di Ferdinando Fontana
[Ferdinando Fontana (1850-1919) fu commediografo, scrittore, poeta e librettista per Giacomo Puccini. Scrisse questo poemetto nel 1880 quale “epistola a Enrico Bignami” (1844-1921), fondatore del giornale socialista “La Plebe”. Il testo ebbe ampia circolazione sulla stampa “sovversiva” dell’epoca.]
Dal dì che pochi dissero:–“Ecco i nuovi orizzonti!”
E che un fiero entusiasmo–scintillò sulle fronti,
E che feudi e tiranni,–pregiudizii e messali
Entraron, colla peste,–nel novero dei mali,
L’umanità riarse–d’una febbre incessante:
Dei soffrenti si mosse–l’esercito gigante,
E la tema scotendo–giù dai dorsi avviliti,
Sorse a chieder ragione–degli insulti patiti.
Furon giorni di sangue;–rosseggiaron le vie…
E` ver!… Colle zizzanie–cadder rose e gazzie…
Ma pari alle tempeste–son le amare vendette!
Non han leggi in entrambe–e castighi e saette!
Gli stolidi soltanto–vorrebber la Natura
Eguale al freddo svizzero–che i suoi colpi misura!
Un tempo era il carnefice–del popolo maestro;
Ei l’educò alla scuola–dei ceppi e del capestro;
Al codice mitissimo–il popolo educato
Si vendicò col sangue;..–come aveva imparato.
Al!… Non gettiam la pietra–su chi lava un oltraggio!
Chi, fra noi, del perdono–ebbe sempre il coraggio?
Nelle pagine lunghe,–su cui veglia la Storia,
Tra le feste d’un giorno,–tra una colpa e una gloria,
Tra il sovrapporsi assiduo–d’un evento a un evento,
Dalle viscere umane–esce sempre un lamento!
Cristo, anch’egli, degl’empi–rese il braccio più ardito!
E fu il giorno che in croce,–per le angosce sfinito,
Gridò un’ultima volta:–“Sopportate e tacete!”
Gli empi ne profittarono.
–E quando ei disse: “Ho sete!”
D’aceto e fiel gli porsero–una spugna bagnata!
Or ben, quando dei buoni–fu la bontà oltraggiata,
Non un giorno, ma secoli,–essi tacquer pazienti…!
E gli empi li derisero–raddoppiando i tormenti.
Ma venne il dì che i buoni-dissero anch’essi: “Ho sete!”
E avean sete di scienza,–di liberta`!…
“Bevete!…”
Fu lor risposto.
E il sangue–si diede lor dei figli!
E morirono i padri–su fetidi giacigli!
E messe alla tortura–fur le membra del saggio!
Ah!… Non gettiam la pietra–su chi lava un oltraggio!
Cristo era un uomo-dio;–noi non siam che mortali!
Ei sapeva che il cielo–esisteva; che i mali,
Con cui l’avean qui in terra–i tristi vilipeso,
Gli fruttavan la gloria–del trono ov’era asceso!
Ma per noi questo cielo,–questa speranza sola,
E` un mistero!… Per noi–il cielo è una parola!..
Perché voler, da fragili–e grame creature,
Ciò che forse è miracolo–per divine nature?
Ma libriamoci in alto;–tra il vero e l’ideale;
Ove l’aria non sfibra–questa carne mortale!
E guardiamo sugli uomini;–sui viventi dell’oggi;
Su coloro che popolano–le vallate ed i poggi,
E che, orgoglio di vermi,–raggiungendo una vetta,
A Giove antico atteggiansi–che scaglia la saetta…
Guardiam giù…
Questo fiume–fatto di teste umane,
Questa immensa valanga,–questo esercito immane,
Ha un nome!
Lo si mormora–con riverenza: Il Mondo!
Ei cammina!… Ei cammina!…
–Nel cerebro fecondo
Dei mille pensatori–egli attinge i portenti,
I segreti, che danno–la vittoria.
Le genti,
Attraverso agli oceani,–si favellano; i cieli
Si spalancano; cadono–i fantastici veli
Che rendean sacra d’Iside,–nei templi egizii, l’ara;
Ogni giorno che sorge–ha un raggio che rischiara;
Ogni giorno che passa–ha una tenebra spenta;
E sull’eterna via–dei suoi destini (lenta,
Per la vita degli uomini;–per un’idea, veloce)
Mille grida adunando–in una sola voce,
Travolgendo implacabile–chi non vuole o non vede,
Questa immane fiumana,–questo Mondo procede!
Avanti!… Avanti!… Al mare,–o mistica fiumana!
Alla foce!… Alla foce!…
–Ov’è dessa?… E` lontana!
Lontana più del sole!–Più del sol misteriosa!
Chi potrebbe, osservando–ogni uomo ed ogni cosa,
Predir l’ultimo giorno–dei terrestri abitanti?
