Tra le parodie d’autore del gotico la più nota è senz’altro Northanger Abbey di Jane Austen, 1817; ma almeno un’altra merita assolutamente memoria, benché meno frequentata dai lettori. A firma del narratore e poeta Thomas Love Peacock, Nightmare Abbey, 1818, è uno scatenato divertissement che coinvolge tutto il giro dell’amicissimo Percy Bysshe Shelley – la futura moglie Mary, Byron, Coleridge… – e offre scene di intatto divertimento. Se Nightmare Abbey fosse nato come film, tutto quel gioco di personaggi che si rincorrono, si dimenano, recitano teatralmente discorsi involuti e tenebrosi e magari s’innamorano, avrebbe meritato uno storyboard di Füssli: e leggendolo negli anni ormai lontani dell’università, appena apparsa l’edizione italiana per Theoria, era stato impossibile non immaginarlo recitato dai più gigioni maestri del macabro – quelli, per intenderci, delle riletture AIP di Poe. L’allarmato millenarista Mr. Toobad sarebbe stato perfetto interpretato da Peter Lorre; il ruolo del cupo, corrucciato trascendentalista Ferdinando Flosky ben calzava a un ormai maturo Basil Rathbone; mentre per il padre del protagonista Scythrop, l’atrabilioso vedovo Christopher Glowry signore dell’Abbazia degli Incubi, non potevo che immaginare Vincent Price.
A ottobre dell’anno scorso sono trascorsi vent’anni dalla sua morte, ma Price sembra ancora attivissimo. Le continue riproposte dei suoi film, tra i più godibili del fantastico di ogni tempo; le esilaranti comparsate televisive, e gli sketch pubblicitari che la sua presenza rendeva indimenticabili; i documentari presentati con l’inconfondibile voce, e un po’ tutte le registrazioni ora a disposizione tramite web di un pubblico assai più vasto dell’originale; il suo lascito come cultore d’arte – in particolare tramite il Vincent Price Art Museum – e le continue e affettuose citazioni di fan anche notissimi come Tim Burton, insomma l’ampiezza a tutto campo del suo lascito rende tale icona del cinema del Novecento una sorta di vecchio amico per chiunque apprezzi il linguaggio dell’immaginario. “Era un uomo estremamente divertente” ricorda un collega e amico, Christopher Lee, nella propria autobiografia. “Davvero, era di un eclettismo abbagliante. Conferenziere di consumata esperienza, spaziava dalla pittura, alla scultura all’arte culinaria, e acquistava oggetti d’arte per conto di Sears e Roebuck. Il suo sketch del cuoco alticcio che mostra la preparazione della Caesar salad è un vero e proprio gioiello di comicità televisiva. Si trovava egualmente a suo agio sul palcoscenico come davanti alla macchina da presa, ciò che si dice un modello di versatilità”.
La filmografia di Price è imponente, e vale la pena ripercorrerla almeno per sommi capi nelle stagioni ideali. A partire da quella che dal debutto nel ’38 in Service de Luxe corre fino all’inizio degli anni Cinquanta, e in cui Price si afferma come caratterista di eccezionale presenza scenica ben oltre il dato materiale del suo metro e novantatré di statura: basti pensare alle interpretazioni del patriarca mormone Joseph Smith in Brigham Young (1940), dell’integratissimo amico prete – poi vescovo – di Gregory Peck in The Keys of the Kingdom (Le chiavi del paradiso, 1944) o del nevrotico industriale del sapone nella frizzante commedia Champagne for Caesar (Botta senza risposta, 1950). Brillando però soprattutto quale vilain, nei panni del losco Nicholas Van Ryn di Dragonwyck (1946), del Richelieu di The Three Musketeers (1948), dello storico truffatore James Addison Reavis in The Baron of Arizona (1950) che lo vede raggiungere il ruolo di protagonista in un film non di genere, e di un’intera schiera di cattivi – ambigui, ironici, feroci – di noir e thriller. Oltre naturalmente al filone per cui in seguito raggiungerà fama mondiale, l’horror: come nello storico/gotico Tower of London (L’usurpatore, 1939) sulle nefandezze di Riccardo III – dove interpreta il duca di Clarence assieme ai futuri sodali di scampagnate macabre Rathbone e Karloff – e nel ruolo principale del fantaorrifico The Invisible Man Returns (Il ritorno dell’uomo invisibile, 1940). Una parte che peraltro riprenderà anni dopo per il divertito cameo vocale alla fine di Abbott and Costello Meet Frankenstein (Il cervello di Frankenstein, 1948).
