di Walter Catalano
Sono reduce dal concerto di Leonard Cohen a Lucca. Era la quarta volta che partecipavo alla liturgia poetica e musicale dell’inossidabile canadese: già lo avevo applaudito al Teatro Olimpico di Roma nel 1987, in Piazza Santa Croce a Firenze il 1 settembre 2010 e ancora a Lucca nell’estate del 2008. Ogni volta tre ore impeccabili e senza cedimenti di identica emozione e commozione. Con certi autori ho un debito forte, sono nel mio cuore e ci resteranno fino all’ultimo battito, e uno di loro è sicuramente Leonard Cohen: fin dall’adolescenza ricordo troppe serate malinconiche, sbronze tristi, amori infelici curati al suono delle sue canzoni e ripetendo i versi delle sue poesie come mantra che non possono salvarti ma alleviano il dolore. Per i momenti di esaltazione c’erano i Led Zeppelin o i Deep Purple, i Blue Oyster Cult o Patti Smith, ma quando le cose cominciavano ad andare male (cioè spesso), il salvagente era la sua musica, la sua voce monotona e profonda, la progressione quasi flamenca di accordi in minore, l’inconfondibile arpeggio della chitarra con corde di nylon. Le sue poesie le leggo fin da quando sono stato capace di orizzontarmi con l’inglese ai tempi del liceo e le sue canzoni le ascolto da ancora prima: fin dalle medie. Si può dire che sono cresciuto al suono di Suzanne, uno dei primi pezzi che ho imparato sulla chitarra. Non mi illudo quindi di essere obbiettivo quando si parla di lui. A quasi ottant’anni continua a sedurre, il vecchio Lenny, un po’ incurvato ma ancora agile ed elegante: canta spesso in ginocchio di fronte al suo pubblico e ai suoi musicisti, togliendosi il Fedora Stetson nero, come quello dei rabbini, dalla bella testa canuta e appoggiandoselo sul cuore: e non è un’affettazione. Mi fa ricordare ancora quello che disse una volta, tanti, troppi anni fa, Vittorio Curtoni, un po’ stufo di parlare solo di fantascienza ad un gruppetto di giovani aficionados: “Ragazzi, ascoltate Leonard Cohen: fa bene all’anima”. Parole sante.
Leonard Cohen nasce nel 1934 a Montreal (Canada) in una ricca famiglia ebrea appartenente alla minoranza anglofona del Quebec. Laureatosi in letteratura alla McGill University, acquisisce fin da giovane una certa notorietà come poeta, pubblicando varie raccolte di versi (l’esordio con “Let Us Compare Mytholgies”, è del 1956), Nella prima metà degli anni ‘60 scrive due romanzi: “The Favourite Game”(1963), sorta di “ritratto dell’artista da giovane” colto attraverso la sua vita sentimentale e sessuale, e “Beautiful Losers” (1966), epopea mistico-sensuale a metà strada fra Joyce e la Beat Generation. In quegli anni vive già ritirato in relativo eremitaggio nell’isola di Hydra, nell’Egeo, dove convive con una norvegese (la Marianne della famosa canzone: “So long Marianne”) ed il figlio di lei Axel. Nel 1967, torna in America e, con l’aiuto della cantante Judy Collins, la prima artista famosa a incidere Suzanne, che lo spinge letteralmente sul palcoscenico durante un suo concerto, intraprende la nuova attività di cantautore. La fine dei ‘60 e la prima metà dei ‘70 lo vedono come una sorta di anti-Dylan: schivo, intimista e poco propenso all’invettiva politica. Parallelamente alla carriera di songwriter, continua a praticare instancabile, in modo più sommesso ma costante, quella di scrittore e di poeta. Alla fine degli anni ‘60 si sposa con Suzanne Elrod (non la stessa della famigerata canzone) conosciuta ai corsi di pre-clear di Scientology, una fra le molte tappe del suo disordinato ma intenso cammino spirituale (ne resta traccia in una canzone: la splendida Famous Blue Raincoat, in cui si fa riferimento allo stato di clear). Suzanne gli dà due figli: Adam e Lorca (nome scelto in onore del suo maestro ideale: Federico Garcia), divenuti oggi musicista il primo, fotografa la seconda – ma il matrimonio naufraga presto. Leonard resta un Ladies’ Man – come si definisce ironicamente lui stesso (“la mia fama di ‘donnaiolo’ mi ha sempre provocato amare risate durante le migliaia di interminabili notti che ho passato da solo”) – un “donnaiolo”, cantore dell’unità dell’amore spirituale e sensuale, come i poeti sufi persiani: impossibile legarlo ad un unico focolare.