Ma che importa!…
Alla foce!…-Al mare!… Avanti!… Avanti!…
Pur, come un dì le streghe–di Macbeth sul sentiero,
A soffermar per poco–del Mondo il passo altero,
Sorgon tre sfingi; e sono–sfingi rabbiose e grame;
I moralisti ipocriti,–gli eserciti e la fame!
O roditori eterni–delle umane famiglie,
Che dei padri cadenti–insultate le figlie,
Perché portan nel seno–un bambino illegale;
Che vorreste la donna–ad una pietra eguale;
Che eccitandone i sensi–con arti sopraffine
Bramate, come i vecchi,–veder ignuda Frine
Per turpemente chiederle:–“Sei tu ancora innocente?”
O roditori eterni,–che dell’età fiorente
Odiate i baci, e fate–che le madri, non spose,
Cadano nei postriboli,–come foglie di rose
Sui letamai; che, primi,–l’indagine vietando
E incutendo nei cuori–un terrore esecrando,
Obbligate le madri–a uccidere i bambini;
O voi, che non leggete–negli umani destini
Quest’ardente desio–di pace e fratellanza;
Voi, che abbagliando gli uomini–con cinica baldanza,
Togliete ai campi il braccio–dei giovani ventenni
Per armarlo nei giorni,–in cui le idee solenni
Sorgono a dimandare–che giustizia si faccia;
O voi, che li spingete–all’orribile caccia
Delle conquiste; o voi–che beati ridete
Nelle comode case–e buoni vi credete
Perché date una veste–allo spazzacamino;
O voi, gretti ambiziosi,–che annebbiate col vino
L’orizzonte ristretto–d’un esile onorario,
E, colla banda in testa,–ed al passo ordinario,
Sfilate per le vie–tronfiamente, perché
Un circolo operaio–surse vostra merce`,
Ditemi, nei banchetti,–parlando agli operai,
A chi smuove la terra–non ci pensaste mai?…
I poeti d’Arcadia–han pensato a costoro!
Essi cantaron Fille,–Tirsi, Clori e Lindoro;
Coprirono di cipria–le piaghe puzzolenti;
Sulle teste dei villici–versaron l’acque olenti;
Nascosero gli stracci–sotto i nastri ideali;
Posero loro in bocca–idilii e madrigali;
Indi li presentarono–alle dame annoiate!
Oh!… Vigliacchi sarcasmi!–Oh!… Ironie scellerate!…
Questi pastor da scena,–questi villan galanti
Sono un popol di schiavi–dalle miserie affranti!
Queste Filli, che cantano–canzonette sì gaie,
Sono donne che muoiono–nelle immonde risaie!
Questi Tirsi e Lindori,–che sputan madrigali
Son pellagrosi e tisici!–Son carne da ospedali!
Questi eroi dell’idilio,–nell’amore maestri,
Stancaron fin ad oggi–e giudici e capestri!
E, fra le lunghe prediche–di parroci o curati,
Fra le sevizie orribili–di chi li ha dissanguati
Per sprecar in un’ora–quanto ha negato loro
Pel lavoro d’un anno;–fra la sete dell’oro
E la fame, gli errori–e lo spregio, i meschini.
Gli arcadici pastori,–son ladri ed assassini!
Mentre noi cittadini,–nelle sere d’estate,
Sorbiamo, a suon di musica,–le bevande diacciate,
Essi cadon dal sonno,–veglian pallidi e infermi
Nei campi, nelle vigne,–o attorno ai mille vermi
Che daranno la seta!…
–Mentre noi, nelle sere
Invernali, danziamo,–o cerchiamo al bicchiere,
O al teatro, o al tepore–d’un buon letto, la gioia,
Essi treman dal freddo–su una lurida stuoia
Sdraiati, e addormentandosi–nelle insalubri stalle,
Invidiano lo strame–ai bovi e alle cavalle!
Lamentando una salsa–noi biasciam le vivande;
Essi mangiano un pane–ch’è peggior delle ghiande!
Noi ci lagniam d’un nodo–nei fili d’un lenzuolo;
Essi dormon vestiti–sovra un umido suolo!
Gli operai cittadini–sono ricchi in confronto;
Men terribile è il male–ove il soccorso è pronto!
Noi possiamo, mendichi,–trovar pietose mani;
Essi son soli, poveri,–quasi ignoti… lontani!…
E la Fame li decima!
–Oh! La Fame!… L’arcano
Problema, che scombussola–ogni sistema umano!
Come mai questo squallido–fantasma esiste?
Noi
Siamo pochi; la Terra–è grande; i frutti suoi
Dovrebbero bastare–a color che vi stanno!
Chi ruba?… Chi nasconde?–Ov’è dunque l’inganno?