Il fatto è che a questo punto le sue apparizioni nel macabro si moltiplicano: e senza dimenticare altri tipi di film (per esempio Casanova’s Big Night, 1954, dove in opposizione all’impostore protagonista offre uncredited un cameo del vero Casanova, o il kolossal di DeMille The Ten Commandments del 1956) gli anni Cinquanta rappresentano una vera e propria marcia trionfale di Price entro il genere horror. Un genere che si sta completamente ridefinendo con la fine dell’età dei mostri classici – dominata dalla Universal degli anni Trenta-Quaranta – e l’impennare del successo anche politico della fantascienza: e dove Price riesce ad aprirsi uno spazio personalissimo, modellando le parti a propria misura e riproponendo l’antica maschera del vilain gotico in termini fortemente teatrali. In effetti è proprio a teatro che aveva preso a recitare nel ’34: la sua carriera in palcoscenico era cominciata l’anno dopo a Londra – dove guarda caso tornerà idealmente quarant’anni dopo nei panni del fallito, egocentrico e vendicativo mattatore shakespeariano di Oscar insanguinato. Ancora alla fine della carriera, l’esperienza del teatro recherà a Price grandi soddisfazioni professionali: ma già dagli esordi ne aveva arricchito le stesse apparizioni su schermo, connotando lo stile di recitazione e l’eloquio molto classico da fine dicitore. Con la marcia in più recata dal suo inglese inusualmente limpido per un americano del Missouri (era nato a St. Louis), e affinato dopo Yale da studi all’Università di Londra.
È comunque questa la stagione di brillanti prove in proto-3D come House of Wax (La maschera di cera, 1953) e The Mad Magician (Il mostro delle nebbie, 1954) dove Price ha modo di sottolineare proprio la componente di spettacolo – macabro, s’intende – delle storie che domina con la sua presenza; delle mitiche commistioni tra SF e horror The Fly (L’esperimento del dottor K., 1958) e Return of the Fly (La vendetta del dottor K., 1959); del delizioso thriller gotico House on Haunted Hill (La casa dei fantasmi, 1959) in cui la scena del Nostro che muove uno scheletro con un improbabile sistema di fili rappresenta ormai un’icona. Non dimenticando The Tingler (Il mostro di sangue, 1959) che rafforzava la suggestione di trama sul cinema che uccide con un sistema che parrebbe inventato proprio dai mad doctors di Price, quel “Percepto” che comportava la (blanda) elettrificazione di alcune poltrone in sala per proiettare sugli spettatori le sensazioni dei personaggi. Nella fantasia The Story of Mankind (L’inferno ci accusa, 1957), il Nostro interpreta addirittura il diavolo; e nel frattempo alla radio la sua voce musicale e perfettamente impostata, lievemente nasale, che già l’ha consacrato quale Simon Templar ben prima di Roger Moore (1947-1951), spopola nel macabro Three Skeleton Key (1950, 1956, 1958).
Giungiamo così alla terza stagione, gli anni Sessanta che lo coronano tra i massimi interpreti dell’horror di tutti i tempi. Sono anzitutto gli anni del grande ciclo AIP su Poe con regia di Roger Corman, dove Price gigioneggia in tutti i film (meno The Premature Burial / Sepolto vivo con Ray Milland, 1962, di cui la casa si limita ad acquistare i diritti) e spesso accompagnato da una festosa combriccola di colleghi come Karloff, Rathbone, Lorre, Barbara Steele, Lon Chaney Jr. e un giovanissimo Jack Nicholson.