Fra i folksingers americani – ammesso che sia mai stato un folksinger, solo per aver suonato una chitarra acustica nelle sue canzoni – è in assoluto il più europeo (l’influenza francese del nativo Quebec si fa sentire: molto più di Dylan si orecchia spesso nei suoi brani, Jacques Brel) e fin troppi cantautori nostrani gli sono debitori (De Andrè traduce con grazia tre sue canzoni: Suzanne, Giovanna d’Arco e Nancy e De Gregori si appropria, forse con meno grazia, di molti versi e sequenze di accordi nei suoi primi pezzi come La casa di Hilde o Bene). Una galleria di personaggi, casti e sensuali, dolci e selvaggi, emerge dalle composizioni sofferte e sofisticate del primo Leonard Cohen: Suzanne, eccentrica amica, “vestita di stracci e piume”, che come “Nostra Signora del Porto” – la protettrice dei marinai dei dock di Montreal – offre rifugio e bellezza e “tè e arance venute dalla Cina” e un amore al di là del sesso, perché – dice un verso memorabile – “ha toccato il tuo corpo perfetto con la mente”; l’eroina Giovanna d’Arco, stanca della guerra, che cerca un amante e incontra il fuoco del suo rogo, scegliendo di bruciare di passione e consumare le nozze mistiche “perché se lui era il fuoco, lei sarebbe stata il legno”; il piccolo Isacco simbolo dei figli eternamente sacrificati sugli altari delle logiche dei padri, “tentati da un demone o da un dio” e presa di distanze dal pacifismo di maniera dell’epoca (“e se ora mi chiami fratello, perdonami ma bisogna chiarire in accordo ai piani di chi. Quando tutto torna alla polvere, ti aiuterò se posso, ti ucciderò se devo. Quando tutto torna alla polvere, ti aiuterò se devo, ti ucciderò se posso. E pietà per le nostre uniformi, uomo di pace e uomo di guerra: il pavone fa la ruota”); Nancy, figlia di un magistrato, suicida per l’impossibilità di conformarsi alle regole borghesi della sua famiglia, non una prostituta quindi (come travisa De André nella sua “traduzione”) ma solo una ragazza ribelle che “indossava calze verdi e andava a letto con tutti”.
La discografia si costruisce in sordina, quasi prodotto di nicchia per intellettuali occhialuti e malinconici: un esordio strabiliante (Songs of Leonard Cohen, 1967), LP magico dalle atmosfere rarefatte e dagli arrangiamenti scarni ma efficacissimi in cui non figura canzone né particolare che non contribuisca a creare un mito: dalla copertina che ci mostra in virato seppia un Leonard dal volto tristissimo e vagamente somigliante a Dustin Hoffman e sul retro la riproduzione del santino messicano Anima Sola, dedicato al culto della anime del Purgatorio (e anticipazione della Giovanna D’Arco in estasi fra le fiamme che la liberano dalle catene), ai fiabeschi tocchi di clavicembalo ed echi di carillon, agli angelici cori femminili sovrapposti al basso della voce solista (non ancora profonda come l’attuale, ottenuta da Leonard smettendo di fumare…): fra i tanti, tutti indimenticabili pezzi, ricorderò solo Stranger Song, Sisters of Mercy, Winter Lady, scelti da Robert Altman come leitmotiv del suo western crepuscolare McCabe and Mrs. Miller del 1971 (“E’ vero che tutti gli uomini che hai conosciuto erano mercanti che sostenevano di aver cessato i loro traffici ogni volta che hai offerto loro un rifugio. Conosco quel tipo di uomo: è duro stringere la mano a uno che cerca il cielo solo per arrendersi. E poi spazzando via i jolly che si è lasciato alle spalle scopri che non ti ha lasciato molto, neppure una risata: come ogni trafficante cercava solo la carta che fosse tanto alta e libera da non doverne mai chiedere un’altra. Era come Giuseppe in cerca della mangiatoia. E poi un giorno, affacciandosi al davanzale della tua finestra, dirà che hai indebolito la sua volontà con il tuo amore, il tuo calore, il tuo rifugio ed estraendo dal portafoglio un vecchio orario dei treni ripeterà: “Te l’avevo detto quando sono arrivato che ero uno straniero”. Ma ecco che un altro straniero sembra volere che tu ignori i suoi sogni come fossero il fardello di qualcun altro: hai già visto quell’uomo, il suo braccio d’oro distribuiva le carte, ma ora è arrugginito dal gomito alle dita. E voleva scambiare il suo gioco con un rifugio. Detesti guardare un altro uomo stanco passare la mano come rinunciasse al santo gioco del poker. E mentre dice ai suoi sogni di dormire noti che c’è un’autostrada che si arricciola come fumo alle sue spalle. Gli dici di entrare e di sedersi, ma qualcosa ti fa voltare: la porta è aperta, non puoi chiudere il tuo rifugio; provi la maniglia, si apre, non aver paura: sei tu, amore mio, la straniera. Ero in attesa, ne ero certo, che ci saremmo incontrati fra i treni che aspettavamo: credo sia tempo di salire su un altro. “Ti prego di capire, non ho mai avuto una mappa segreta che mi conducesse al cuore di questa o di qualsiasi altra questione” – quando