di Alexik
Ci sono tradizioni Fiat (pardon, FCA) che sfidano lo scorrere del tempo, uniscono memoria e innovazione, fondano il “nuovo che avanza” su solide radici piantate nella storia. Sono la tradizione dei reparti confino, quella dei licenziamenti politici, della persecuzione degli operai più combattivi, delle espulsioni di massa.
E’ su questo know how, tutto orgogliosamente made in Italy, che la “fabbrica del futuro” di Marchionne produce ancor oggi uno dei suoi risultati di eccellenza: il progressivo annientamento fisico e psicologico sia di chi rimane nel ciclo produttivo, sia di chi ne è espulso.
L’annientamento degli espulsi, dei cassaintegrati, dei licenziati, è fatto di miseria, paura del futuro, mancanza di prospettive, di suicidio. L’annientamento di chi resta sulle linee è fatto di turni/ritmi/orari, di sudore ed infortuni, degli insulti dei capi, di umiliazioni sopportate in silenzio. Entrambi sono legati in un binomio indissolubile: la disperazione dei primi è garanzia della sottomissione degli altri.
A debita distanza dalla fabbrica vera e propria, come un lazzaretto di appestati, il reparto confino si erge a monito permanente per chi è rimasto in produzione: “puoi finire qui”, sembra dire. Ancor più che a punire i riottosi, esso serve a disciplinare la fabbrica.
Nel tempo i reparti confino della Fiat hanno avuto molti nomi: quello dell’Officina Stella Rossa dove Valletta sbatteva i comunisti, o delle U.P.A. di Romiti, recinti per gli sconfitti dei 37 giorni di Mirafiori. Oggi uno dei nomi è quello del “World Class Logistic” (WCL), uno stabilimento fantasma a 20 km dal Giambattista Vico di Pomigliano. Fantasma, ma non inefficiente: anche se non ha mai funzionato rispetta puntualmente gli standard produttivi in termini di morti operaie.
L’ultima ad ammazzarsi piantandosi un coltello nella pancia è stata Maria, seguendo di pochi mesi Peppe, che si è impiccato. Due operai del WCL cassaintegrati da sei anni.
Due compagni.
Maria faceva parte del Comitato Mogli Operai di Pomigliano d’Arco, Peppe era militante dello Slai Cobas. Se ne sono andati, ma non senza combattere. La storia della lotta contro la deportazione di 316 operai di Pomigliano al WCL di Nola è anche la loro storia.
Raccontarla è un modo per ricordarli in vita.
Giambattista Vico: i corsi e ricorsi di una pessima storia
Nel marzo del 2007 316 operai di Fiat Group Automobiles Pomigliano (la gloriosa Alfa Sud) vengono spediti ad un corso all’Inail di Napoli finalizzato al loro inserimento presso un costituendo Polo Logistico. E’ lì che comincia a paventarsi il loro trasferimento all’interporto di Nola, nell’ambito di un presunto progetto avveniristico che prevede la costruzione di un centro unico di smistamento della componentistica a servizio di tutti gli stabilimenti meridionali del Lingotto.
Una “ottimizzazione” ideata secondo logiche piuttosto contorte, visto che obbligherebbe i camion diretti alla Fiat di Pomigliano a fermarsi in un centro logistico a 20 km di distanza dalla destinazione finale, contabilizzare i materiali, e poi ripartire per scaricare la roba. Una scelta un po’ dubbia in tempi di just in time, che diventa però chiarissima verificando i criteri di selezione dei lavoratori destinati al cd “polo logistico di eccellenza”.
Nessuno di loro proviene dalle squadre addette alla logistica, nessuno di loro ne ha esperienza. In compenso la maggior parte può vantare almeno uno dei seguenti requisiti preferenziali:
- essere affetto da patologie invalidanti limitative della capacità di lavoro, in prevalenza tecnopatie contratte all’interno della stessa Fiat (42 %)
- essere iscritto allo Slai Cobas (24 %) o in subordine alla Fiom (6 %)
Data la composizione dei predestinati, l’operazione puzza già da subito di reparto confino .