A partire da quel sinistro House of Usher (I vivi e i morti, 1960), che già suggerisce uno stile: una libera rilettura del testo di Poe in un sontuoso contesto scenografico dove Price impazza, tra trasalimenti, monologhi, sorrisi untuosi ed evocazioni di un cupo fato incombente. Seguono lo straordinario The Pit and the Pendulum (Il pozzo e il pendolo, 1961), in cui il rapporto nel segno del delirio tra l’inquisitore e il suo doppio meriterebbe una monografia a parte; il macabro e grottesco trittico Tales of Terror (I racconti del terrore, 1962), con il Nostro che ricopre tre ruoli finendo malissimo in tutti – ma brilla in particolare nei panni del sommelier Fortunato gigione e sciupafemmine; e The Raven (I maghi del terrore, 1963) dove Corman e lo sceneggiatore Matheson riadattano spudoratamente il desolato testo lirico di Poe in esilarante commedia, e il duello d’incantesimi tra il mago buono Craven/Price e il cattivo Scarabus/Karloff resta un inarrivabile capolavoro. Ma se Price è capace di dominare la scena, lo fa sempre con grande rispetto dei partner e una disponibilità generosa al gioco di squadra: famosa per esempio è la mediazione che proprio sul set di The Raven reca tra Karloff e Lorre, che non riescono a conciliare i rispettivi stili di recitazione – classico e strutturato l’approccio dell’anziano (e timido) attore britannico, quanto scatenatamente aperto all’improvvisazione quello del secondo, con la sua formazione teatrale espressionista.
Visto che il nome Poe vende bene, il titolo di una sua lirica viene imposto disinvoltamente al successivo The Haunted Palace (La città dei mostri, ancora 1963) per una storia in realtà ispirata a The Case of Charles Dexter Ward di Lovecraft. Si è talora contestata la libertà di trasposizioni dove i brevi, macabri arabeschi di Poe sono dilatati e trasformati secondo esigenze di spettacolo popolare: e tuttavia occorre notare che l’approccio di Corman e soprattutto l’elegante gigioneria di Price riescono a far emergere di quei testi una componente che spesso sfugge ai lettori dell’Americano Maledetto ed è invece di cruciale importanza, cioè proprio la dimensione teatrale. I cupi cortinaggi dei letti a baldacchino che velano e svelano epifanie della morte, le tappezzerie increspate da fremiti spettrali e gli arazzi da cui si staccano figure allarmanti tradiscono, in qualche modo, i caratteri del sipario. Poe era, non dimentichiamolo, figlio di attori – viene anzi da chiedersi se non sia questa la fantasia ereditaria indicata in vari racconti come matrice di febbrile visionarietà – e ossessionato dal motivo di una Maschera strumento di drammatiche epifanie di verità: i suoi racconti rappresentano ideali monologhi di teatro, e un certo istrionismo velato di ironia vi è spesso di casa. Le interpretazioni di Price che proclama le ragioni della Notte risulterebbero insomma certo gradite al connazionale scrittore del secolo precedente: e quanto il cinema – anche popolare, diciamolo senza vergogna – possa divenire in qualche modo esegesi della letteratura richiederebbe riflessioni apposite.
Certo, non c’è solo Poe. Nel 1961, in Master of the World (Il padrone del mondo), Price è il geniale e minaccioso ingegnere Robur dal dittico di Jules Verne, fronteggiando un collega che in genere associamo a un tipo di film piuttosto diverso, Charles Bronson; nel 1962, con la complicità di Corman, lambisce temi shakespeariani nel goticissimo remake omonimo del vecchio Tower of London (La torre di Londra), reggendo stavolta il ruolo livido del protagonista Riccardo III, e interpreta lo strano Confessions of an Opium Eater vagamente ispirato a de Quincey; mentre l’anno dopo torna a impazzare in Twice-Told Tales (L’esperimento del dott. Zagros, 1963) ispirato a tre testi di Nathaniel Hawthorne, e in Diary of a Madman (Horla – Diario segreto di un pazzo, 1963), libero adattamento di Le Horla di Guy de Maupassant. D’altra parte non è tratto da Poe ma potrebbe pretenderlo, per il comune marchio AIP e lo stile che flirta con la serie di Corman,lo spassoso The Comedy of Terrors (Il clan del terrore, 1964): Price & complici vi si scatenano in una nuova esilarante parodia del macabro, tra bare e presunti morti, con regia del grande Jacques Tourneur. Sceneggiatore storico della saga poesca ma anche di quest’ultimo film è un autore che conosciamo soprattutto per altri meriti: cioè quel Richard Matheson il cui I am Legend compare trasposto per la prima volta su schermo in questo periodo in The Last Man on Earth (L’ultimo uomo della terra, 1964) ancora con Price protagonista.
