moltitudine si compone in file di dignità e silenzio lungo una processione di candele e fiori. Un’altra pausa verde per il riposo e alla fine un gruppo di giovani ragazze che annunciano una vita che deve ancora essere. Le scene sono dominate da un sole mezzo rosso, passionale forse, e per metà nero, a significare o anticipare un prossimo lutto che la pistola, collocata nell’ultima sequenza del murale, sembra voler annunciare. Luciano mi ha condotto attraverso questa Larga noche de Juárez con le sue parole, io seguivo il suo racconto, rivedendolo nel dipinto, e guardavo il volto della sofferenza, interiorizzando l’essenza della violenza e la forza dell’amore per la vita, capendo quanto può essere indifesa, terribile e umanamente degna la povertà e quanto la speranza riesca indefessa a spingersi oltre l’abuso e l’ingiustizia. Grazie a un’opera di pittura che è arte, come questa lunga notte di città Juárez, ho rivisto il dolore di tanti, la violenza terribile, la faccia vitale dell’ingenuità che ricerca la vita, la speranza che mette in moto gli uomini, la povertà nella dignità e la ricchezza che invece anela tutto quel che è possibile. Ho pensato alla visione di Luciano che l’ha potuto raccontare.