di Valerio Evangelisti
Paolo Pasi, Ho ucciso un principio. Vita e morte di Gaetano Bresci, l’anarchico che sparò al re, ill. di Fabio Santin, Elèuthera, 2014, pp.178, € 14,00
Lo ammetteva anche un reazionario incallito come Montanelli: Gaetano Bresci è un personaggio che riesce inevitabilmente simpatico, e che è difficile – se non si è monarchici convinti – percepire come un assassino. Il perché lo spiega il titolo stesso di questo libro di Paolo Pasi, che Eléuthera pubblica arricchito da numerosissime, ammirevoli illustrazioni di Fabio Santin. Degno erede dell’arte di Flavio Costantini, a mio parere.
Come in altre biografie di anarchici apparse presso lo stesso editore (il Malatesta di Vittorio Giacopini, per esempio), la chiave scelta da Pasi nel narrare Bresci sta a metà tra narrativa e saggio. Soluzione tanto più necessaria in quanto di Bresci si conoscono i dati biografici essenziali, ma si ignorano tratti di personalità e aspetti della sua vita interiore. Visse troppo poco, dopo avere ucciso Umberto I, per lasciare tracce profonde di se stesso.
Mussolini socialista si chiese: “Che cos’è un attentato al re, se non un incidente sul lavoro?”. In realtà il gesto di Gaetano Bresci fu molto di più di un attentato. Fu un atto di giustizia individuale ma di fatto collettivo, la punizione storica del Re Mitraglia. Reo di avere premiato i massacratori di centinaia di proletari, nel ’98 milanese ma anche nel resto della penisola. Un incoraggiamento del sovrano a proseguire sulla stessa strada. Come si fece, in effetti. Gli eccidi di povera gente, nel primo decennio del ventesimo secolo, furono innumerevoli. Massacrati a grappoli, per essersi ribellati alla fame, per avere lanciato sassi contro chi impugnava fucili. Bersaglio principale il Meridione, dove le masse erano meno organizzate e più indifese.
Un gesto inane, l’attentato di Bresci? Lo sostennero i socialisti riformisti, e persino qualche anarchico. In realtà, beneficiarono tutti di quei colpi di revolver, anche se Pasi – nei limiti temporali della sua narrazione – non lo dice. Nel 1900 il Partito socialista era di fatto fuorilegge, i suoi più illustri esponenti si trovavano in galera. Dopo Monza, la persecuzione si allentò, il partito tornò legale. Lo rimase fino al fascismo. Qualcuno, in alto, si era preso paura. Meglio lasciare una certa libertà alle organizzazioni proletarie che rischiare un colpo di rivoltella. Un uomo può essere un simbolo, ma resta un uomo. Vulnerabile.
Sappiamo che, in seguito agli spari di Monza, la repressione si inasprì brevemente. Ma sappiamo anche – ce lo ha raccontato Armando Borghi – che nelle osterie romagnole andò esaurito il Sangiovese. Si brindava a Bresci. L’Inno individualista, composto pochi anni dopo, proponeva di imitarlo. Non avvenne, a parte il tentativo non riuscito di D’Alba, e forse fu meglio. Però si generalizzava la necessità di un Bresci collettivo. Un eroe vendicatore, magari con le sembianze di una maschera anonima. Qualcuno capirà a cosa alludo, pensando al presente.
Mi risparmio ulteriori considerazioni, rimandando al libro. Mi ha colpito un passaggio. Bresci, alla vigilia dell’attentato, si intrattiene con una donna incontrata per strada. Durante gli interrogatori, incalzato, rifiuta di farne il nome e soprattutto di definirla una prostituta. “Non lo era”, dice semplicemente. Mostrandosi così più nobile di un Umberto I qualsiasi, cultore del sangue blu e spillatore di sangue rosso.
Agli eredi di Re Mitraglia, repubblicani o meno, l’augurio di molti “incidenti sul lavoro”. Un Bresci vive in noi tutti. Ai giorni nostri freme. Aspettate che si scateni.