Ma il mattatore torna a Poe condue film bellissimi, sontuosi, visionari e cupi, The Masque of the Red Death (La maschera della morte rossa, ancora 1964) e The Tomb of Ligeia (La tomba di Ligeia, 1965) nuovamente diretti da Corman per AIP – ma senza Matheson, e girati in Inghilterra: e sono questi a chiudere in bellezza uno dei più straordinari cicli del cinema fantastico di ogni tempo. Nonostante il titolo e una breve citazione all’omonima lirica di Poe, City Under the Sea (20.000 leghe sotto la terra, 1965), diretto da Tourneur per la AIP, è infatti una gradevole e liberissima avventura fantascientifica; per Histoires extraordinaires (Tre passi nel delirio, 1968), grande omnibus poesco diretto da Vadim, Malle & Fellini, Price dona solo la voce quale narratore all’edizione in lingua inglese; mentre The Oblong Box (La rossa maschera del terrore, 1969) sempre AIP con regia di Gordon Hessler e molto distante dal relativo racconto di Poe, non ha nulla dello stile visionario dei sette film cormaniani. Ma su quest’ultimo set Price ha occasione di lavorare per la prima volta con Christopher Lee: ne nascerà un’amicizia, e il Nostro noterà come Lee sia uno dei pochi colleghi con cui intrattiene rapporti fuori dal set e quanto si diverta a recitare con lui. A sua volta Lee rievocherà nelle memorie la scena in cui i loro personaggi si incontrano – quello di Lee, in particolare, morente con la gola squarciata: “giacevo tra le sue braccia lì lì per esalare l’ultimo respiro, mentre mi chiedeva ‘Da che parte sono andati?’, e io tentavo di rispondergli gorgogliando attraverso la carotide squarciata. Vestiva un mantello ampio come una tenda, e per sbaglio finì con l’avvolgermici dentro: così che la macchina da presa poté indugiare a piacimento sugli spasmi della mia agonia, e mentre gorgogliavo lui continuava a ripetermi sottovoce ‘Mi stai rubando il mantello!’”.
L’anno successivo Price, Lee e il collega Peter Cushing verranno coinvolti in un altro film di Hessler, lo spy-fi Scream and Scream Again (Terrore e terrore, 1970) che dunque vede le tre Ombre Lunghe per la prima volta riunite assieme. Nonostante i limiti della pellicola, è affascinante veder misurarsi mattatori dallo stile tanto diverso: all’elegante istrionismo di Price, che sul filo dell’ironia gioca a interferire con la propria parte nel ruolo del mad doctor, si contrappone la rigorosa misura dei due colleghi inglesi nell’offrire ai propri schematici ruoli un riuscito, serissimo spessore di equivocità. Una differenza di approccio alla recitazione che d’altra parte si radica in diversissime formazioni e radici culturali (l’Inghilterra dei sacrifici, dei doveri e dei valori postvittoriani per Cushing e Lee, un’America ricca per Price rampollo di una famiglia di industriali e aperto al mondo di Hollywood) e vede un diverso stile di vita. Per esempio, a fronte dei due Dioscuri della notte britannici, rigorosamente e affettuosamente monogami, Price si sposerà ben tre volte. Ad avvicinarli è però qualcosa di ben più forte dell’accidentale frequentazione degli stessi set: uno spessore di dialogo nutrito di interessi e abilità artistiche anche fuori dalle scene, che strappa i loro profili dalle prospettive anguste del fandom sui mostri.