Il trasferimento dei 316 fa parte di un progetto più ampio che Marchionne ha in serbo per Pomigliano, un piano di “modernizzazione” radicale di cui i maligni già prevedono i risultati: l’espulsione di centinaia di operai, il pugno di ferro su chi rimane. E’ in nome di questo piano che lo stabilimento chiude temporaneamente a fine 2007, per una fase di ristrutturazione delle linee ormai cadenti e obsolete. Nel frattempo per gli operai viene prevista la frequenza ai cd “corsi di formazione pesante”, dove dovranno apprendere le modalità di lavoro nella fabbrica del futuro. Ovviamente, anche i 316 destinati al polo logistico di Nola verranno formati ad hoc.
L’8 gennaio del 2008 i corsi cominciano in un clima tesissimo e surreale. Le lezioni vengono tenute nei reparti in ristrutturazione in mezzo ai cantieri dei lavori in corso; i vigilantes controllano la disciplina e la diligenza dei presenti, tanto che non si capisce se si è a scuola o in prigione.
Il 9 gennaio si contano due licenziamenti: una ragazza arrivata in ritardo e un giovane operaio che ha osato prendere la parola durante il corso. Il 10 è sciopero, indetto dallo Slai, a cui si uniscono gli altri sindacati. Fermando le lezioni, 200 tute blu sfilano nel corteo interno, dimostrando di sapersela cavare benissimo anche nella pratica della contestazione studentesca.
L’azienda risponde secondo le sue consuetudini, con decine e decine di procedure disciplinari e il licenziamento di Luigi Aprea, delegato Slai alle RSU, accusato di aver capeggiato la protesta. Oltre ad Aprea, altri 6 lavoratori, fra cui un RSU Fiom, ricevono le lettere di sospensione.
Nulla di nuovo. A Pomigliano la dirigenza ha il licenziamento facile. Lo sanno otto lavoratori espulsi nel 2006 per aver contestato in assemblea Fim, Fiom e Uilm dopo la firma del contratto dei metalmeccanici. Lo sa il dirigente dello Slai Vittorio Granillo, licenziato per aver promosso uno sciopero in difesa degli interinali della movimentazione interna, subappaltata a DHL.
Questa volta i licenziamenti per lo “sciopero dei corsi” rientrano quasi subito, ma in compenso la Fiat vieta allo Slai Cobas le assemblee perché “potenzialmente collidenti con il noto piano di formazione”. Fiom, Fim e Uilm scendono a più miti consigli, e firmano un accordo dove accettano i “corsi di formazione pesante”.
Il 3 marzo lo stabilimento riapre a scartamento ridotto. Lo stesso giorno, alle linee appena ristrutturate, un’Alfa 159 si stacca dal gancio girevole della catena di montaggio cadendo sulla postazione di lavoro. Non muore nessuno, ma sorge il dubbio che il restyling non sia stato fatto proprio così bene. C’è chi dice che gli impianti fatiscenti siano rimasti tal quali, che migliaia di vetture difettate si accatastino nella fabbrica, che lo sbandierato riammodernamento impiantistico sia una bufala.
“Non ci sono cali apprezzabili degli infortuni – sottolinea il delegato Fiom Sebastiano D’Onofrio – Gli impianti e i carrelli sono gli stessi, e continuano a verificarsi casi di scocche che si staccano dalle linee con seri rischi per i lavoratori”.
Vecchie linee dunque, ma nome nuovo: lo stabilimento viene intitolato al filosofo Giambattista Vico, la cui memoria non merita di essere associata a un carcere. Perché è questo che la fabbrica ristrutturata rischia di diventare. Il piano Marchionne prevede infatti l’introduzione di vigilantes e telecamere nei reparti per eliminare anche quei piccoli spazi informali che permettono agli operai di respirare, per spiare le relazioni sociali che nascono sulle linee, per prevenire sul nascere ogni insubordinazione.
Intanto i 316 non rientrano a Pomigliano perché vengono rispediti a un nuovo corso sul WCL presso l’Inail di Napoli. Al Giambattista Vico non ritorneranno mai più.
Cronache di blocchi e di mazzate
Per i 316 candidati all’espulsione l’ennesimo corso parcheggio diventa l’occasione per autorganizzarsi, trasformando le lezioni in assemblee. Nasce così un comitato operaio indipendente dalle sigle sindacali, che decide di reagire.