Perché dunque chi suda,–e raccoglie, e lavora,
Digiuna presso un uomo–che oziando divora?
Perché mai chi le glebe–feconda di sua mano
Ne reca ad altri il frutto–e muor di fame?
E` strano!
Io so ben ch’è una fisima–l’eguaglianza sociale,
Poiché, qui in terra, tutto–è bene, e tutto è male;
Poiché ciascuno al mondo–predilige un tesoro;
Il savio i suoi volumi,–l’usuraio il suo oro,
Il poeta i suoi sogni;–poiché è vana speranza
Fra miseria e ricchezza–ottener l’eguaglianza:
Poiché fin che degli uomini–saran diversi i volti
E nasceranno belli–e brutti, furbi e stolti,
Deboli e forti, arditi–e timidi, i mortali
Si rassomiglieranno,–ma non saranno eguali;
So, che se tutti gli uomini–avesser oggi un pane
Chiederebbero unanimi–il lusso alla dimane;
So che è propria natura–d’ogni nostro bisogno
Di svanir, soddisfatto,–creando un altro sogno;
Ma so ancor che un diritto–inconcusso è la vita;
Che sovra cose ed uomini–una legge è scolpita,
Una legge che domina–eventi, gaudi e lutti;
Che la Terra ci grida:–“Figli, vivete tutti!”
Oh!… Tremiamo!… Nel sacro–nome di questa legge,
Che prodiga i suoi doni–e che tutti protegge,
Forse, un giorno, può insorgere–questo popol di schiavi!
L’ire represse in Furie–posson mutar gli ignavi!
I fucili cadranno–dinanzi alle bidenti!
Come i patrizii antichi,–i borghesi piangenti
Baceranno i figliuoli–per morir di mannaia!
Le canzoni, che ai padri–narrarono dell’aia
E dei campi le cure,–tuoneran tra i macelli…
E saran la funebre–ironia dei ribelli!
Quelle mani incallite–saccheggeran le alcove
Dove i ricchi dormirono–i lunghi sonni, e dove
Procreavan tiranni–alla timida plebe!
I badili e le vanghe,–use a romper le glebe,
Sfracelleran le teste–dei bimbi e dei vegliardi!…
Oh!… Facciamo giustizia–prima che sia già tardi!
Prima che sorga l’alba–di quel giorno tremendo!
Facciam che i nostri figli–non bestemmin piangendo
L’avidità degli avi–che, coi pingui retaggi,
Avran lasciato ad essi–il livor dei servaggi!…
Ed or, rispetti umani;–inutili timori;
Fanciulleschi desiri–di fanciulleschi onori;
Genuflessioni timide–ad idoli tarlati,
Arido galateo–coi nemici garbati;
Martirii del cervello,–che proromper non osa
Per mercar da un giornale–una linea graziosa;
Amarezze inghiottite;–malintese prudenze,
Che contro il rancidume–delle viete sentenze,
Domate i sillogismi–del bollente pensiero;
Oltraggi silenziosi–allo splendido Vero;
Tacite abiurazioni–per la lode d’un giorno;
Debolezze dell’uomo,–venitemi d’attorno!…
Io vi lascio sul limite,–che non varcai finora,
Perché siete il tramonto–ed io voglio l’aurora;
Perché se noi, qui in terra,–viviamo una giornata,
Io d’ineffabil luce–la mia vo’ illuminata;
Perché, sazio degli uomini,–io voglio amar l’Idea;
Perché gli oscuri baci–di questa sacra Dea
Valgono i mille affetti–della gente piccina;
Perché val più il delirio–d’un sogno che affascina.
Dell’entusiasmo d’obbligo–d’un ballo mascherato;
Perché ai dolor dei molti–io mi sono temprato,
Perché i ghigni di scherno,–la fame e la Censura,
(Dalla fronte brevissima)–non mi fan più paura;
Perché la solitudine–amo più della folla;
Perché abborro i miasmi–d’una carne già frolla;
Perch’io cerco per scrivere–una pagina bianca
E sui vecchi caratteri–il mio sguardo si stanca!…
Enrico, il cor mi batte–di generoso orgoglio!
Sì, nella santa pugna–esserti al fianco io voglio!
Noi propugniamo i dritti–della famiglia vera,
Dei morenti di fame!
–Sulla nostra bandiera
Noi non scriviam: Rivolta!–Scriviam: Giustizia!
Molti,
Che mi furon diletti,–lo so, torcendo i volti,
M’avran da questo giorno–in abbominio!
I grulli
Negli amori e negli odii–sono sempre fanciulli!
Odian senza discutere;–aman senza pensare!
Tal sia di loro!…
Avanti!…–Avanti!… Al mare!… Al mare!
Alla foce!… Alla foce!…–Degli errori all’oblio!…
Dammi la mano, Enrico,–son socialista anch’io!