In teoria a reggere il timone di The Oblong Box doveva essere un altro regista, il talentuoso Michael Reeves morto però all’improvviso a soli venticinque anni per (accidentale, pare) intossicazione da barbiturici. Ed era stato Reeves a dirigere subito prima Price nella coproduzione angloamericana Witchfinder General (in Italia Il grande inquisitore, 1968, ma negli USA The Conqueror Worm per collegarlo forzatamente, ancora una volta, a un’omonima lirica di Poe): un film durissimo, che idealmente segna già la crisi d’epoca dell’horror nel passaggio verso gli anni Settanta, e dove attraverso notevoli tensioni tra regista e interprete (imposto a Reeves dalla produzione) emerge uno stile di recitazione del Nostro assai diverso da quello delle pellicole precedenti. Merita rammentare le considerazioni di Siegbert S. Prawer nel bellissimo saggio I figli del dottor Caligari: “Anche quando un attore sia giunto, a un certo stadio della sua carriera, a specializzarsi in ruoli ‘dell’orrore’, registi diversi possono portare alla luce facce diverse della sua personalità e diversi modi di proiettarle. Basti pensare alle prove di Vincent Price per Roger Corman (una nevrastenia e un sadismo snobistico che sono chiaramente recitati, con occasionali messaggi del tipo: ‘Non abbiate paura, sono soltanto io!’), per Robert Fuest (Price che si diverte, calca i toni, visibilmente ammicca ironico) e per Michael Reeves (ciò che vediamo nel Grande Inquisitore ha il senso dell’autentico male, e Price lo esprime in modo sottile e assolutamente serio)”.
Idealmente ricollegabile sul piano tematico a Witchfinder General – e ancora una volta connesso forzatamente a Poe – è un altro film di Hessler, Cry of the Banshee (Satana in corpo, 1970). Ma lungo il corso del decennio Price ha lavorato anche in altri generi, come nei casi del thriller La casa de las mil muñecas (Le false vergini, 1967) descritto come “quite possibly the sleaziest movie AIP ever made” o di commedie quali Dr. Goldfoot and the Girl Bombs (Le spie vengono dal semifreddo, 1966) a fianco – sorpresa – di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia e diretto da Mario Bava. E comunque spopola in TV, sia in serie quali Batman (indimenticabile e amatissimo il cattivo Egghead appunto con la testa a uovo, 1966-67) o F Troop (I forti di Forte Coraggio – dov’è il lugubre Conte Sfoza, 1967), sia in spettacoli di vario tipo.
Con gli anni Settanta Price è insomma ormai assurto all’Olimpo del cinema fantastico – e riesce ancora a stupire con capolavori come The Abominable Dr. Phibes (L’abominevole dottor Phibes, 1971) e Dr. Phibes Rises Again (Frustrazione, 1972) per il citato Fuest, e Theatre of Blood (Oscar insanguinato, 1973) di Douglas Hickox, nei quali la sua gigioneria teatrale ha modo di dispiegarsi in pienezza. Se il dottor Phibes si maschera – forzatamente, a copertura del volto devastato – il protagonista di Theatre of Blood, l’attore shakespeariano Edward Lionheart che con l’aiuto della figlia Edwina (Diana Rigg) stermina i critici che l’hanno sbeffeggiato, assume di volta in volta le parti che in opere del Bardo innescano il gore: uno straordinario tour de force di maschere, spettacolo nello spettacolo, di incredibile e nerissimo divertimento.
In questo periodo Price avvia un’amicizia nutrita di reciproca stima, telefonate natalizie e buffe cartoline per i rispettivi compleanni anche con il collega Cushing: e se questi non ha potuto accettare il ruolo del dottor Vesalius in The Abominable Dr. Phibes per restare vicino alla moglie malata, in seguito condividono i set di Dr Phibes Rises Again – dove Cushing ha appena un cameo – e soprattutto di Madhouse (1974), ultimo film di Price per la AIP, interessante e poco noto. Ma visto che con la crisi dell’horror tradizionale negli anni successivi il Nostro rallenta le apparizioni su grande schermo, si impegna però alla radio, in TV e in teatro – in particolare come Oscar Wilde in Diversions and Delights di John Gay, con regia di Joe Hardy (1977-1979), che verrà giudicata la sua migliore performance d’attore.