Il 4 aprile un primo sciopero riesce al 50%. La forma utilizzata al picchetto è il blocco delle auto dei colleghi: se vogliono possono andare a lavorare, ma devono farsela a piedi. E’ qui che la lotta contro i trasferimenti subisce la prima carica.
Il 10 aprile si replica lo sciopero. Questa volta è blocco totale e la fabbrica si ferma compatta. Alle 21.00 la Fiat di Pomigliano è presidiata con picchetti ai 5 cancelli. L’ingresso è impossibile per tutti, persone e camion.
Lo sciopero è un successo, ma il fronte sindacale è spaccato: mentre Fiom-Fim-Uilm-Fismic sono orientati ad ottenere un accordo di garanzia per i lavoratori trasferiti, lo Slai denuncia che “accettare una trattativa-farsa con la Fiat significa nei fatti accettare la sostanza dei reparti-confino e delle liste di ‘proscrizione’ con cui l’azienda intende ghettizzare i lavoratori ‘indesiderati’ per motivi sindacali o per ridotte capacità lavorative, conseguenza delle diffuse patologie professionali da sforzo prolungato”.
Nelle assemblee del 12, che coinvolgono migliaia di operai, le mozioni per un opposizione totale al trasferimento vengono approvate all’unanimità. Si decide di continuare i blocchi, limitandoli però ai 3 varchi merci, facendo passare i lavoratori che intendono entrare in fabbrica. Lo scopo è lasciare gli stabilimenti privi dei materiali da lavorare, costringendo l’azienda a mettere in libertà i lavoratori. Pomigliano serve Cassino, Melfi, Mirafiori. Un blocco ai cancelli prolungato può bloccare la produzione in tutta Italia. Questa coscienza sulla strategicità che ha settore logistico per l’intero sistema fa parte di un antico patrimonio operaio, ereditato oggi dai lavoratori che in tutt’Italia bloccano gli interporti e i magazzini della grande distribuzione.
Il 14 aprile più di trenta camion sono fermi davanti ai cancelli, formando una fila che blocca tutta la strada di accesso al Giambattista Vico. L’azienda cerca di escogitare soluzioni alternative per scaricare le merci, provando a portare i camion in una fabbrica adiacente, ma gli operai li intercettano e li bloccano.
Nonostante la lotta in corso, partono proprio quel giorno i 316 telegrammi che comunicano per il 5 maggio il trasferimento “per ragioni tecniche-organizzative al centro denominato ‘World Class Logistic’ destinato ad ottimizzare il rifornimento dei componenti alle linee di produzione” .
Contemporaneamente i dirigenti della Fiat fanno partire la domanda per l’articolo 700: cioè lo sgombero forzato degli operai per opera della polizia. Il prefetto si dimostra solerte: all’una del 15 arriva il via libera all’uso della forza. Da quel momento polizia e carabinieri possono caricare in qualsiasi momento.
All’alba dallo stabilimento decollano quattro elicotteri, carichi di semilavorati da inviare alle altre fabbriche del gruppo. Significa che la protesta ha colpito nel segno, ma anche che la Fiat diventerà più aggressiva. Poche ore dopo arriva dall’azienda la proposta di un tavolo di contrattazione, ma il vincolo che la dirigenza impone per sedersi a discutere è la smobilitazione davanti ai cancelli. I sindacalisti vogliono accettare. L’assemblea decide che i picchetti verranno tolti all’arrivo del fax di convocazione ufficiale, ma la polizia (che ha presidiato l’assemblea) pretende lo sgombero immediato. Quello che segue ci viene raccontato da un operaio, uno dei 316:
“Fuori dallo stabilimento c’era un’atmosfera particolare: una “scenografia” di montagne di fumo, camion girati, elicotteri che passavano sopra le teste, polizia che andava avanti e indietro… si vedeva ad occhio l’incazzatura che stava crescendo. Poi arriva questa famosa telefonata con cui dicevano che era pronto l’art.700, da lì molti operai cominciarono a preoccuparsi; poi c’è stato chi, come la FIOM, ha cominciato a strumentalizzare queste voci dicendo: togliamo i picchetti poi domani parleremo con l’azienda, la stessa identica procedura usata a Melfi. Purtroppo in questi momenti non tutti reagiscono allo stesso modo: c’è chi è incazzato come te ma forse ha più paura, non ha il coraggio di esporsi più di tanto. Tutto si è rotto con una telefonata; si è cominciato a dire che era meglio togliere i picchetti, di lasciare un presidio che domani si ragiona meglio.