parla così non capisci dove voglia arrivare. “Incontriamoci domani se vuoi, lungo la riva, sotto il ponte che stanno costruendo su qualche fiume senza fine”. Poi lascia la piattaforma per il vagone letto dove fa caldo e capisci che sta solo pubblicizzando un altro rifugio. E dici: “Ok, il ponte o qualche altro posto, più tardi”. E poi spazzando via i jolly che si è lasciato alle spalle scopri che non ti ha lasciato molto, neppure una risata: come ogni trafficante cercava solo la carta che fosse tanto alta e libera da non doverne mai chiedere un’altra. Era come Giuseppe in cerca della mangiatoia. E poi un giorno, affacciandosi al davanzale della tua finestra, dirà che hai indebolito la sua volontà con il tuo amore, il tuo calore, il tuo rifugio ed estraendo dal portafoglio un vecchio orario dei treni ripeterà: “Te l’avevo detto quando sono arrivato che ero uno straniero”); (“Tutte le Sorelle di Pietà non se ne sono andate o partite: mi aspettavano quando pensavo proprio di non poter più andare avanti, e mi hanno dato conforto e poi anche questa canzone. Spero che anche tu le incontrerai, tu che hai viaggiato così a lungo. Proprio tu che devi abbandonare ogni cosa che non sia in tuo controllo: si comincia con la famiglia ma presto si arriva all’anima. Anch’io sono stato sospeso nel tuo stesso punto e credo di sapere quanto ti abbia messo alle corde: quando non ti senti santo la tua solitudine rivela che hai peccato. Ma si sono sdraiate al mio fianco e a loro mi sono confessato, mi hanno toccato entrambi gli occhi ed io ho toccato la brina sul lembo del loro vestito. Se la vita è una foglia che le stagioni consumano e condannano, ti fasceranno di un amore aggraziato e verde come uno stelo. Quando me ne sono andato stavano dormendo, spero che le incontrerai presto: non accendere la luce, puoi leggere il loro indirizzo sulla luna. E non sarò geloso sapendo che hanno addolcito la tua notte: non eravamo amanti in quel modo e comunque andrebbe bene lo stesso”).
Il secondo disco, Songs From a Room (1969), forse meno baciato dalla grazia quanto ad arrangiamenti ma in cui, “come un uccello sul filo, come un ubriaco in un coro di mezzanotte”, Leonard distilla capolavori come Bird on the Wire, Story of Isaac, It’s Seems So Long Ago Nancy, You Know Who I Am, Lady Midnight o il commovente omaggio alla Resistenza francese, divenuto un vero e proprio inno antisistema, The Partisan (“quando hanno passato il confine mi fu intimata la resa, ma questo non potrò mai farlo: ho preso il fucile e mi sono dileguato; ho cambiato nome molto spesso, ho perso moglie e figli, ma ho trovato molti amici… eravamo in tre stamattina, sono solo stasera, ma devo andare avanti: le frontiere sono la mia prigione… Oh soffia, soffia il vento, fra le tombe soffia il vento, presto saremo liberi: allora usciremo dall’ombra.”).
Il terzo, Songs of Love and Hate (1970), viene inciso a Nashville con orchestrazioni più articolate e qualche apertura country, fra i brani memorabili Joan of Arc, Avalanche e soprattutto Famous Blue Raincoat, (trasposta, non molto felicemente, in italiano e al femminile da De André per Ornella Vanoni) forse in assoluto la canzone più bella mai scritta sul triangolo amoroso e sui tortuosi meandri del ménage à trois: Leonard si mette in campo in prima persona con una lettera firmata col suo nome e cognome all’amante della moglie (“Sono le quattro del mattino, la fine di Dicembre; ti scrivo ora solo per sapere se stai meglio, fa freddo a New York ma mi piace dove abito: a Clinton Street c’è musica fino a sera. So che ti stai costruendo una casetta in mezzo al deserto: vivi per niente adesso, spero tu tenga una specie di diario. E Jane tornò con una ciocca dei tuoi capelli, disse che gliela avevi data la notte che decidesti di fare chiaro. Hai mai fatto chiaro ? L’ultima volta che ti abbiamo visto sembravi così invecchiato, il tuo famoso impermeabile blu era strappato sulla spalla; sei stato alla stazione ad aspettare tutti i treni ma sei tornato a casa solo, senza Lili Marlene. Hai usato la mia donna come un fiocco sulla tua vita e quando è tornata indietro non era più la moglie di nessuno: ti rivedo laggiù con una rosa tra i denti, un altro sottile ladro zingaro. Bene, vedo che Jane si è svegliata, anche lei ti manda i suoi saluti. E io cosa posso dirti, mio fratello e mio assassino, cosa potrò mai dirti ? Credo che mi manchi, credo di averti perdonato. Sono contento che tu mi abbia intralciato la strada. Se mai tornerai qui, per Jane o per me, il tuo nemico starà dormendo e la sua donna sarà libera. E grazie per la pena che hai tolto dagli occhi di lei: a me sembrava che ci stesse bene, così non avevo mai provato. Jane tornò con una ciocca dei tuoi capelli, disse che gliela avevi data la notte in cui decidesti di fare chiaro. Sinceramente L. Cohen.”).
[CONTINUA]