Giungiamo così all’ultima stagione della sua carriera, tra gli anni Ottanta e l’inizio del Novanta. Price è ormai un’icona, lo zio gigione che tutti amano sentir scandire versi con la bella voce, raccontare di cucina o sogghignare in buffe pubblicità, e può permettersi garbate fantasie horror di vecchio tipo (The Monster Club a fianco di un altro veterano, John Carradine, 1980), ma anche collaborazioni con Tim Burton (il doppiaggio del corto Vincent, 1982) e persino con Michael Jackson (l’album Thriller, 1982). Fino idealmente a quella parodia macabra House of the Long Shadows (La casa delle ombre lunghe, 1983), che, riunendo insieme lui, Lee, Cushing, Carradine e Sheila Keith, pur nei limiti di una storia un po’ debole, rappresenta una sorta di memento sulle glorie del gotico negli anni Ottanta di sostanziale eclissi. Per quanto ispirato al classico Seven Keys to Baldpate di Earl Derr Biggers, questo film crepuscolare finisce dunque a tratti con l’ammiccare alle vecchie letture di Poe: come quando, apparso nella villa fatale tra il rombare dei tuoni, il personaggio interpretato da Price prende a istrioneggiare spudorato in una meditazione sul tempo e la decadenza. Ribattendo al giovane protagonista che ha tentato d’interloquire: “Prego, non mi interrompa mentre mi cimento in un soliloquio” – con Price che fa il verso a se stesso, e ai teatralissimi monologhi di mezzo secolo sulle scene.
Le ultime interpretazioni comprendono il malinconico The Whales of August (Le balene d’agosto, 1987) e qualche horror e thriller minore, il doppiaggio del professor Ratigan nel disneyano Basil The Great Mouse Detective (Basil l’investigatopo, 1986) e di altri cartoni animati e documentari. Ormai molto malato – enfisema, morbo di Parkinson e in ultimo tumore al polmone –, il Nostro offre ancora la propria maschera paradigmatica per il mad inventor di Edward Scissorhands (Edward mani di forbice, 1990) del devoto Burton, anche se la parte viene sforbiciata proprio per le sue precarie condizioni di salute; e l’ultima apparizione è nel film TV The Heart of Justice (1992) anche se la celebre voce si udrà ancora nel doppiaggio del cartone animatoThe Thief and the Cobbler (1993) dalla travagliatissima lavorazione. Nato il 27 maggio come l’amico Lee, ma qualche anno prima (1911), Vincent Price muore ottantaduenne il 25 ottobre 1993.
Una carriera insomma densissima: ed è inevitabile che a tanta presenza su schermo faccia riscontro anche una certa quantità di progetti invece irrealizzati o disertati, che aprono intriganti domande e prospettive. A partire ovviamente dai casi di produzioni alle quali Price non può partecipare, e dove la sua parte viene presa da colleghi – lasciandoci però chiedere quanto diverse sarebbero risultate con la sua presenza.
Un primo esempio è la famosa coproduzione El Conde Drácula (Il conte Dracula, 1970), diretta da Jess Franco al termine del cosiddetto “periodo Towers” 1968-1970, dal nome del produttore inglese Harry Alan Towers con cui collabora per nove film. A interpretare Van Helsing troviamo il bravo attore di origine ceca Herbert Lom, che riesce a sopperire con la sua maschera intensa ai non pochi limiti di sceneggiatura cuciti addosso alla parte. Ma è legittimo domandarsi come sarebbe risultato il personaggio se a reggerlo fosse stato Price – come, sembra, a un certo punto vagheggiato. Possiamo immaginare per modello alcune interpretazioni coeve del Nostro – che anche senza lo spazio all’ironia altrove concessogli, avrebbe recato alla parte un surplus di ambiguità e gigioneria in fondo stokeriane. Per inciso Price poteva addirittura fregiarsi di aver preso un tè, tanti anni prima, con la vedova di Bram Stoker.
Un secondo, simile episodio si registra poco dopo, quando i colleghi Lee e Cushing sono coinvolti in uno dei film a episodi classici della casa Amicus, The House That Dripped Blood (La casa che grondava sangue, 1970), ispirata a quattro racconti dello specialista americano dell’horror Robert Bloch – poi coinvolto nelle sceneggiature. Dopo i toni cupi dei primi tre episodi, l’ultimo, The Cloak, è in chiave parodica: vi figura un bizzoso e maturo divo dell’horror, Paul Henderson, specializzato in ruoli da vampiro, che finisce vittima di una succhiasangue vera – una giovane collega con cui ha fatto il galante. A interpretare lei è Ingrid Pitt, reduce dal ruolo di Carmilla in The Vampire Lovers e impegnata nella caricatura di se stessa come diva Hammer; e per la parte di Henderson la produzione spera in Lee, che offrirebbe un’efficace valenza metacinematografica. Questi tuttavia, un po’ stufo di vampiri, preferisce inserirsi in un precedente episodio in tema streghesco; per cui la Amicus si rivolge a Price. In effetti sarebbe adattissimo e mostra di gradire la parte, ma non può accettarla per motivi contrattuali, vincolato com’è in tema di horror dall’esclusiva con la AIP (ciò che basta a spiegare anche il precedente, mancato arruolamento in El Conde Drácula). Alla fine nel ruolo subentrerà Jon Pertwee, più noto come Dottor Who: e la sua performance gotica risulta divertente, anche se non può competere con quella che avrebbero offerto i due specialisti.