Alla fine su un centinaio di noi rimanemmo in venti a tenere il picchetto dietro alle griglie che avevamo preparato per reggere le eventuali cariche della polizia. Gli altri operai si misero da parte a guardare lo spettacolo; io personalmente coi miei compagni decidemmo che se dovevamo chiudere il picchetto dovevamo farlo a testa alta, anche con le botte, però dovevano prendere il picchetto con la forza. La polizia, già pronta da giorni ci caricò con violenza, cademmo a terra uno sull’altro, manganellate… Poi accadde qualcosa di bello: quelli che si erano tirati indietro ebbero uno scatto di orgoglio e intervennero contro la polizia che si trovò circondata e fu costretta ad arretrare. Cinque minuti prima non volevano più sostenerci, poi vedendoci picchiati, per terra ci vennero in soccorso… fu davvero bello. Sta di fatto che ai picchetti c’erano donne, bambini, c’erano anche persone infartuate: la polizia caricò tutti, indiscriminatamente. La Fiat non si è fatta nessun scrupolo… per loro siamo solo carne da macello”.
Le cariche si lasciano indietro il consueto strascico di feriti. Arrivano i pompieri per spegnere il fuoco dei copertoni, le guardie tentano di portarsi via alcuni operai, e riescono a prendersene uno in stato di fermo. Arrivano i camion che entrano a decine. Il fax di convocazione del tavolo di trattativa, intanto, non è ancora arrivato.
Il giorno dopo la Fiat convoca le rappresentanze sindacali per decidere il futuro dei 316 esternalizzati. All’incontro sono ammessi solo le sigle confederali e Fismic. Restano esclusi i sindacati di base e una delegazione operaia. Sotto le finestre dell’unione industriali, il fitto e rumoroso presidio dei lavoratori viene assediato dalla celere.
Quando la delegazione esce sale la tensione. I sindacalisti iniziano a spiegare che sono arrivati alla rottura, che l’azienda non ne vuole sapere di trattare, che la situazione è difficile, che l’indomani valuteranno il da farsi. Ma nessuno di loro si ricorda della promessa di riprendere gli scioperi e i blocchi in caso di insuccesso della trattativa. I dirigenti dei sindacati confederali si allontanano protetti dalla digos, mentre una carica disperde chi si è attardato nel presidio composto da operai e studenti solidali.
Il 23 nelle assemblee al Giambattista Vico migliaia di operai approvano il ritiro del mandato a trattare ai sindacati confederali. Ma se questo impedirà, solo nel breve periodo, la firma di accordi truffa sul WCL, le misure decise per riportare i 316 a Pomigliano risultano troppo blande.
Lo Slai Cobas annuncia che ricorrerà alla magistratura del lavoro per invalidare i trasferimenti, che denuncerà l’azienda per comportamento antisindacale. Ma la magistratura ha i tempi lunghi, mentre il 5 maggio si avvicina. Il 28 aprile Slai Cobas e sindacati confederali decidono due ore di sciopero al giorno. Ci vuol ben altro per spaventare la Fiat, che dalle colonne del Mattino non manca di minacciare di licenziamento chi non si presenterà nel giorno stabilito all’interporto di Nola.
Il 5 maggio 2008 i 316 prendono servizio al WCL. Marchionne ha vinto. (Continua)
Riferimenti
Archivio Cobas Slai del Gruppo Fiat 2007, 2008.
Un’ondata di lotta. I sei giorni di Pomigliano, in “Luna Ribelle”, aprile 2008, pp. 1/19.
Resa dei conti a Pomigliano, in “Senza Censura”, luglio-ottobre 2008, pp. 45/48.
Giampiero Rossi, A Pomigliano sciopero riuscito, ma la Fiat tira dritto, “L’Unità”, 12 aprile 2008.
Barbara Meglio, Pomigliano: in fabbrica vince la linea dura, “Il Denaro”, 15 aprile 2008.
Patrizia Capua, Fiat Pomigliano, lettera ai lavoratori. “I conflitti mettono a rischio il piano“, “La Repubblica”, 18/04/08.