di Marilù Oliva
Donatella Di Pietrantonio, Bella mia, Elliot Edizioni, Roma, 2014, pp. 191, € 17,50.
Il titolo Bella mia non è riferito a Caterina, la protagonista del romanzo, e nemmeno alla sua gemella morta. È un’invocazione affettuosa intonata a L’Aquila, cantata in una filastrocca popolare che rievoca la nostalgia di chi la ricorda da lontano. E lontana è ormai la città, agli occhi dei suoi cittadini, dopo il 6 aprile 2009. Le macerie si amplificano a simbolo interiore di distruzione, lo sgomento allenta i vincoli e dissipa le aspettative. Le C.A.S.E., ovvero il complesso di nuovi alloggi prefabbricati in cui le famiglie sentono moltiplicarsi il senso di precarietà, diventano scenario minimo di un romanzo che si arricchisce di più ampi sfondi: quello del fantasma di una città sventrata e, soprattutto, quelli interiori di vite in via di ricostruzione, alla ricerca di un equilibrio che si rintraccia solo dopo aver camminato sul dolore. Il dolore non è solo il lutto, in questo caso quello della gemella che Caterina ha perso durante la fatidica notte del terremoto: è morta e ha lasciato in eredità suo figlio Marco. Il dolore è anche la ricomposizione, l’incastro tra quelli che rimangono e che, a volte, non sanno quali misure prendere con l’esistenza. Anche perché i ricordi premono, delle volte costringono a fughe forzate, come nel brano che vi proponiamo qui sotto (pp.38-40): è la notte di quello che sarebbe stato il compleanno delle gemelle e Caterina può superarla solo in solitudine.
Donatella Di Pietrantonio, tra i dodici finalisti dell’edizione 2014 del Premio Strega, è nata e ha trascorso l’infanzia ad Arsita, un paesino della provincia di Teramo. Oggi vive a Penne. Esercita la professione di dentista pediatrico e il suo primo romanzo, Mia madre è un fiume, è uscito per Elliot tre anni fa. [ Marilù Oliva]
«L’uomo alla reception mi registra senza neanche uno sguardo e sono contenta di non doverlo ricambiare. Salgo nella stanza.
La notte trascorre, in qualche modo. Le tende pesanti odorano di polvere e fumo stagionato quando le tiro al massimo per escludere il sole dell’alba, un coltello doloroso nelle pupille ancora dilatate. Siedo sul letto sfatto, verso il comodino. Alla luce stretta della lampada preparo il bicchiere di cognac versato dalla bottiglia che mi sono portata dietro da sola, le dieci compresse di Tavor in fila sul ripiano di legno finto. Avverto l’amaro della prima sulla lingua, il sorso di liquore brucia la mucosa da tanto astemia, ne butto giù un’altra, sorso di cognac e un’altra un’altra un’altra, sempre seguita dal sorso che non vuota mai il bicchiere infinitamente capace. O forse l’ho riempito una o due volte. Sento tutti i centimetri di lunghezza dell’esofago incendiato, la rivolta nello stomaco digiuno. Resisto. Reprimo i conati con una fredda sequenza di deglutizioni.
Schiaccio l’interruttore e mi avvolgo nelle coperte, di nuovo gemella dormo in questo grande utero scuro la mia morte provvisoria. Il risveglio cade in un’ora imprecisa della sera. Non so dove vomito. Dopo sprofondo in una seconda filata di ore, più breve. Alla fine accendo l’abat-jour e vomito ancora un po’ di acido cloridrico sul pavimento tra il letto e il tappeto. La testa è un alveare impazzito e pulsante, ricomincia piano a percepire il corpo, la debolezza. Bevo acqua dal rubinetto del lavabo, in bagno. Evito con cura lo specchio e resto a lungo sotto la doccia, attenta alle garze della mano infortunata. Poi asciugo una pelle estranea e sorda, un deserto di cellule dove il sangue tarda ad affluire, i nervi stentano a riattivarsi. Durante il giorno del sonno, l’organismo si è ridotto a un grumo battente centrale, un piccolo nucleo di vita condensata, e da lì riparte adesso l’onda del calore conservato, verso la superficie pallida e spenta. I tessuti si dispongono a ricevere nutrimento, i cicli riprendono. Non mi oppongo.
Apro le tende. Il tempo che ho voluto perdere è già ieri. In uno ieri più vecchio ho aiutato mia madre a lavarla, vestirla. All’inizio c’era qualcun altro con noi nello stanzone gelido, una figura indistinta sullo sfondo, sul bianco della parete, di sicuro una donna, non so chi. Poi deve essere uscita, ci ha lasciate sole quando ha capito che avevamo trovato la forza, sul momento, per quello che andava fatto.
Non avremmo permesso a nessuno di occuparsi del nudo di Olivia, dei suoi orifizi indifesi, del torace schiacciato. Lei ci contrastava passiva, con una rigidità minerale. Una polvere a grana grossa le copriva soprattutto le mani e il viso intatto, come una cipria pesante per un carnevale atroce.
I capelli non si potevano lavare, li abbiamo solo scossi per liberarli di quello sporco secco e friabile. Alla fine era bella, l’abbiamo guardata e baciata, io uno sulla fronte e sua madre tanti, ai piedi, alle mani, alle guance e alla testa, accarezzandola. Solo allora l’ha bagnata di lacrime, non prima, mentre la preparava. Le ha parlato, a lungo, con parole che non ricordo. Olivia era pronta all’incontro con Marco. Anche di quello non ricordo niente, o devo essermi allontanata. All’ultimo minuto le ho tagliato una ciocca, dalla nuca, altrimenti non me lo avrebbe perdonato, e l’ho presa per me. L’ho conservata in una scatolina di carta fiorita, ogni tanto la apro per vedere se almeno questo ricciolo può restare uguale nel tempo che lo separa da lei. Per adesso l’unico cambiamento percettibile è che i capelli appaiono un po’ più aridi, opachi, a passarli tra pollice e indice si sente subito la differenza. Non sono attaccati alla vita».