In questi casi è Price a non partecipare a produzioni che decollano con altri attori; ma in altri il film che avrebbe dovuto vederlo interprete non sarà mai realizzato, a confinare i progetti nella nebulosa dell’unfilmed cinema – un limbo dalla straordinaria potenza evocativa che costituisce come una sorta di ombra o doppio sfuggente della storia degli schermi nota, e del quale il Mastorna di Fellini è solo uno degli esempi più eclatanti. Alcuni di questi progetti – o meglio voci su progetti – attorno a uno dei personaggi più amati della filmografia di Price sono presentati da Mario Gerosa in un libro molto interessante, Robert Fuest e L’abominevole Dottor Phibes. Storie e misteri di una leggenda del cinema (Falsopiano, Alessandria 2010): dove apprendiamo che al dittico sul folle dottore varato dal geniale Fuest sarebbe potuto seguire un terzo film. A seconda però delle fonti interpellate il contenuto (con relativo, possibile titolo) sembra cambiare parecchio, a suggerire che l’ipotesi restasse poco più che una speranza dei produttori; e i nemici del dottore sarebbero stati ora nazisti (The Brides of Dr. Phibes), ora distruttori dell’ambiente (The Son of Dr. Phibes) o magari satanisti. In un progetto titolato The Seven Fates of Dr. Phibes, la bella e muta assistente Vulnavia si rivela addirittura l’incarnazione di Atena: e “Alla fine Phibes, dopo aver avuto di nuovo il volto e aver riacquistato la voce, sarebbe asceso al Paradiso con la moglie [rediviva] e con Vulnavia su un organo volante, naturalmente sulle note di Over the Rainbow”. La salita al Cielo del pluriomicida più simpatico della storia del cinema mantiene un sapore di anti-buonismo tanto delizioso da lasciarci costernati della mancata realizzazione. Più vicino nel tempo, è poi rimasto purtroppo irrealizzato anche un altro progetto che si annunciava intrigante, il documentario Conversations with Vincent che Tim Burton meditava di girare col Nostro nella Vincent Price Gallery, 1991.
Film non interpretati, film neppure realizzati. Eppure nel caso di attori come Price – o, in termini diversissimi, i colleghi Cushing e Lee – l’unfilmed cinema conosce in fondo latitudini assai più vaste. Con il suo stile tanto particolare, l’istrionismo elegante, l’ironia pronta a emergere da parti spesso sopra le righe, la propensione stessa alla parte del vilain, Price ha regalato una maschera, o piuttosto una vera e propria categoria dell’immaginario, indefinitamente richiamabile sui nostri palcoscenici interiori. In questo senso gli unfilmed film di Price strabordano da qualunque elenco possibile, e le fantasie su Nightmare Abbey accennate all’inizio rappresentano solo un piccolo esempio del suo impatto sulle strutture simboliche del pubblico. Se per esempio prendiamo in mano romanzi gotici come The Castle of Otranto o The Italian di Ann Radcliffe, non è difficile veder interpretati da Price il tormentato, tirannico Manfred o il pessimo padre Schedoni; così come potrebbe essere lui l’equivoco protagonista del thriller psicologico Uncle Silas di Le Fanu – e infinite figure fino alla letteratura nostra contemporanea e verso il futuro, in un’immortalità quale nemmeno Phibes avrebbe potuto sognare.
In questo senso, Price finisce con l’impazzare in opere che formalmente non ha mai recitato – ma nelle quali lo arruoliamo noi. Prendiamo dunque Vulnavia per mano, diamo la spinta all’organo volante e mettiamoci in ascolto del fine dicitore che soliloquia. Parte, sullo sfondo, Over the Rainbow.